L'ADDIO

Beppe Niccolai, il fascismo trasgressivo

Ulderico Nisticò

Quando muore un buon Camerata, siamo esonerati dalla retorica funebre e dalle frasi di circostanza: possiamo andare al sodo e, fascisticamente, dire del morto quel che avremmo detto del vivo.

Negli ultimissimi anni Niccolai, non più deputato e fuori dalle strutture, è stato per il MSI assai più che non fosse quando lo si annoverava tra la più alta classe dirigente. E già, ché in un partito unanimista, quale attività politica (tranne che sotto le elezioni, et pour cause!), la classe dirigente ufficiale aveva ben poco da dirigere: anzi, l'interesse oggettivo di qualcuno era il quieto non muovere: che si discutesse il meno possibile, che si agitasse il meno possibile, per evitare di mettere in forse posizioni stantie ma consolidate.

In quegli anni di scollamento, Beppe Niccolai diede a tutti il gusto dell'opposizione; in anni di retorica venerazione, il gusto piccante della trasgressione. Egli trasgrediva all'imperativo del tutto va bene e dell'abbiamo ragione noi, e si proponeva come la nostra coscienza infelice, la nostra insoddisfazione e, in positivo, la nostra voglia di tornare a fare politica. Se Sorrento non ci ha trovati ignari ed alla mercé di accordi di vertice, lo si deve in grandissima parte al clima di sacrosanta polemica e di pungolante dibattere creato da Niccolai quando forse a tanti altri non conveniva crearne uno tale.

Non tutti siamo stati d'accordo con le tesi di Niccolai; poco male: quel che contava, era che delle tesi venissero affacciate (non solo nei Congressi), discusse, pensate: dopo anni in cui arrivava tutto (o, quel poco!) già confezionato. Ma Beppe Niccolai non confondeva unità e disciplina con il monolitismo di facciata, sotto il quale nascondere magari contrasti tanto più feroci quanto meno nobili i motivi! Erede di un Fascismo sanguigno e ribelle, così diverso dal perbenismo borghese, capace di obbedire e combattere anche senza credere, non riteneva affatto suo dovere rinunciare a pensare.

Trasgressivo, del resto, fu quando decise di lasciare l'aula sorda e grigia di Montecitorio, e la poltrona a cui tanti in Italia (persino in mezzo a noi) sono tanto abbarbicati da volerci morire sopra; e per la quale tanti (persino in mezzo a noi) si piegano alle peggiori infamie ed umiliazioni. Niccolai non pensava che, per essere utile al Movimento, bisognasse per forza portare la medaglietta e percepire il relativo mensile. Un nobile esempio, che più d'uno farebbe bene forse a seguire: contribuirebbe al rinnovamento, e si guadagnerebbe la stima sincera dei buoni camerati.

Ora Niccolai non è più: ma non dobbiamo dire che «lascia un vuoto»: infatti il suo insegnamento di discutere e, quando è il caso, trasgredire è ormai universalmente accettato (fatte poche ostinate ma declinanti eccezioni): non si ammettono veti, non c'è più retorica fasulla, non tolleriamo più che ci si rivolga al camerata come se fosse un eterno Emilio di Rousseau da tenere al riparo dalle forti emozioni, a cui porgere la medicina amara solo con tanto zucchero agli orli del vaso. Dobbiamo a Niccolai se è lecito parlare di tutto; se la sconfitta elettorale si può chiamare sconfitta elettorale e se cerchiamo i rimedi; se tante grandezze gonfiate si stanno afflosciando; se tanti notabilati sinora vissuti a sbafo ed all'ombra vengono costretti a confrontarsi con le idee e ci si accorge che erano notabili, non erano notevoli. Una desiderabile crisi, da cui non può che uscire del bene. E tanto più allora si dirà del camerata Niccolai: «Presente!».

Ulderico Nisticò

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