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Documenti per la storia del MSI

Documento politico

Pisa, 1 novembre 1986

 

Premessa

Nel movimento c'è, da tempo, la necessità di un leale confronto e di un aperto dibattito. È questa una esigenza avvertita e sentita oramai dalla stragrande maggioranza. Ecco perché il "Centro di Diffusione Libraria" di Pisa si è fatto interprete di tale esigenza dando vita ad incontri tra camerati di base, di medio vertice e di vertice, tesi ad analizzare lo «stato» del MSI e ad affrontare una serrata e costruttiva discussione su molti dei problemi che sono sul tappeto. Questi incontri, è bene sottolinearlo, non hanno il benché minimo scopo di creare «correnti» ma, questo sì, tendono a portare aria e linfa nuove all'interno di un MSI che ha assoluto bisogno di rivitalizzarsi e di rinnovarsi a tutti i livelli.

È fuor di dubbio che attualmente il MSI è un partito pressoché bloccato, in larga misura incapace financo di pensare «politica» e di produrre idee, cultura ed azioni conseguenti. È altrettanto fuor di dubbio che, un po' ovunque, si avverte l'indilazionabile necessità di incontrarsi e di confrontarsi fra camerati, per ricostruire quella comunità umana e politica che, sola, può aprirci la strada al raggiungimento di quegli obiettivi che tutti da tempo aspettiamo. Abbiamo, tra non poche difficoltà e sofferenze, in questi trascorsi quarant'anni attraversato un deserto, quello della sopravvivenza e della legittimazione. Ora dobbiamo attraversarne un altro, altrettanto difficile: quello cioè del confronto e della conquista del consenso e della società civile. Da qui nasce la improcrastinabile necessità di attrezzarci, di essere pronti e preparati, di avere una politica ed una strategia.

Su quanto sopra detto il "Centro di Diffusione Libraria" di Pisa ha impegnato nei mesi scorsi molti camerati in serene discussioni che sono culminate nell'incontro regionale del 1 novembre u.s. Al termine di esso i numerosissimi presenti hanno approvato all'unanimità un O.d.G. che fa proprie le tesi che seguono, offrendole alla discussione e alla riflessione dell'intero MSI.

Senza alcuna presunzione o qualsivoglia volontà di possedere la verità in tasca. Ma nel precipuo interesse dei Movimento e di ciò che esso da sempre rappresenta e che, se tutti insieme sapremo ritrovarci, potrà soprattutto rappresentare nell'immediato e prossimo futuro

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Introduzione

Quanto segue non vuole, né potrebbe, essere un documento congressuale. Nasce dalla esigenza, ad avviso degli estensori improcrastinabile e necessaria, di aprire fin da oggi un leale e costruttivo dibattito sullo «stato» del nostro Movimento. Ha lo scopo, questo sì, di risvegliare le coscienze, di richiamare tutti al serio impegno politico, di provocare quella scossa necessaria e quella tensione morale insostituibili ad affrontare le battaglie per gli anni futuri. Ha -se si vuole- la presunzione di individuare e quindi di mettere sul tappeto una serie di problematiche alle quali occorre dare al più presto concrete e precise risposte. È il frutto di un libero dibattito fra camerati di vertice e di base che intendono dare a tutto il Movimento un fattivo contributo di idee per camminare speditamente, senza incertezze e tentennamenti, verso gli anni Duemila. Per assegnare un ruolo ben preciso al nostro Movimento.

Quanto sopra, è bene dirlo con estrema chiarezza, nasce da una precisa e palpabile constatazione di fatto: il MSI è, oggi, un grosso calderone dove si cuoce tutto. Non ha una ben definita linea politica (interna ed internazionale), non ha una strategia, non ha una organizzazione agile e funzionale. Rappresenta tutto e la negazione di tutto. È, quindi, un partito come tanti altri. E quest'ultima è una realtà che dovrebbe far riflettere. Anche per il nostro Movimento si pone, purtroppo, una questione morale che ci coinvolge tutti. Fare finta di niente sarebbe come suicidarsi. Le note che seguono vogliono, quindi, dare un contributo. Per rinnovarsi, per cambiare, per marciare in avanti convinti delle scelte che tutti insieme possiamo e dobbiamo fare, certi e consapevoli di lavorare per un Movimento di idee che deve essere, nei fatti, l'autentica alternativa al sistema.

 

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«Tutti questi cambiamenti si fanno in base alle seguenti considerazioni:

a) l'eliminazione dello spirito politicantista, il quale ha portato alla triste concezione secondo cui un circondario viene dato come una rendita a vita al capo rispettivo. E quest'ultimo ne trae somme che investe in ogni tipo di affari;

b) la necessità di fare scuola di comandanti per il maggior numero di persone possibile;

c) il rinnovamento delle possibilità di offensiva della organizzazione, rinnovamento che si verificherà insieme con l'apparire dell'ondata di capi ogni anno;

d) la realizzazione di un massimo di lavoro, poiché, ogni ondata avendo un tempo di attività limitato ad un anno, sarà costretto a dare un massimo sforzo».

Corneliu Z. Codreanu, da "Ordine per il I° gennaio 1937" in occasione del cambio dei quadri del Partito.

 

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Sono ormai anni che il dibattito intorno al Movimento si trascina senza trovare soluzioni alla crisi che attraversa.

Le sezioni vuote; le federazioni esilmente collegate ed incapaci di organizzare linee politiche, sono al centro di critiche e denunzie, spesso soffocate.

Non è forse stato un vociare indovinato. È spesso confusione comune mischiare crisi strutturali con la crisi umana.

Le strutture si possono mutare quando si ha la forza e la capacità. Se le sezioni, le federazioni non sono mutate è perché sono mancate volontà e forza; se sono mancate volontà e forza il difetto è stato dell'uomo, che non si è sentito appagato dal Movimento, si è sentito estraniato dall'ambiente, lo ha interpretato male.

Nella realtà dobbiamo accusare una mutazione antropica negativa nel nostro mondo. Nel tempo della militanza politica c'era disponibilità, cameratismo. Oggi freddezza, burocrazia. Alla proposta rivoluzionaria, che prima di tutto rivoluzionava lo spirito del militante, si è sostituita la proposta riformista. Attenta alla politica delle cose, del contingente. Avvilente.

Si è creata così la frattura tra Partito legale e Movimento reale.

L'ultimo dato ufficiale diffuso alle federazioni sui tesserati al MSI è del 3 agosto 1984: 40.016 iscritti. In quel momento il Comitato Centrale è composto di 340 membri. Il rapporto è 1/117. Poi ci sono i federali; i segretari di sezione; i dirigenti giovanili; i segretari giovanili; i rappresentanti esterni. Una incredibile massa di «ufficiali». Tutti presi a comandare ci si scorda spesso di discutere su cosa comandare. È emerso il costume di poter dire tutto su tutto e tutti.

Oggi ormai è aperta solo una strada: o si riafferma il modello di un nuovo militante o ci si esibisce in sterili enunciazioni; pronti ad entrare nel regime a pieno o parziale titolo come gli altri vorranno.

 

IL BAGNO DI UMILTÀ

Le poltrone sono sempre poltrone. Anche quando, inutili, creano caste. Con questo spirito e per questa ragione è nata la nuova intolleranza: quella interna. Prima del mutamento antropico ci si sopportava bene. Si ascoltavano i racconti degli anziani; gli sfottimenti tra camerati e le astrusità politiche. Poi vennero i colonnelli. Fu così che chi doveva pensare a dire si o no sui problemi della grande viabilità pensò bene che le discussioni in federazione fossero inutili perdite di tempo. Si rinunciò a priori a far crescere l'ambiente e ci si dedicò alla sola immagine pubblica, con abnegazione.

Oggi non ci si confronta e ci si annoia alle osservazioni sporadiche della base, mentre si è disposti ad ascoltare le interminabili discussioni sui bilanci pubblici. Anzi si dice che questo è il momento qualificante.

È necessaria la nuova tolleranza. Riaprire l'ambiente a noi stessi. Ridiscutere tutto e convincersi, e chiarire, reciprocamente le strategie, le idee. Le case dei camerati devono riaprirsi; si devono superare le fratture generazionali; riscoprire l'intelligenza della serata politica insieme. L'umiltà del piccolo lavoro manuale da recuperare con il confronto e il cameratismo. Reinserire tutti in un ambiente nuovo non riverniciato.

Lo shock di Democrazia Nazionale ci ha insegnato che è bene selezionare i quadri. La caduta di militanza ci dà un insegnamento ulteriore: i quadri devono essere controllati e mobili.

Non può essere il Segretario, a qualsiasi livello, a scegliere la strategia come fosse cosa propria. Sono i militanti che ne discutono ed esprimono le tendenze politiche, ponderando con serietà. Non può essere il rappresentante esterno a prendere posizione; ma il Movimento, grazie al confronto.

Il militante deve essere l'esempio del disinteresse per l'utilità materiale e politica. Deve essere cosciente che all'esterno si guarda a lui per captare il messaggio del tipo umano che il Movimento vuole costruire. Sincerità, onestà, fermezza sono le necessarie doti del militante, nella politica come nella vita privata. Conoscenza dei propri limiti e disponibilità alla solidarietà, al cameratismo, sono l'indice del rispetto umano e gerarchico.

Se un camerata, per le occasioni della vita, si trova a vivere con la politica o ad occupare posti di rappresentanza, sia o non sia il più bravo, questo non deve essere motivo per creare «l’uomo della poltrona». Non si può tollerare l'uomo che ha come obiettivo il mantenimento del suo posto al sole.

La condizione prima per garantirci dalla umana debolezza che tende sempre a rafforzare la propria posizione, è quella di darci ed accettare, tutti, un rigido codice morale interno. Senza deroghe.

La regola prima deve essere la mobilità degli incarichi. Limiti temporali alle riconferme di incarichi esterni ed interni. Non è più possibile che esistano segretari federali, consiglieri regionali o onorevoli a vita.

La seconda incedibile regola deve essere il divieto di cumulo di cariche. Non si devono accumulare incarichi esterni, come altrettanto necessaria è una ridefinizione interna dei rapporti gerarchici. Deve essere sancita ed applicata l'incompatibilità tra mandati parlamentari, di consigliere regionale, provinciale e comunale. Deve essere sancita l'incompatibilità del mandato parlamentare con incarichi come segretario federale e regionale. Nel contempo i segretari federali devono essere componenti di diritto del Comitato Centrale, il quale, deve essere ridotto e riportato ad organo funzionante. Deve cessare il rapporto ombelicale tra Segretario nazionale del Movimento ed incarichi amministrativi interni.

Tutti gli incarichi interni devono essere elettivi. Le giunte federali devono essere ridotte di numero ed elette nei congressi provinciali, con garanzie per le eventuali minoranze. Unico componente di diritto sarà un rappresentante giovanile delegato dalla organizzazione giovanile riconosciuta. Deve cessare la sconcertante pratica delle riserve per le aree marginali. Garanzie di rappresentanza, ad esempio, al settore femminile, o la presenza di diritto ai congressi provinciali delle giunte giovanili sono un non senso. Ognuno deve acquistare lo spazio politico che è capace di occupare con le proprie idee e la propria preparazione.

Deve essere riconosciuta la dignità personale dell'iscritto. Tutti i congressisti devono essere eletti per il Congresso nazionale; ai Congressi provinciali solo i dirigenti nazionali, il segretario provinciale uscente e quello della organizzazione giovanile riconosciuta, devono essere membri di diritto.

Tolleranza, umiltà e solidarismo devono formare lo spirito comunitario del nuovo militante. Solo il solidarismo e la tolleranza favoriranno i cambiamenti strutturali; la creazione, ad esempio, di circoli paralleli di aggregazione, che senza libertà operativa non hanno senso.

Riacquisito il vero militante, che sappia essere interessato alla immagine pubblica molto meno che alla immagine interna, che non concepisca la politica come mestiere, ma come espressione ideale e comunitaria; garantiti contro i tempi grigi del partitismo con una rigorosa morale interna e rapporti camerateschi, saremo allora nella ragione a reclamare la nostra diversità, che oggi poggia su distinguo terminologici ed esili fili di realtà.

Nel quadro politico nazionale uno dei fenomeni più evidenti è che apparentemente i giovani hanno perso la capacità di essere soggetti politici.

L'Occidente della sicurezza e della sopravvivenza ad oltranza, dopo dieci anni che avevano visto i giovani tesi a costruire progetti lunghi o ricercare accelerazioni improvvise, sembra averli incapsulati in un rigido corpo di forme evasive e congiuntamente inoffensive per la sua stabilità.

Si è discusso a lungo di riflusso, prendendo a prestito il dibattito della sinistra che improvvisamente perdeva l'egemonia della piazza. Non si è riflettuto forse a sufficienza che si trattava solo di una ripulsa della forma politica tesa a burocratizzare lo Stato, a defraudare la società, la comunità; un fenomeno che finiva per creare «l’uomo solitario di sinistra». Un tipo umano troppo teso ad usare un linguaggio standard, a vergognarsi di sensazioni proprie, arrivando infine a trovarsi centro, senza sensazioni forti ed intime, poveramente eguale a tanti altri.

Al solitario di sinistra il sistema ha sostituito il modello del solitario di destra. Il giovane teso al successo scolastico, al posto sicuro, alla esistenza anche intima garantita. Un modello vincente, che piace ai genitori, alla scuola, alla chiesa, allo stato. Un giovane così sociale da essere irrimediabilmente privo del privato, irrimediabilmente destinato alla solitudine.

Fortunatamente il diavolo non è fabbricante di coperchi. Le operazioni di modellizzazione dei giovani si possono tentare, ma in genere non riescono a lungo. Troppo vivacemente pronti a riaccendersi, basta trovare la fonte di calore da avvicinare. Costituiscono l'eterno problema di chi concepisce la società come una palude. È da questo principio di speranza che si innesta la necessità di mutare la nostra mentalità e poi la nostra struttura.

Comunità aperte: è il primo elemento necessario per l'aggregazione giovanile. Disponibilità alla ricerca ed alla sensibilità propositiva. Superamento degli schemi di partito.

La riaffermazione comunitaria, se è necessaria per il Movimento, diviene indispensabile per il mondo giovanile. Pensare oggi di aggregare con la manifestazione di piazza, il volantino, il comizio -si è detto da tempo- è pura follia. È trasferire l'incomunicabilità tra noi, ritualizzandola.

Dobbiamo rispondere al fatto che esiste la fascia giovani". È aggregata dai problemi (lavoro, casa, tempo libero, smobilitazione esistenziale). L'età fa difetto come elemento aggregante. Il trentenne ha gli stessi problemi del ventenne. Forse diverse intensità, ma stesse domande.

Da questo la necessità di rifondare il nostro mondo giovanile in modo tale che dia risposte ai problemi, che sia in grado di assumersi e viverli come comunità. È il primo passo verso la scoperta di una nuova forma politica: il solidarismo.

La comunità che vuole affrontare i problemi, anche privati, perché inevitabilmente sono i problemi di tutti. Dalla creazione della comunità alla capacità propositiva il passo potrebbe essere breve. L'arricchimento del lavoro comunitario, l'utilizzazione del tempo libero, sono le uniche forme possibili per proporre un nostro modello rivoluzionario alla società del competitismo e del televisore. Cooperative di lavoro, associazioni ricreative sono le nuove frontiere del politico che trova i suoi nuovi luoghi, ponendosi come cardini l'uomo, la comunità, lo Stato.

Lo spirito che condurrà queste nuove azioni qualificherà veramente i contenuti. Se sarà il modello legionario la meta, tutto sarà omogeneo ed il progetto sarà palpabile.

Come porsi obiettivi ambiziosi con un Movimento sempre più partito? Il quesito è di violenta attualità. Far invecchiare i giovani per cercarsi posti nei parlamentini di regime è vergognoso. È necessario cambiare rapporto verso i giovani. Essere disposti ad accettare e guidare la selezione quadri non in funzione di clientele o correnti, ma su progetti esclusivamente ideali. Anche il modello strutturale attuale deve essere buttato a mare.

FdG e FUAN copiano schemi, organizzativi e perfino territoriali, logiche interne del Movimento. È una proposta assurda per gli anni '80 e '90 dal punto di vista culturale; umiliante dal punto di vista politico.

È necessario creare una unica struttura autonoma del Movimento. Che abbia in questo il suo interlocutore ed il suo portavoce nelle istituzioni politiche.

Le forme devono essere di tipo associativo; aperte alle iniziative locali che possano scegliere di orientarsi nei campi più diversi: ecologia, sport, politica propria, altre forme di tempo libero. Queste associazioni si dovrebbero riconoscere in un progetto comunitario e rivoluzionario nazionale di comune matrice. È evidente che è richiesta la nuova mentalità già citata del Movimento.

Ai giovani del Movimento non occorrono spazi privilegiati ai congressi (comprimibili in sede locale a piacimento), ma spazio organizzativo, possibilità di proporre progetti e possibilità di realizzarli. È un investimento ideale e materiale che il Movimento deve fare verso i giovani.

 

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Un movimento rivoluzionario, che agisce in una società complessa, non può fare a meno di una presenza qualificata nel mondo della produzione.

In tempi come questi in cui i modelli produttivi sono ridiscussi, dove le scelte future sono difficili da quantificare e da qualificare con precisione, possiamo ancora proporre i nostri modelli?

Può la socializzazione corporativa essere ancora la nostra linea propositiva? Si può rispondere di si. Non esiste ancora, in ipotesi, un progetto di società che possa fare a meno del lavoro. Dove esiste il lavoro esiste il problema della organizzazione di questo e delle forze produttive.

Esiste quindi il problema di sempre: superare il modello di sviluppo del capitalismo, confermando il primato dell'uomo e la necessaria responsabilizzazione del lavoratore nei confronti della comunità nazionale. Un tema che potrebbe divenire omnicomprensivo se si pensa che il sistema produttivo capitalista sta facendo proseliti anche nei paesi socialisti. Qualcuno dirà: «non poteva che essere così».

Dobbiamo però ammettere che è necessario misurarsi senza preconcetti verso il nuovo, superando le barriere degli slogans che fino ad oggi hanno creato una immagine di inattualità negativa sul sindacalismo nazionale. La proposta per il mondo del lavoro deve venire dal mondo del lavoro. Il no al teorismo economico deve essere netto. Poste le linee che segnano le scelte di campo deve essere il sindacato a ridarsi una forma e a trovare nel Movimento un interlocutore attento ed aperto. Non passivo. Non tracotante.

Questa, quindi, è la sede più adatta per esprimere dubbi, domande, che piuttosto per dare risposte. E troppi sono i dubbi sull'attuale stato della CISNAL. E troppi sono i quesiti morali e politici che vengono posti senza trovare risposta. Non ci possiamo dimenticare che la scissione di Democrazia Nazionale trovò nella CISNAL un terreno di coltura. Dopo la fine di Democrazia Nazionale a molti è rimasto il dubbio che non si sia più ridiscusso l'assestamento del sindacato. Ancora oggi la ricerca di documenti del Comitato Centrale del Movimento che si occupino dei rapporti con la CISNAL è impresa disperata.

Sarà un caso, ma dalla scissione, l'azione sindacato-partito è sembrata coincidere, spesso casualmente. Più frutto di una comune cultura della opposizione, che frutto di una analisi comune. Non ci nascondiamo la difficoltà di movimento del Sindacato nazionale nel mondo del lavoro. Difficoltà superiori a quelle del Movimento stesso, dato che il Sindacato è schiacciato tra la privilegiata setta della triplice e il confuso protestatario sindacalismo autonomo.

Ma quando mai si è vista una battaglia sincera, dura, che abbia visto Movimento e Sindacato camminare insieme? Dov'è la carica rivoluzionaria che dovrebbe essere ben presente a chi ha fatto dello spirito nuovo della RSI un modello per affrontare i problemi del lavoro? Dove esiste nel Movimento una strategia di intervento, aiuto e dibattito con il Sindacato? E dove esiste una strategia di arricchimento di contenuti da parte del Sindacato per le battaglie del Movimento?

Non c'è vero interscambio. Tutto è apparenza nella migliore delle ipotesi. Perchè non parlare della crisi dell'ENAS? Un ente in cui girano miliardi e di cui non si capisce il funzionamento, le logiche di gestione, il rapporto con il nostro mondo? Doveva essere la nostra immagine sociale. All'esterno lo è ancora: difendiamola.

Se la società complessa non ci permette di essere tanto ambiziosi da disegnare un progetto preciso, si può però dire che abbiamo il sentimento del progetto nuovo.

Come sempre sembrano gli aspetti organizzativi a frenare la nostra azione. Ma attenzione -è necessario riaffermarlo in chiaro- c'è un fatto sconcertante in relazione al Sindacato. Mentre il difficile dibattito sul Movimento ogni tanto alza il tono, il Sindacato sembra oggetto di una concezione di inviolabilità del silenzio. Violiamola.

 

NÉ DESTRA, NÉ SINISTRA

«Il Fascismo è essenzialmente una sintesi di nazionalismo organicista, socialismo antimarxista e ideologia rivoluzionaria». (Zeev Sternhell)

Quante volte abbiamo detto o sentito dire in nostre riunioni o nel corso di comizi che il MSI andava contro il liberalismo ed il marxismo? Quante volte abbiamo scritto e sostenuto, nei documenti, che il MSI rappresenta la cosiddetta «terza via» oltre il collettivismo ed il capitalismo. Fino alla noia. Ma quante volte, nei fatti e nella politica quotidiana, ci siamo comportati di conseguenza? Raramente. La stessa etichetta «destra» che ci hanno imposto e che prima abbiamo passivamente accettato e poi fatta nostra, è la dimostrazione più palpabile di quanto sopra affermato. Questione soltanto di forma, si potrebbe obiettare. No, questione di sostanza.

Quante volte in noi stessi abbiamo temuto, o sentito d'istinto, che la parola «destra» in sé o per sé può essere foriera di equivoci riduttivi e devianti rispetto a ciò che siamo e che vogliamo essere; rispetto, è bene ricordarlo, alle nostre origini? Ciascuno di noi si è trovato di fronte a questo interrogativo. E molto spesso nessuno si è saputo spiegare il perché adoperiamo ancora questa etichetta riduttiva, fuorviante e contraria ai nostri princìpi.

Quando si usa un termine che già in partenza si sa aver bisogno di aggiunte chiarificatrici e rettificatrici, è segno evidente che lo si ritiene equivoco. Ma c'è di più. Definirsi di destra significa, nella sostanza, rinnegare le nostre origini. Il Fascismo movimento non è mai stato, né mai si è dichiarato, di destra. Il MSI, quando nacque, non si definì certamente di destra. Come avrebbero potuto definirsi tali coloro che combatterono nella RSI e abbracciarono i 18 Punti di Verona? Come possono definirsi tali coloro che ancora oggi credono nella validità e nella attualità dei 18 Punti di Verona? Sono realtà incontestabili. Come fa a continuare ad accettare l'etichetta di destra un Movimento che si richiama alla socializzazione, alla partecipazione? Sono tutte domande legittime ed alle quali occorre dare una chiara e definitiva risposta. Se si crede, come pensiamo sia giusto, a quanto sopra detto, è opportuno e indilazionabile mettere in discussione l'etichetta «destra». Essa rappresenta, proprio per quello che in negativo significa di fronte alla pubblica opinione (reazione, conservazione sociale ed economica), una vera e propria palla al piede per un Movimento che, per di più, si definisce «sociale». Scrollarsi di dosso l'equivoco «destra» significa allora essere di sinistra? Neanche per sogno. Un Movimento che guarda alla difesa di certi valori morali e spirituali, che guarda al superamento della lotta di classe, che propone il Corporativismo e parla di Stato Organico, non può essere né sarà mai di sinistra.

Il MSI può, e deve, andare oltre la destra e la sinistra. Qui sta la nostra autentica diversità. Questa è l'unica «terza via». Una «terza via» che può essere proposta, perseguita, sostanziata ed attuata solo da un Movimento autenticamente sociale, popolare e rivoluzionario. Fuori, una volta per tutte, dagli schemi di ottocentesca memoria che, comunque li si guardi, ci riconducono sempre al capitalismo o al marxismo, al liberalismo o al collettivismo. Uscire da questi schemi significa in definitiva porsi realmente e concretamente il problema della ricerca del consenso e della conquista della cosiddetta società civile. Obiettivi e prerogative che devono essere alla base di un Movimento che voglia essere alternativa al sistema e rifuggire da ogni spinta riformista e da qualsivoglia prurito di moderatismo.

 

POLITICA ESTERA

«Fate si che si chiuda questa stupida rissa e non si parli più di atlantismo in seno ad un partito politico che è vittima dell'atlantismo e dell'antiatlantismo». (Filippo Anfuso, L'Aquila, 1952)

Importante è una premessa. La scelta di campo in politica estera è essenziale e non più rinviabile. Da essa discende infatti in larga misura la definizione di una linea politica generale del Movimento autonoma, coerente e costante. Occorre, quindi, eliminare ogni pressappochismo ed ogni approssimazione che hanno fino ad oggi caratterizzato la trattazione dei temi di politica internazionale. Ciò allo scopo di evitare che i militanti e gli elettori non sappiano quale atteggiamento prendere dinanzi ad avvenimenti internazionali, ma soprattutto per non cadere più nella politichetta di ridicoli ed assurdi affiancamenti a posizioni soltanto genericamente anticomuniste e conservatrici. Deve finire l'equivoco, che poi pesa negativamente nella nostra immagine esterna, di vedere assai spesso tollerare o quantomeno non condannare certi cosiddetti «regimi di destra» o presunti tali. Vedi Grecia dei colonnelli, Cile, regimi militari dell'America Latina, ecc. Così come deve finire l'equivoco di esaltare, ad ogni pie’ sospinto, la eventuale vittoria in questo o quel Paese occidentale, o orientale che sia, di raggruppamenti che si definiscono di «destra», ma che con noi non hanno niente a che vedere dal punto di vista politico, culturale e sociale.

Non dobbiamo mai dimenticare l'origine del MSI che nasce dal grande scontro ideale, politico, economico e bellico della seconda guerra mondiale; che nasce contro l'aberrante trattato di Yalta dove i due imperialismi, quello sovietico e quello americano, si sono spartiti l'Europa e il mondo. Nella logica di Yalta si è andati avanti in questi oltre quaranta anni durante i quali si è sempre più evidenziato il fallimento «gestionale» delle società socialiste e quello «esistenziale» dell'americanismo. Il MSI è di fatto ancorato alla logica dei blocchi contrapposti. È mancata quell'analisi culturale che è sempre da sottendersi alla analisi politica e alla costante acquisizione di dati di documentazione aggiornata. Non si può, né si deve, condividere certo zelo atlantista e a volte super-atlantista che, in sostanza, hanno sempre contrassegnato le prese di posizioni ufficiali del nostro Movimento in politica estera. Non è -per una serie di motivazioni culturali, sociali, esistenziali, storiche- accettabile la teoria che di fronte alla Russia, l'America è il «male minore». Ma è pur sempre un male. Occorre ampiamente ribadire, proprio perché culturalmente motivata, la nostra opposizione a quella che si può definire «la civiltà della Coca Cola» proveniente dagli Stati Uniti d'America disgregatrice dello spirito e dell'anima delle nostre tradizioni popolari e nazionali. Opposizione che deve andare di pari passo, con quella, sulla quale non occorre neppure soffermarsi, al cosiddetto «socialismo reale». Deve essere messo in luce e contestato il profondo legame che unisce gli USA all'URSS a danno dell'Europa e del mondo libero. Nessuna compiacenza dunque verso la politica estera nord-americana dimostratasi da Roosevelt in poi, sempre e comunque a favore della sopravvivenza del comunismo internazionale.

Occorre invece tornare a guardare alla nostra memoria storica. Battersi per far recuperare alla nostra Nazione un posto di dignità in Europa e nel mondo, quel posto cui le danno diritto la sua storia e la sua civiltà. È necessario tornare a parlare di Mediterraneo perché è lì che sta la nostra vita ed è lì che sono i nostri interessi primari. Così come dobbiamo parlare di Europa. Non di certo l'Europa della Tatcher, di Spadolini, del MEC o di Strasburgo. Un'Europa, questa, che non è nata e non nascerà mai perché è un'Europa impigrita e vigliacca, pronta solo a non decidere, abituata a rinunciare e a dimenticare.

La bandiera dell'Europa è nelle mani dei nazionalisti che già, è bene ricordarlo, l'avevano impugnata nella seconda guerra mondiale che fu la guerra dei nazionalismi sulla via dell'Europa.

«Soltanto i veri nazionalisti possono fare l'Europa». È questa una verità fondamentale lanciata alcuni anni fa da Adriano Romualdi. Ma già nel 1951 Filippo Anfuso nella rivista "Europa Nazione" da lui diretta affermava:

«Bisogna discutere ampiamente e senza riserva alcuna il problema della unità europea nel senso nazionale, cioè a dare l'indirizzo da imprimere ad un movimento che, partendo dai doveri che ogni cittadino ha verso la sua Nazione, si esprima nella volontà del cittadino stesso di ripetere tale sua adesione, nella stessa misura, per concorrere alla formazione di una entità nazionale europea».

È un traguardo ambizioso e forse lontano come qualcuno potrebbe obiettare anche all'interno del nostro Movimento. Ma c'è da dire che certamente non l'avvicinano quanti -riprendendo, rieccheggiando acriticamente nelle nostre file, tematiche, concetti e «schemi» liberaloidi e socialdemocratici- proprio quel traguardo non si pongono, rinunciando così a priori alla necessaria coerenza verso le tesi dell'alternativa e a tutta la nostra «memoria storica».

 

IL MESSAGGIO E L'IMMAGINE

«Esistono crimini che coinvolgono il mondo nella sua totalità, lo colpiscono nella sua struttura logica, e allora anche l'amico delle muse non deve più consacrarsi alla bellezza, ma alla libertà».

«Per noi la dignità umana deve essere ancora più sacra della vita".

(Ernst Jünger, Diario, 1941-1945)

 

Non mancano certamente gli argomenti per un ricco e articolato dibattito precongressuale ma quanto ci si propone con queste, riflessioni non è di individuare ed esaminare temi e problematiche che ci pongano strumentalmente all'attenzione dell'opinione pubblica, bensì di richiamare l'esigenza, ormai improcrastinabile, che il nostro «messaggio» acquisti, finalmente, quella incisività che, sola, ci farà guadagnare nuove simpatie e nuovi spazi.

Quale massima aspirazione di una forza politica che si proponga la conquista del potere, l'aggregazione del consenso impone che, in relazione ai singoli avvenimenti ma soprattutto a quelle scelte che si riflettano su stili e modelli di vita, il partito assuma posizioni precise e comportamenti conseguenti, rifuggendo dall'intempestività, dall'equivoco, dall'incoerenza. Troppo spesso, nelle assemblee elettive, nelle piazze, sui luoghi di lavoro, si avverte il disagio di una ambiguità che lascia al buonsenso e alla buona volontà dell'iscritto la formulazione estemporanea del pensiero del partito su questo o quel determinato problema, con quali conseguenze per l'omogeneità del nostro «messaggio» è facile immaginare. Se alle sempre possibili e -sic stantibus rebus- inevitabili distorsioni dell'immagine pubblica del Movimento si aggiunge lo sconcerto in cui si sprofonda il militante, che pure reclama, ormai anche nel nostro ambiente, ad alta voce una fede ragionata, appare evidente come non si possa più differire un pronunciamento definitivo su talune questioni di fondo, senza riserve e sottili distinguo di difficile e dubbia ricezione.

È, questo, il momento dei «si» e dei «no» assoluti, qualora veramente si voglia che, nell'intreccio caotico dei mille e mille segnali che, dalle fonti più diverse e attraverso i più disparati mezzi, quotidianamente investono il cittadino, si delinei limpidamente la nostra visione del mondo.

E allora chiediamo, ad esempio: Cile si, Cile no?

Evidentemente, non si intende qui sollecitare un responso referendario pro o contro Pinochet ma piuttosto sottolineare, attraverso l'analisi, scevra di pregiudizi e pacata, dei caratteri distintivi di un regime quale il cileno, l'opportunità di una più attenta ponderazione che inibisca l'immediato innesco di meccanismi reattivi.

Idea sociale nel Cile di Pinochet, forme tradizionali? E ancora: un'idea è veramente forte se la sua forza le discende dall'uso delle armi ed è perpetuato instaurando un clima diffuso di terrore e conculcando i più elementari diritti della persona e la sua dignità? Può essere considerata, questa, una forma accettabile di ricerca del consenso?

Sono, quelli che precedono, interrogativi che meritano una nostra risposta, precisa e lineare; interrogativi che solo un atteggiamento superficiale può far ritenere come superati dall'esperienza se è vero, come è vero, che, dopo quarant'anni di presenza a tutti i livelli nelle assemblee elettive, ancora ci si chiede se sia possibile e utile il confronto con le forze politiche di regime.

Prese di posizione troppo tiepide, giudizi troppo sfumati consentono chiamate in connivenza che ci rendono poco credibili allorché manifestiamo il nostro sdegno per la compressione dei diritti civili e politici nei Paesi dell'Est. Sarebbe, in ogni caso, moralmente riprovevole l'uccisione di Pinochet, scrive il nostro quotidiano; ma è altrettanto moralmente riprovevole il regime di Pinochet che non solo uccide in prima persona, ma tollera che altri lo faccia al posto suo, lasciando che la motivazione politica ammanti di «legittimità» magari un omicidio per interessi?

A questo punto, sorgerà spontanea una domanda: la condanna di regimi quale il cileno, comporta il pericolo di una nostra omologazione con altre forze politiche? Non abbiamo timore di rispondere affermativamente e, anzi, se il riconoscimento della pari dignità di ciascun uomo che «ci confonde e ci assimila», ben venga questo riconoscimento, esplicito e pieno, da parte nostra, poiché si tratta di optare per la forza dell'idea o l'idea della forza, bruta e cieca, tenendo fermo che far proprio il principio dell'ineguaglianza -fra gli uomini come fra le nazioni- non necessariamente comporta la pratica dell'intolleranza. È su altri piani che la nostra «diversità» si deve manifestare, operando perché quella dignità sia tutelata e, anzi, sublimata.

La nostra dottrina sociale va in questa direzione così come l'ideale della pacificazione nazionale: lasciamo ai comunisti l'esclusiva dei due pesi e delle due misure nel giudizio della violenza -fisica o morale- perpetrata sull'uomo.

 

DOPO CHERNOBYL: ANCORA E SEMPRE CERTEZZE?

È di poco tempo fa la notizia secondo cui il partito, ai massimi livelli, ha elaborato ben tre documenti sul nucleare. Ebbene, la cosiddetta «base» non ne ha, a tutt'oggi, la pur minima conoscenza, non ne conosceva addirittura l'esistenza, ciò significando che il militante missino, sull'argomento specifico e non soltanto su quello, subisce una doppia «congiura del silenzio»: quella esterna, che lo accomuna al popolo italiano, e quella interna, molto più avvilente della prima perché bolla d'immaturità l'intero Movimento. Riteniamo di non violare la disciplina di partito ponendo l'esigenza che del nucleare si parli, anche alla luce dei nuovi fatti tragicamente intervenuti negli ultimi tempi. Chernobyl è valsa, in effetti, a qualcosa perché, scuotendoci dal torpore mentale che ormai solo emozioni sempre più violente riescono a spezzare, ha aperto uno squarcio nel muro del tempo al di là del quale, seppure per un attimo e magari in termini apocalittici, ci si è offerto lo scenario di quello che potrebbe essere il nostro futuro. Ecco, quella visione conferisce, deve necessariamente conferire tutt'altro valore ai dubbi e alle perplessità che accompagnano l'uomo nella formazione del suo libero convincimento. Prendendo la parola nel dibattito svoltosi in Commissione Industria sull'aggiornamento 1985-1987 del PEN, il senatore Gradari affermava: «Sul nucleare: non sappiamo francamente cosa dire. Stiamo seriamente chiedendoci se non valga la pena di abbandonare il discorso "centrali". Non è possibile dover fare i conti con un'assurda precarietà di indirizzi e di scelte, leggere nelle più ottimistiche delle tabelle scadenze e percentuali semplicemente risibili (...) Vista la situazione ed il modo di procedere, tanto vale che il settore nucleare trovi la sua ragion d'essere solo nella ricerca, nelle collaborazioni con l'estero, nella promozione dell'innovazione, nella commercializzazione di prodotti a tecnologia avanzata (...) Per il nucleare restano da risolvere con adeguate certezze problemi di non poco conto, con specifico riguardo alle tecnologie, al ciclo del combustibile, alle scorie ...». Soltanto pochi giorni dopo, e cioè il 28 novembre 1985, il gruppo del MSI alla Camera -primi firmatari Staiti, Martinat, Abbatangelo e Almirante- al termine del dibattito sul PEN, presentava una risoluzione nella quale si sostiene che «la realizzazione di centrali termonucleari costituisce anche occasione e condizione di una più alta qualificazione e di migliori esperienze tecnologiche che incidono sulla cultura e sull'autonomia nazionale» e «si impegna il Governo a predisporre tutti gli strumenti atti a (...) procedere sollecitamente alla realizzazione delle centrali termonucleari previste dal Piano Energetico Nazionale, previ opportuni accertamenti sulla sicurezza ed ubicazione».

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I dubbi, quindi, si erano sciolti come neve al sole, e così le perplessità. Forse, il senso di responsabilità -quello stesso che ci induce ad astenerci sul d.d.l. per l'amnistia cui, peraltro, in linea di principio, siamo contrari- aveva avuto la meglio, come oggi si afferma per ribadire quella scelta, perché «il MSI non può prendere sul serio il ritorno ad una ibrida e falsa civiltà pastorale». E qui si continua a prendere in giro perché, ostinatamente, si pone il problema in maniera fuorviante, ricadendo nel «catastrofismo» rinfacciato a quanti identificano il nucleare con la fine del genere umano. Il «no» all'energia termonucleare, infatti, non rigetterebbe il mondo nelle tenebre, ma comporterebbe, puramente e semplicemente, il «sacrificio» di continuare a vivere, per un periodo di tempo più o meno lungo, ai ritmi attuali, al livello di vita odierno, senza il tanto paventato revival agreste. Fra i pochi dati certi che si conoscono in materia, è quello secondo cui il contributo dell'elettricità nucleare alla copertura della domanda è oggi contenuto, in Italia, nell'ordine del 3% mentre, intorno al Duemila, investendo centinaia di miliardi nella costruzione delle nuove centrali previste dal PEN, raggiungerebbe appena il 4,6%: cosa mai potrebbe succedere al sistema industriale italiano ove si decidesse di surrogare il nucleare con altra fonte di energia? Ammesso, e non concesso, che il nucleare presenti una maggiore economicità, i benefici comincerebbero a riflettersi sulla competitività della nostra industria nel lungo, se non lunghissimo, periodo, e comunque dopo il Duemila, e cioè dopo un lasso di tempo ragionevolmente sufficiente perché la scienza raggiunga l'obiettivo della fusione termonucleare controllata le cui caratteristiche sono, oltre alla sicurezza di funzionamento e quella dell'ambiente, l'inesauribilità e la disponibilità dei combustibili necessari in tutti i Paesi, che così si assicurerebbero la completa indipendenza energetica. È significativo che queste caratteristiche non siano contestate neppure dai fautori del «nucleare subito» i quali si limitano a eccepire -magari citando Rubbia- la lunghezza (quarant'anni) dei tempi indispensabili a che la fusione sia sfruttabile su scala industriale. L'argomentazione -come l'altra che vorrebbe si optasse per il nucleare onde contenere la nostra dipendenza da certi Paesi Arabi ben individuati, trascurando il particolare che le centrali italiane si avvalgono in gran parte di uranio arricchito in Unione Sovietica- appare in verità deboluccia, perché sappiamo che i giacimenti delle altre fonti energetiche, ai livelli attuali di consumo mondiale, possono durare ben oltre i quarant'anni e che lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica non è legato a ritmi standardizzati per cui ogni previsione in questo campo è perlomeno azzardata. Lo stesso Rubbia lo conferma allorché paragona lo sviluppo tecnologico-scientifico a «un treno che sta andando a 300 all'ora e sta accelerando, che la locomotiva è vuota, che il guidatore non c'è, che non c'è il freno, che non c'è la frizione e che non si sa dove cavolo sta andando». Piuttosto, per l'appunto questa progressiva accelerazione, folle e incontrollata, del processo tecnologico-industriale ci dovrebbe spingere a una più matura riflessione, in ispecie quando formi oggetto di autocritica da parte di un Premio Nobel per la Fisica. Tuonare contro la tecnocrazia, lamentare la sacralità della natura ha un senso se misura di ogni nostra scelta è l'uomo, il rispetto della vita e se ne migliori la qualità è almeno discutibile: basta pensare ai disturbi comportamentali causati dall'impatto emotivo degli incidenti nucleari.

 

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Perché, per quanto si convenga che anche questo nucleare sia natura al pari del sole, non possiamo dimenticare quale effettivo controllo abbiamo della reazione a catena e la scarsa o inesistente conoscenza delle conseguenze che l'irradiamento produce sul corpo dell'uomo. Siamo appena agli inizi, insomma, nonostante del nucleare si faccia ormai largamente uso nel mondo, a testimonianza del baratro verso cui l'umanità si è incamminata. Non si vuole, qui, far leva sulla scontata repulsione della gente per una prospettiva di morte e distruzione ma richiamare alla realtà quanti si affannano a magnificare la sicurezza di questo nucleare che sicuro non potrà essere mai, perché alla sicurezza del progetto si deve sempre accompagnare la sicurezza dell'esercizio, messa quotidianamente alla prova dalla perizia o imperizia, dalla diligenza o negligenza, dalla prudenza o imprudenza di chi vi è preposto, con tutti i limiti dell'essere umano, ben messi in risalto a Chernobyl. Il fatto stesso che «le tecniche di progettazione hanno completamente interiorizzato, fin dal loro nascere, il concetto di sicurezza (...) in ciò differenziandosi completamente dall'industria convenzionale che, al più, procede a fine progetto a una verifica delle caratteristiche di sicurezza» evidenzia la maggiore pericolosità del nucleare rispetto alle altre fonti, e non una maggiore affidabilità.

 

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Inutilità e pericolosità del nucleare, dunque. Ve n'è a sufficienza per decidere di metterlo da parte e confidare proprio nel progresso di quella scienza e di quella tecnologia che ci hanno regalato «questo» nucleare, ridisegnando beninteso il quadro entro cui si collocano la scienza, la politica, l'economia, l'etica nel rapporto con l'uomo e la natura. E, nel frattempo, incentivare la ricerca nel settore delle energie rinnovabili, da sempre considerate una prospettiva ineluttabile, stante la finitezza delle altre fonti, e ciò nonostante continuamente ignorate; e perseguire, finalmente, politiche di risparmio energetico, che consentirebbero, cifre alla mano, di sopperire abbondantemente al mancato utilizzo del nucleare. Nella consapevolezza che l'ormai diffusa sensibilità per certe tematiche, imposte all'attenzione della classe politica dalla costante opera di denuncia e di vigilanza dei cittadini, consigli di governare con il consenso, e non con le leggi, e quindi di informare per convincere, magari alla rinuncia e al sacrificio: perché il popolo, sottratto alle sirene di una comoda prosperità con cui non si debba mai fare i conti, diventi Nazione.

 

SOCIALE: SI, MA COME?

Riteniamo superfluo premettere l'analisi dei guasti e delle degradazioni di questo sistema, in esso trascorrendo quotidianamente la nostra esistenza, e non su un'isoletta felice. Sappiamo tutti -e forse anche perché molti di noi vi vivono ai limiti o vi sono ricompresi- che esistono ampie sacche di povertà, in crescente espansione e in fase di conosolidamento; siamo a conoscenza -per averlo magari sperimentato sulla nostra pelle- della penuria e dell'inefficienza dei servizi sociali, del deterioramento, progressivo e apparentemente inarrestabile, dei rapporti familiari e interpersonali nelle megalopoli come nei piccoli paesi, ormai omogenei e indifferenziati salvo in quanto rimane delle vestigia di epoche remote. Preferiamo, quindi, venire subito al nocciolo: ciò che ci proponiamo, infatti, è di stimolare una comune riflessione, sollevando, magari in modo problematico, talune questioni relative alla posizione del Movimento di fronte al «sociale». E, innanzitutto, se non sia politicamente opportuno abbandonare la pretesa di voler rappresentare e tutelare, sempre e comunque, gli interessi di tutti i ceti sociali, di tutte le categorie del mondo del lavoro e della produzione; se si possa, in questo sistema, essere contemporaneamente il partito dei «bottegai» e dei disoccupati o se un simile modo di procedere non rischi di farci essere «uno, nessuno e centomila»; se la nostra idea sociale non acquisti un senso solo in prospettiva, allorché le disparità fra classi e fra soggetti siano levigate e le diverse istanze si rapportino in maniera equilibrata al superiore interesse della comunità nazionale; se, oggi, l'interclassismo integrale, così come caparbiamente lo interpretiamo, non si riduca o perlomeno -e la cosa non è da sottovalutare- non sembri ridursi a mera propaganda elettorale, con pessimi risultati per l'immagine del partito e l'aggregazione del consenso; se non si avverta l'esigenza di elaborare una strategia, un progetto politico per la fase intermedia, di raccordo -non sappiamo quanto lunga- fra questa che viviamo e quella che dovrebbe segnare l'avvento della «terza via». Una terza via che non può, peraltro, non avere nella solidarietà, nel mutuo soccorso fra le varie componenti della società il proprio punto di forza, capace di sgretolare quel muro d'indifferenza che si leva attorno alle categorie meno protette, meno garantite: le nove famiglie povere su cento, con un reddito inferiore alla soglia minima di sopravvivenza; i tre milioni di disoccupati; i senzatetto permanenti, i tossicodipendenti; gli anziani; i bambini violentati; gli handicappati; i malati mentali; i carcerati. L'umanità sofferente, quella che paga più che un «costo esistenziale» al modello economico imperante, essendone espulsa silenziosamente perché gli altri non se ne accorgano o possano far finta di niente, merita senz'altro una maggiore attenzione di tutta quella gente che ha stretto una sorta di «do ut des» col sistema per cui, quanto le viene tolto oggi, le sarà restituito domani o le è già stato abbondantemente elargito ieri. D'altronde, è su questi taciuti patti, su questi piccoli e grandi compromessi che si regge l'attuale struttura di potere ed è impossibile per un Movimento come il nostro reggere il confronto sul piano del clientelismo, per cui assumere posizione su grandi e fondate questioni di principio ci sembra molto più remunerativo e appagante. Così, ad esempio, è stato per l'adesione ai referendum sulla «giustizia giusta» seppure l'intempestività della decisione e l'assoluta carenza di strumenti operativi abbiano conferito un carattere poco più che simbolico alla nostra presenza.

Così potrebbe essere per tante altre battaglie come quelle per il diritto al lavoro, il diritto alla casa, il diritto all'informazione, il diritto all'ambiente, il diritto alla salute, il diritto alla vita, solo che ci fosse una ben diversa determinazione e si adeguassero opportunamente le strutture del partito, con dipartimenti agili ed efficienti che individuino i problemi, impostino le linee d'azione, producano materiale di sostegno per le iniziative intraprese. I benefici per l'immagine del partito potrebbero essere enormi, in quanto l'omogeneità di linguaggio ci restituirebbe quella credibilità, oggi un po' offuscata, necessaria per operare fattivamente nella società e puntare alla sua conquista. Alla base di tutto, però, lo ripetiamo, è la convinzione della bontà della propria opera, che coinvolge e corresponsabilizza: la discussione è aperta.