DICONO

testimonianza raccolta da Andrea Biscàro

Ricordi e impressioni di Umberto Croppi

incontro registrato con il Direttore Editoriale della Vallecchi, Umberto Croppi,
avvenuto il giorno 2 Ottobre 2004 presso la Vallecchi - Firenze




L’Archivio di Giuseppe Niccolai alla sua morte:

«So che la moglie era molto malata, era diventata quasi cieca negli ultimi anni della vita di Niccolai. La o le figlie, invece, non condividevano nulla del padre, anche da un punto di vista politico. Avevano una vita molto per conto loro. Questa cosa, debbo dire, stupiva pure me. Io non gli ho mai chiesto nulla perché lui non ne parlava. So che, al momento della morte, gli eredi hanno chiamato un antiquario per vendere i libri della sua vastissima biblioteca che avevano un certo valore mentre stavano per buttare tutto il resto. La cosa più grave è che il partito non si è mai curato dell’archivio di Beppe Niccolai. Per il partito a cui era appartenuto, salvare un pezzo di memoria storica così importante sarebbe stato doveroso.
Io non ho mai visto la biblioteca nella sua collocazione originaria, per cui non so bene quello che gli hanno portato via.
Quello che ho potuto vedere l’ho visto in maniera non analitica, perché tutto è successo mentre preparavo gli scatoloni, in un posto buio dove non c’era nemmeno la corrente elettrica in un gelido fine-settimana invernale, per cui è stata una visione fugace.
Lui aveva la raccolta completa degli Atti Parlamentari, per esempio, anche perché lui ha diretto, dopo essere stato deputato, l’ufficio studi legislativi del gruppo parlamentare dell’MSI; poi litigò con Almirante e gli fu tolto anche questo incarico.
Aveva alcune raccolte di riviste e quotidiani, alcune fatte in maniera sistematica. Tra l’altro c’era la raccolta completa del suo giornale, “Il Ghibellino”, che io non avevo mai visto perché la sua edizione risaliva a molti anni prima.
Era in formato quotidiano e l’unica copia rilegata credo sia quella che c’era in questo suo archivio e che è andata distrutta insieme al resto. In seguito aveva dato vita a “L’Eco della Versilia” che, dopo la sua morte, insieme ad Antonio Carli (suo fedelissimo amico e collaboratore) avevamo trasformato in “Tabula Rasa”. Del suo più antico giornale avevo solo sentito parlare, ma non l’avevo mai visto prima di allora.
Aveva una raccolta in fotocopia, questa l’ho salvata, dell’Universale di Berto Ricci.
Poi aveva libri di varia natura, naturalmente di gran parte della pubblicistica riguardante la politica italiana e la mafia, di cui s’era occupato. La cosa interessante è che aveva una sezione vastissima, forse il 30% del totale, di sovietologia, libri e riviste non solo italiani, internazionali e anche sovietici. Lo studio dei movimenti interni all’Unione Sovietica e di tutto il mondo comunista era meticolosissimo. Una delle pochissime cose che ho salvato è stata la prima edizione in spagnolo del “Libretto Rosso” di Mao. Su ogni libro naturalmente c’era un’infinità di annotazioni, sottolineature, commenti. E poi c’era un archivio fatto da raccolte di suoi appunti e là, purtroppo, in quelle non ho messo nemmeno il naso perché le ho sistemate nelle scatole e aspettavo di poter indire una borsa di studio per farle sistemare e poi farne un’analisi sistematica.
Aveva una meticolosa raccolta in cartelline di ritagli di stampa, documenti, notizie su persone di varia natura: esponenti politici, giornalisti, personaggi con cui lui, in qualche modo, era entrato in contatto. Tutto questo stava per andare buttato. Dopo la sua morte, io e un po’ di amici di Beppe lanciammo l’idea di fare una Fondazione. L’unico che inviò un segnale favorevole a questa ipotesi fu Pinuccio Tatarella, peraltro molto malvisto da alcuni degli amici di Beppe; per cui ci fu già una levata di scudi. Invece, non sapevano che Tatarella, il quale era su posizioni politiche interne molto diverse, in realtà aveva un buon feeling con Niccolai e nonostante il suo apparire sciatto era l’unico che aveva qualche interesse culturale nel partito: i due si scambiavano frequentemente notizie, libri, opinioni. Niccolai andò in visita a casa di Tatarella a Bari e scoprì che aveva una buona biblioteca, circostanza rara nei nostri ambienti. Dall’esterno il rapporto era visto in superficie e poi soprattutto la base della corrente che con Niccolai avevamo costituito era ferocemente anti-finiana e anti-tatarelliana. Invece fu l’unico a farsi vivo. Però, al di là di questa espressione di volontà, poi nessuno mise una lira o mise energie per costituire la Fondazione.
Antonio Carli, segretario provinciale dell’MSI di Viareggio, è stato l’ombra di Niccolai ed è quello che gli faceva il giornale “L’Eco della Versilia”, glielo faceva nel senso materiale. Aveva una piccola macchina da stampa, componeva e stampava lui.
Antonio Carli, quindi, recuperò, con l’aiuto di due o tre ragazzi di Pisa che gli diedero una mano, tutto questo materiale di Beppe e affittò il piano terra di una casa di campagna a Massarosa, vicino a Viareggio, dove mise tutto il materiale di Niccolai e comprò una nuova macchina da stampa a cambiali e continuò a stampare il giornale che nel frattempo avevamo trasformato, per dargli un carattere più nazionale, meno localistico, in “Tabula Rasa”.
Quando Carli morì lasciò questo archivio che stava iniziando a catalogare, aveva fatto delle fascette “Fondazione Niccolai”. Alla morte di Antonio [Carli] io ho contattato il figlio e mi ha detto: «guarda, noi abbiamo un problema; papà deve due anni di arretrati di affitto al proprietario di questa casa. Se vi prendete questi documenti ci fate un favore, però quello che vi chiedo è di pagare gli arretrati perché noi non possiamo». E così ho fatto. Abbiamo pagato due anni di arretrati, io e il mio amico Fernando Corona. E così che ce lo siamo caricati noi l’archivio, fisicamente, e lo abbiamo portato in un grande deposito a Scandicci che ospitava diverse case editrici e altro materiale, che nel Gennaio del 2003, per un incendio accidentale è andato distrutto, compreso tutto quello che vi era al suo interno. L’archivio di Beppe era composto da 98 scatoloni contenuti in un container. Di quello che c’era nel magazzino nemmeno una cosa si è salvata. Avevo sottratto [e portato a casa mia] alcune cose che mi avevano incuriosito: l’Universale di Berto Ricci, una prima edizione del “Libretto Rosso” di Mao, due o tre libri e poi il sacco che Niccolai aveva nel Criminal Camp americano. Niccolai non ha fatto la RSI, è stato nei Campi di concentramento [USA], catturato in Africa del Nord. Ha un elemento di fascinazione questo sacco, perché Niccolai è stato prigioniero assieme a Giuseppe Berto, lo scrittore, e a Burri, il pittore. Burri cominciò la sua carriera di pittore con i sacchi, proprio perché il sacco era il materiale che aveva a portata di mano, che gli era familiare nel periodo della prigionia».


Il comunismo di Niccolai:
«Beppe era proprio comunista e la presenza di questo tipo di documenti che dicevo, a casa sua, lo dimostra. Lui apparteneva a quel filone di pensiero il cui esponente principale è Nicolino Bombacci e, in parte, Berto Ricci. Dico in parte perché Berto Ricci è stato riscoperto da Niccolai, ma era un personaggio diverso. No, Niccolai era un bombacciano cioè, questa è la mia interpretazione, non era tanto come siamo abituati a dire e a pensare un fascista di sinistra, era un comunista che aveva aderito al fascismo repubblicano. Sembra una sfumatura, ma è cosa secondo me ben diversa. Non era una variante di sinistra del fascismo: erano dei comunisti che ritenevano che il fascismo fosse una attuazione del socialismo».


Rapporti Croppi-Niccolai:
«Io ho iniziato a fare politica nel MSI giovanissimo (oggi ho quasi 49 anni), a quattordici anni; la mia prima tessera è del Maggio 1970. Ho avuto subito una “rapida” carriera da dirigente giovanile già a 17 anni. Quando c’è stata la scissione e nacque la corrente di Rauti, io insieme a tanti altri, un gruppo di giovani diciottenni, abbiamo, insieme a Rauti, fondato una corrente.
Niccolai non sopportava Rauti e i rautiani, perché lui aveva ancora una lettura di Rauti e di quelli che stavano con lui derivata dalle vecchie posizioni, non solo quelle ordinoviste, ma del Rauti prima maniera. Erano i figli del sole, i tradizionalisti ad oltranza, erano quelli che avevano una visione della vita tutta spirituale, introversa, passatista. Niccolai, da uomo di sinistra, li percepiva come i nemici. Questo pregiudizio lui l’ha mantenuto in quel periodo, tanto è vero che Almirante utilizzava Niccolai (che esercitava un fascino enorme sulle platee missine) come suo marcatore di Rauti nei congressi. Questo discorso della sinistra è importante da capire. L’ MSI ha avuto una vita schizofrenica che in parte perdura anche in AN. I Quadri vivevano quell’esperienza politica come un’esperienza di sinistra o addirittura di estrema sinistra. Gli elettori lo votavano per il motivo contrario, ritenendolo invece un partito di conservatori, di destra. E questa schizofrenia è stata gestita dalle classi dirigenti del partito in maniera scientifica. Quando era segretario Michelini, che era il moderato, tra virgolette, Almirante era il capo di una corrente che si chiamava “Sinistra Nazionale”. Faceva un’opposizione, concordata con Michelini, che serviva come valvola di sfogo per questi sentimenti interni del partito. Andato alla segreteria, Almirante, lui che era capo di una corrente che si chiamava “Sinistra Nazionale”, ha trasformato il MSI in MSI-Destra Nazionale e la sinistra è stata sposata da Rauti. Siccome però diventava pericolosa, ancorché concordata in parte, la posizione di Rauti, bisognava fargli concorrenza sul suo terreno. Quindi Niccolai era quello che nei Congressi, sempre, veniva fatto parlare dopo Rauti e recuperava sul terreno della sinistra. Tanto è vero che Niccolai, nell’ultima fase, quando s’era pentito, diceva sempre: “io ho fatto il muezzin per Almirante… non capivo che mi stava usando”.
Io inizio così [la mia relazione con Niccolai]: rompo con Rauti nel 1981-82; per un paio d’anni sto nel limbo, faccio politica per conto mio. Io non avevo mai parlato con Niccolai, non ne avevo mai avuto occasione. Ci incontravamo solo alle riunioni di partito.
Nell’83 mi arriva un suo biglietto: “Caro Croppi, ti stupirà questo mio biglietto. Io verrò la settimana prossima a Tivoli (che sta vicino a Palestrina, dove vivevo io) a fare una conferenza. Se avrai voglia di venire, mi piacerebbe incontrarti e vorrei fare quattro chiacchiere con te”. E io gli risposi: “non mi stupisce affatto, perché siamo due persone che hanno una visione critica delle cose, della vita; siamo due eterodossi rispetto a tutto e quindi sono contento se mi dai questa occasione…” E così ci incontrammo e da là nacque subito una grossa amicizia, una collaborazione molto intensa. Aveva una visione ingenua della politica.
Alla fine dell’anno successivo (1984) ci fu un Congresso Nazionale che si prefigurava come Unitario. C’era una situazione politica particolare: l’Italia stava uscendo dagli anni di piombo, il MSI dal suo momento di isolamento totale. Ci sarebbero state a breve le elezioni amministrative.
La DC avrebbe potuto aver bisogno dei voti missini in qualche amministrazione comunale e allora bisognava dargli una ripulita. E quindi fu fatto solo un congresso unitario, di facciata, per questo motivo. Dopo anni che nessun politico veniva ai congressi missini, venne Forlani, senza parlare, però venne, e già era un segnale.
Noi (io, Niccolai e altri amici) che non ci ritrovavamo più in nessuna delle componenti storiche (non ci riconoscevamo in questo accordo che le componenti storiche stavano stringendo, cioè Almirante, Romualdi e Rauti) decidemmo di fare una cosa per conto nostro. Noi saremmo tutti rientrati automaticamente negli organi di partito. Facendo i nostri giochi potevamo pure ottenerne individualmente qualcosa. Invece decidemmo di fare questa operazione. Facemmo un documento che si chiamava “Segnali di vita”, con tre firme: Niccolai, Croppi e Peppe Nanni.
Facemmo questo documento e cominciammo a farlo girare per l’Italia, mandando su tutte le furie Almirante. Doveva essere la nascita di una corrente, anche se il regolamento del congresso prevedeva tutt’al più la presentazione di una mozione per la quale ci volevano cento firme, un numero molto alto.
Perciò partiamo facendo un patto di ferro su questa cosa, cominciamo a muoverci, rompiamo i legami storici, eccetera e nell’imminenza del congresso lui [Niccolai] comincia un po’ a tentennare. Poi ci ripensa, lo incastriamo in questa cosa e concordiamo un’operazione. Siccome doveva esserci come unico candidato Almirante, noi decidiamo di candidare in alternativa Tommaso Staiti che era un deputato milanese, romualdiano, facendo un’operazione anche bella da un punto di vista estetico perché Staiti rappresentava un po’ la destra, però anti-almirantiano; noi rappresentavamo la sinistra: ci univa la volontà di modernizzare il partito.
Staiti non firmava il nostro documento però noi avremmo appoggiato la sua candidatura a Segretario del partito, tanto per contare i voti, in opposizione ad Almirante in assenza di altre opposizioni. Questa iniziativa poteva far saltare il meccanismo che avevano costruito.
Tant’è vero che alla vigilia del Congresso provinciale di Roma io fui espulso dal partito per una lettera che avevo mandato a “Repubblica”. Fui espulso, ma comunque mettevo così paura per il casino che avrei potuto fare, per quello che loro temevano che io avrei potuto sollevare sulla stampa (in realtà questa forza che mi attribuivano non ce l’avevo), riuscii a fare una cosa che a nessuno mai prima era riuscita. Almirante è stato capace di espulsioni dalla mattina alla sera, antistatutarie. Io contrattai con lui il mio reingresso nel partito e il mio accesso al Congresso Nazionale. Contrattai anche uno spazio, lungo e centrale, per un mio intervento nel Congresso. Lui mi mandò un emissario a dirmi che se stavo buono, dopo il Congresso mi avrebbe portato in Comitato Centrale e io dissi: “io non voglio venire in CC; io voglio venire al Congresso”. E ottenni questa cosa. Arrivammo al Congresso con un clima di intimidazione incredibile. Comunque raccogliemmo circa centoventi firme, che già solo come firme rappresentavano il 10% dei delegati. Se fossimo arrivati alla votazione, potevamo prendere il 30%: avremmo veramente capovolto gli equilibri. E poi c’era il discorso della candidatura di Staiti su cui potevamo contare.
Quindi durante il Congresso successero una serie di cose. Il mio famoso intervento concordato cercarono di farlo slittare. Non potevano farlo di notte perché c’era un impegno scritto, però lo fecero alle due del pomeriggio quando la gente tornava dal pranzo. Bloccarono gli ingressi alla sala col servizio d’ordine che diceva che erano crollate le tribune. A metà dell’intervento che io avevo precedentemente consegnato per iscritto, fui interrotto (Romualdi cercò di farmi smettere di parlare in tutti i modi). Parlò Niccolai. Niccolai (lui non potevano interromperlo: fece uno dei discorsi più belli, dove c’era metà della sala che piangeva), iniziando con una citazione di Lenin (lo capimmo in tre persone in sala) e finendo con Mao Tse Tung, indicò il tavolo della presidenza e disse: “Sparate sulla nomenclatura!”.
Però poi ci furono una serie di eventi concatenati. Questo è uno dei misteri che per me è rimasto e che lui non mi ha mai voluto chiarire. La sera del penultimo giorno, Niccolai scompare e io sono costretto a sostenere tutto il peso delle tensioni, delle trattative notturne per vedere se la nostra mozione riusciva a trovare uno spazio; ricompare soltanto all’una del giorno dopo quando il Congresso si conclude e Almirante al microfono dice: “Chiedo agli amici che hanno sottoscritto la mozione “Segnali di vita” di trasformarla in un Ordine del Giorno in maniera che la sottraiamo alla votazione. Verrà accolta dalla Presidenza come raccomandazione.”
Eravamo in tre (Niccolai, il sottoscritto e Vincenzo Nespoli): ci guardiamo negli occhi e Niccolai mi fa: “Vai tu?” Io rispondo: “Guarda, se vado io non mi fanno arrivare nemmeno al palco.” Ero sicuro che mi avrebbero impedito fisicamente di parlare. Quindi dicevo al Nespoli: “Vai tu che sei meno esposto. Almeno là ci arrivi; una volta che hai il microfono…”. È chiaro che la risposta doveva essere “no”. Niccolai era imbarazzato da questa cosa: per questo mi aveva detto “vai tu”.
Abbiamo perso questi pochi secondi di esitazione. A quel punto è andato lui. Ha tirato fuori un biglietto, lo ha letto e ha detto: “Caro Segretario, ti ringrazio perché hai interpretato lo spirito della cosa… naturalmente accettiamo.”
Se l’erano portato via. È stato qualcuno, forse Donna Assunta… se l’erano lavorato tutta la notte per convincerlo a fare questa cosa. Ma lui non l’aveva capito. È stato come il Gran Consiglio per Mussolini. Lui non aveva capito la trappola in cui l’avevano attirato. Sulla scia di questa cosa, applausi, abbracci, eccetera. Romualdi dice (in quel momento m’è crollato tutto e me ne sono andato in camera e ho acceso la radio radicale per sentire quello che succedeva): “e allora in questo clima di riconciliazione acclamiamo Segretario Giorgio Almirante”.
Non ha messo in votazione la candidatura di Staiti. Io riscendo giù, acchiappo Niccolai e gli dico: “Ma che cazzo hai fatto! Lo capisci che ci hai ammazzato a tutti quanti?”
Esce la lista di votazione del Comitato Centrale che era composta, essendo unitaria, da una lista unica con un blocco fisso e un blocco soggetto a votazione, cioè uno poteva cancellare e metterci a fianco un altro nome, ma nell’economia di un Congresso non succede mai, cioè non ce la fai mai a recuperare rispetto al numero delle schede votate per intero. E c’era Niccolai che era nella parte bloccata. Dico: “Vedi: il risultato è questo. Eravamo venticinque membri del Comitato Centrale che abbiamo firmato, nessuno di noi è stato messo in lista; tu sì. Ecco quello che hai fatto.”
Allora lui, come gesto di riparazione, pretese che venissero ristampate le schede e che il suo nome fosse messo nella parte preferenziale. E risultò il più votato di tutti. Cioè prese, che ne so, l’80% dei voti del partito in questo modo, un risultato morale ma niente di più. Tanto è vero che poi lui aveva deciso di dimettersi dal Comitato Centrale. A quel punto noi gli facemmo una lettera, invitandolo a restarci. Questa è stata totale ingenuità politica. E lui non mi ha mai voluto dire cosa fosse successo.
Poi, superato questo episodio, continuammo a collaborare, a vederci e qualche anno dopo, avvicinandosi il Congresso dell’87, a Sorrento, dove fu eletto Fini, demmo vita a una nuova corrente, capeggiata da Domenico Mennitti, il più liberal, il vero modernizzatore del partito. Lui era un amico di Almirante e mise in piedi una corrente molto bella. Intanto c’erano le persone più colte e intelligenti del partito: c’era Pierangelo Buttafuoco, Nanni, Urso, Casalena, Staiti e raccoglieva dall’estrema sinistra: era la corrente di modernizzazione del partito, la più dignitosa seppur rappresentasse un’estrema minoranza.
Al Congresso di Sorrento Mennitti si candidò. Gli altri candidati erano Servello e Rauti (Almirante non si candidò, puntando su Fini). Ma il calcolo era che, pur essendo noi piccoli, intorno al 10%, siccome Mennitti era la candidatura più spendibile (ove Rauti l’avesse capito e ci fosse stata la conversione su Mennitti) era inevitabile che Servello, che non voleva assolutamente Fini, appoggiasse la sua candidatura, e così avremmo vinto. Rauti si era illuso di potercela fare, per cui si bloccò sulle sue posizioni e portò sostanzialmente alla vittoria di Fini.
Nella fase successiva io ero in Direzione Nazionale insieme a Niccolai e ci fu pure là un’altra occasione di scontro con lui. Eravamo all’opposizione. Un giorno Fini fece un Ordine del Giorno per mostrare i muscoli ai suoi alleati, in particolare Tremaglia, Franchi, questo gruppo di persone che Niccolai odiava. Fini alzò molto la voce nei confronti di questi e Niccolai, senza dirci niente, com’era sua abitudine, votò a favore dell’O.d.G. di Fini. Questa cosa mi lasciò di stucco. Eravamo seduti vicini, come sempre, e non mi aveva nemmeno avvertito. Allora gli scrissi una letteraccia. Siccome lui pubblicava tutto, qualsiasi cosa, lo pregai di non pubblicarla sull’”Eco della Versilia” e lui fece una cosa peggiore: pubblicò solo la sua risposta. A quel punto fui costretto a riscrivergli ancora, chiedendogli comunque di pubblicare la mia lettera perché la gente capisse di cosa si stava parlando. Insomma, ci trattammo piuttosto male…
Niccolai era molto coraggioso, ma era anche molto debole».


La “beffa” Niccolai:
«Poi ci fu questa cosa dello “scherzo”. Lui presentò in Direzione Nazionale un Ordine del Giorno contro i potentati economici, che fu votato all’unanimità [anche col plauso di Fini] da un corpo non reattivo, siccome non implicava problemi di dialettica politica interna non si rompeva nessun equilibrio. La cosa singolare, significativa, è che nessuno si chiese perché, che “roba” era quella. Io, che come al solito gli stavo seduto a fianco, gli dissi: “che cavolo è? Questo non l’hai scritto tu!” E lui si fece una risatina e mi disse: “te lo dico dopo”. E dopo, finita la riunione, me lo disse: era un documento votato qualche giorno prima dal Comitato Centrale del PCI. E la cosa si concluse così. Sempre per parlare delle stranezze di Niccolai, il giorno in cui muore Almirante lui rilascia un’intervista al “Corriere della Sera” in cui racconta questo episodio. Se non ci fosse stata quell’intervista al “Corriere della Sera”, nessuno l’avrebbe mai saputo. Non c’era nessuna strategia dietro. Lui s’è divertito a prendere per il culo la classe dirigente del partito. Dopo l’intervista al “Corriere della Sera”, il primo atto di Fini-Segretario, dopo la morte di Almirante, fu quello di espellere Niccolai perché danneggiava l’immagine del partito stesso. A quel punto grande imbarazzo di Mennitti: “Che facciamo? Questo ci mette in difficoltà”. E io dissi a Mennitti: “Guarda che non hai capito niente. Niccolai è più forte. Quindi la strategia per gestire questa crisi è quella d’attacco, non quella di difesa. La strategia è quella di dire a Fini: “Non puoi permetterti di espellere Niccolai”. Allora, dopo un atteggiamento di questo genere da parte nostra, Fini provò a chiedere una lettera di scuse a Niccolai, il quale invece gli mandò una lettera nella quale non si scusava di niente e fu riammesso nel partito».

Il sogno di Niccolai:
«Il sogno di Niccolai era quello che lui chiamava la “ricomposizione del pensiero politico del Novecento”. Lui avrebbe voluto, era il suo sogno, non aveva nessuna praticabilità politica, che i comunisti e i fascisti si reincontrassero. In un certo senso era anche un perdente. Era uno che, comunque, sentiva, sapeva che queste cose che lui teorizzava non avrebbero avuto poi corso. Infatti in questo senso si è lasciato un po’ morire, anche intellettualmente».


Alcune istantanee dell’uomo:
«Era una persona estremamente gradevole, ma molto riservato, molto discreto, non aveva un grande senso dell’umorismo proprio per questa sua forma mentis. Non amava lo sfoggio».

«Lui quasi non conosceva il cinema. Una volta gli dissi: “Guarda che è più importante, dal punto di vista della comunicazione delle idee, un film od una canzone di un cantautore che cento libri. E lo mandai a vedere “Goodmorning Babilonia” e lui rimase entusiasta, scoprì dei mondi nuovi».

«Niccolai ebbe un infarto durante un Comitato Centrale, a Roma. Si sentì male e lo accompagnammo di corsa al San Giacomo e fu ricoverato in Unità coronarica. Poi, dopo l’infarto, ho scoperto che continuava a fare delle cose pazzesche. Passava ore in bicicletta. Si metteva una muta da subacqueo per sudare; andava in bicicletta col walkman e si risentiva i nastri che aveva registrato, discorsi, eccetera. E questo gli faceva malissimo».


Umberto Croppi

testimonianza raccolta da Andrea Biscàro (Ricercatore Indipendente) il 2 ottobre 2004

Ringraziamo il ricercatore Andrea Biscàro - http://www.ricercando.info - e Umberto Croppi

per averci dato la possibilità di pubblicare questa intervista