L'ADDIO

Segnali di vita

Umberto Croppi

Non sono certo molte, né grandi, le occasioni che la vita politica italiana di questo fine secolo offre per le emozioni forti, per le tensioni interiori. La palude contamina tutto. Andando indietro col pensiero a questi ultimi anni, resta come una impennata isolata, come un momento grande, come una esperienza capace di fornire ragioni che durano nel tempo, quell'avventura del Congresso dell'84. Senza retorica ma anche senza vergogna debbo dire che, per la prima volta dopo tanti anni, per l'ultima da allora, un fatto politico è riuscito a coinvolgermi fino nel profondo, a commuovermi. E di commozione vera si trattò, vissuta collettivamente da quel drappello che rompeva il conformismo doroteo di un «partito bloccato», che rinunciava ad equilibri e collocazioni di organigramma per piantare un seme in un terreno che i più ritenevano ormai inaridito.

Nessuna cosa cancellerà dai miei ricordi quell'ora di gelo, di ostilità, di silenzio di una «classe dirigente» che nella sua interezza veniva messa in mora, veniva chiamata a rispondere sul terreno di una consapevolezza e di una moralità politica che dai motivi stessi della convocazione di quel congresso celebratorio erano stati banditi. Quell'ora di rovente emozione e di solidarietà che una platea mai così tesa tributò a quell'uomo isolato, umiliato anche nella lunga attesa fattagli subire sotto il podio prima di concedergli il microfono, mentre snocciolando le fustiganti ragioni dei nostri «segnali di vita» si staccava, emergeva dal grigio di una compagine di cui non riusciva più a condividere i motivi.

Fu il punto di distacco più profondo tra il partito «legale» e quello «reale». Basterebbe quell'ora, quel momento per legare il nome di Beppe Niccolai alla storia migliore del MSI, ai suoi momenti più alti.

Fu in quella occasione che si consolidò la conoscenza e l'amicizia tra chi scrive e Niccolai. Ci eravamo conosciuti, su sua iniziativa, solo qualche mese prima; Beppe stava cominciando a cercare una strada per scuotere il partito dal suo torpore: il percorso che ha caratterizzato tutti questi ultimi anni della sua vita, a cui ha dedicato un impegno totale e logorante. Quel suo «tormentarsi», «farsi del male», su cui molti superficiali e sciocchi hanno speculato o ironizzato non comprendendolo, era il segno invece della grande vitalità delle sue idee, di una volontà di rigenerazione costante.

La più importante indicazione che ci venne da Beppe in quei giorni, e che ha costituito il filo conduttore dei suoi ragionamenti successivi, era la necessità di una ricomposizione del pensiero scisso dalle ideologie ottocentesche, «l'era delle rivoluzioni» come lui la chiamava constatandone la fine. Si tratta di una indicazione radicale che, oltre all'alto valore morale, costituisce un elemento di riflessione e di guida politica che va al cuore della comprensione di questi nostri tempi. Tanto più grande se si considera che essa veniva da un uomo la cui storia personale era stata profondamente segnata da quelle divisioni, da quelle scissioni.

Questo percorso di riunificazione ha costantemente avuto due risvolti. Quello interno, con l'appello sempre più spesso rivolto, fino al suo ultimo discorso, al suo ultimo scritto, per la riscoperta del senso di una amicizia e di una solidarietà da ritrovare pur in presenza della diversità e degli scontri dialettici. Quello esterno: un'intuizione così grande, un progetto così ambizioso non poteva limitare i suoi riflessi confini di un partito ed infatti tentativo di ricomprendere in maniera unitaria la nostra storia nazionale lo ha fatto balzare all'attenzione dei molti osservatori esterni come uno dei riferimenti imprescindibili della politica italiana. I riconoscimenti di Sciascia, di Mughini, di Ignazi e di infiniti altri restano a testimoniarlo.

Nello scrivere ora su "L'Eco", per la prima volta dopo la pubblicazione della mia letteraccia della primavera scorsa, non posso sottrarmi all'obbligo di farvi riferimento. Mi sono chiesto, in questi giorni, se dovevo provarne pentimento e mi son detto di no, perché così facendo sarei venuto meno a quello stile che lui ci aveva insegnato a condividere. Chi lo ha conosciuto davvero era (è) legato a Beppe da un sentimento che travalica di gran lunga la semplice amicizia e che finiva addirittura per essere rafforzato dagli scontri (quello a cui mi riferisco non è stato l'unico) svolti sul piano della lealtà. È proprio questo rapporto che lui aveva con tutti i suo collaboratori che mi induce ancor oggi (come avverrà, credo, per molto tempo) a chiedermi per ogni decisione: «Ma cosa, avrebbe detto Beppe?».

Non dirò, con la retorica che lui aborriva, quella delle commemorazioni, che Niccolai è ancora vivo; verranno giorni, anzi, in cui sentiremo forte il peso della assenza sua, delle sue analisi, della sua passione. So però con certezza che i frutti della sua lungimiranza, della capacità di anticipazione e, sul piano personale, lo spirito contagioso della sua umanità, costituiranno per gli anni a venire altrettanti «segnali di vita» da cui non potremo prescindere.

Umberto Croppi

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