L'ADDIO

Beppe, ti ricordo così

Vito Errico

 

Fare una commemorazione non è simpatico. Commemorare un amico è triste. Di più, quando ti accorgi che quel mondo in cui hai creduto per tutta una vita, ti frana sotto i piedi non perché era nutrito di falsi miti, ma perché certuni hanno piazzato delle cariche esplosive che l'attraversano da parte a parte. Beppe Niccolai è stato fortunato nella sventura. Avrebbe sofferto, come sapeva solo Lui, nel vedere quel che capita nel bel mezzo della canizza che ringhia intorno ad un osso spolpato.

Che si dovrebbe dire di Beppe?

Ricordare che fu uno dei primi tre studenti universitari ad accorrere a Tarquinia dove si stava formando la gloriosa divisione "Folgore"? Che rinunciò alle spalline di ufficiale per andare prima a combattere? L’epopea in Africa Settentrionale e la caduta di Takruna? La prigionia nell'inferno di Hereford dove aveva trovato il tempo, nonostante le angherie e la fame inferte ai «non collaboratori» dai «liberatori», di fondare e dirigere un giornale che aveva chiamato "Il pelo nell'uovo"? No, a Beppe non sarebbe piaciuto. Queste cose, le chiamava «reducismo».

E allora? Beh! basterebbe citare soltanto un fatto, un esempio, rarissimo a ripetersi nel momento in cui ognuno è incollato allo scranno: quello d'aver buttato alle ortiche il seggio di Montecitorio per far posto, senza con questo diventare Cincinnato. Fu uno dei tanti esempi «trasgressivi» di Beppe, che ci insegnava in tal guisa che la politica non può essere mestiere, ma solo passione e servizio. È stato forse l'atto più qualificante del passaggio terreno di Beppe: un'attestazione d'intransigenza con sé stesso che gli dava diritto di esigere altrettanto dagli altri. Da quegli «altri» che credevano il patriottismo consistere nell'agitare sciabole e daghe per sopprimere le patrie altrui. E Beppe, con quel suo fare burbero, scontroso, da «caratteraccio», ci aveva insegnato che l'amor di patria si estrinseca nel rispetto «dell'Albero, del Fiume, del Cielo, della Cattedrale». Rispetto della propria patria ch'è rispetto della patrie altrui. Di quella patria che si difende anche col sangue mentre, tutt'intorno, è trionfo di logorrea. Quella logorrea che era servita a un nugolo di servi per riportare un popolo, così formatosi nelle trincee insanguinate della storia nazionale, all'infimo livello di groviglio di genti.

Ecco cos'era Beppe: un Uomo in ginocchio soltanto davanti all'Italia, a chiedere perdono per tutti gli scannamenti delle fazioni che, con i loro manicheismi, avevano prediletto la parte a danno del tutto. Quel Tutto che per Beppe era l'Italia, la Nazione, mentre gli altri, i soliti «altri», prediligevano lo Stato. Statolatria e gerarchismo: li aveva avversari come una bestia bicipite, immonda, che insozza e disanima una comunità. Una comunità chiamata a lottare per dare un destino all'Italia che non è quello dell'immersione nella melassa di un Occidentalismo fondato sulle praterie di Oltreoceano, responsabile, attraverso i ninnoli del consumismo, della distruzione del creato e dell'omologazione dei popoli, artefice della loro libertà. Parola piena di significato per Beppe, non vuota asserzione lessicale utile e utilizzata per lo svuotamento dell'anima. Libertà per sé come per gli altri, libertà come rispetto delle singole specificità. E rispetto dell’«altro» per capirne le ragioni. Questo era il Cristianesimo di Beppe Niccolai. Questa era la sua idea di civiltà contrapposta a quella degli assertori della ferocia. Sono indimenticabili quelle parole profferite nel catino di Sorrento: «Quando si sono chiusi i libri, quando la intelligenza è stata espulsa, quando ci siamo voluti affidare ad altri (...), la discriminazione ha raggiunto i livelli della ferocia».

Ci si guarda intorno per riordinare quel ch'è rimasto: un pacco di lettere, i volumi di «Rosso e Nero», le colonne di «Duello al sole», una foto ritagliata dai giornali, qualche articolo. Questa è la materia. Ma intorno aleggia lo spirito. L’anima di un Uomo inquieto per il quale esisteva un'unica certezza: quella del Dio delle Genti. Che lo ha chiamato a sé per sederlo alla sua destra, Lui, Uomo Onesto, ch'era stato sempre «a sinistra». Trasgressivo anche lì.

Voglio ricordarlo così, il mio amico Beppe, chiedendogli perdono se nelle mie parole c'è stata enfasi o, peggio!, retorica, ma Egli sa che così non è. Conosceva i sentimenti. Da Lassù, Beppe, dove ormai tutto è pace, guidaci, noi tutti qui rimasti a dover fare il più duro mestiere: quello di vivere.

Vito Errico

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