L'ADDIO

La mia generazione è stata segnata da Niccolai

Adolfo Urso

La mia generazione è segnata da Beppe Niccolai. Dal suo esempio, dal suo messaggio, dal calore delle sue parole e dalla forza dei suoi gesti. Dall'inquietudine che lo faceva soffrire, dall'ansia di verità che lo muoveva, dalla ricerca e dalla passione che metteva in ogni analisi, in ogni proposta, in tutto quel che faceva.

Beppe non era uno di noi, era molto più di noi. Era cresciuto negli anni del fascismo, nella Toscana di Berto Ricci fatta di passioni e di entusiasmi, mai soddisfatto del presente, pronto a contestare ma anche a dare il primo esempio. Era partito subito volontario per il fronte, insieme con altri due giovani pisani; catturato dagli alleati finì nel campo di concentramento di Hereford nel Texas, e lì cominciò a capire cosa fosse il «male americano». La società dell'avere e del consumo, dell'egoismo e del piacere, del tutto e su tutti. Capì che il «male» era interno in ciascuno di noi, che minava la nostra capacità di essere uomini, che distruggeva sogni e tensioni cancellando nel contempo ogni forma di solidarietà; capì presto che l'America era in casa, che l'Italia s'adeguava senza soffrire.

Capi e non si piegò. Tornò a Pisa e riprese il suo posto. Ritrovò gli altri, i non-cooperatori e i fascisti sopravvissuti al crollo della RSI; trovò il dramma di un popolo che non aveva saputo perdere.

Erano gli anni del dopoguerra, gli anni difficili, terribili di un tessuto lacerato che non riusciva a trovare una propria identità: Beppe non rifiutò la nuova realtà, l'affrontò con decisione come fecero tutti coloro che s'erano formati su un impegno d'onore. Ma in lui la certezza andava misurata ogni giorno, gli ideali andavano confrontati con le azioni, le parole trovavano senso nei fatti. Non smise mai di cercare, d'interrogare sé e gli altri, sino a macerarsi ogni giorno, sino a chiederci talvolta di «farci male», se ciò fosse stato necessario a crescere insieme.

Beppe lo conobbi così. Era il 1975 e lui girava l'Italia in una delle tante campagne elettorali di quegli anni in cui impazzavano i furori ideologici e tutti presumevano di portare la verità. Ricordo come fosse oggi quella piazza siciliana, in una serata umida e triste: avrebbe dovuto essere il solito comizio con l'oratore giunto da fuori, ma dal palco non giunsero né grida né slogans, arrivò il calore di un messaggio che parlava al nostro essere uomo. Ricordo lo stupore ma anche il rispetto del pubblico verso un argomentare che tutto era tranne propaganda.

Lo rividi anni dopo, nelle riunioni del Comitato centrale che lui animava. Piano piano divenne un simbolo per tutti, per una generazione senza padri che aveva vissuto il fascismo come speranza, non avendo ricordi diretti. Lo ascoltavo in silenzio come tanti altri, ne misuravo le parole, ne avvertivo lo spessore, ne sentivo la passione e nello stesso tempo il dramma. Poi, un giorno, credo fosse nel maggio dell'83, il Comitato centrale affrontò la compilazione delle liste per l'allora imminente campagna elettorale e in quella occasione sentii il dovere di proporre la sua candidatura in un collegio senatoriale di Milano. Non era una «manovra», come qualcuno credette, ma solo il segno di stima, di una immensa riconoscenza umana e politica.

Beppe anche in quella occasione non si smentì: su invito di Almirante prese la parola e rifiutò l'offerta di quel giovane per lui sconosciuto. Disse che voleva dar l'esempio e ancora una volta lo diede.

Dopo qualche giorno mi arrivò un biglietto, che ancor oggi conservo; soprattutto, cominciò un intenso rapporto che non può finire nella schiera dei ricordi, tantomeno in quella dei rimpianti.

Beppe era per noi, per i giovani della mia generazione, molto più d'un esempio: era l'immagine di quel che vorremmo essere e non siamo: era disinteresse, passione, tensione; era inquietudine e forza, coraggio e comprensione, travaglio e determinazione. Beppe ha riempito i nostri trent'anni: ci ha segnato e formato, ci ha parlato ed ascoltato, ci ha amato e spronato. Ora tocca a noi, adulti ma non ancora «maturi», andare avanti da soli.

Adolfo Urso

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