DUELLO AL SOLE

Anno 1988

17 dicembre 1988

31 dicembre 1988 31 dicembre 1988

 

dal "Secolo d’Italia"

 

17 dicembre 1988

Certe dinastie qualche memoria


SI fa un gran parlare degli arricchimenti dei politici. Gli si fanno i conti in tasca. E non tornano.
Sull'argomento c'è anche polemica fra i quotidiani e "la Stampa" (leggi Agnelli) attacca, il "Corriere della Sera" (sempre Agnelli) smorza, "la Repubblica" (leggi De Benedetti) difende (De Mita).
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E tutto un gioco sottile, impercettibile, fatto di sottintesi, del neocapitalismo italiano che, da Agnelli a De Benedetti, muove le proprie pedine, fa le proprie scelte, o perlomeno le predispone.
Il militante e il simpatizzante missino devono prestare la massima attenzione a questi «giochi», che sembrano buttati lì, cosi tanto per fare, ma che invece non sono dispettucci, ma cose serie. In questa democrazia senza popolo, sono proprio queste vicende degradanti che vengono a designare gli scenari politici di domani. Dunque attenzione, tanta attenzione.
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È, per spiegarci ancora meglio, come ai tempi di Fanfani, Moro e Andreotti. Quando, fra di loro, per ragioni di potere, gli accordi saltavano, l'Italia tremava. Non per nulla in Italia si registrano sette stragi misteriose e impunite. La prima è quella di Portella delle Ginestre del primo maggio del 1947.
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Ora, nell'occhio del ciclone, c'è l'intera famiglia del Presidente del Consiglio (che si ostina a conservare due cariche) e che, secondo ambienti parlamentari, si sarebbe «arricchita» con i fondi destinati al terremoto, e finiti nella Banca Popolare dell'Irpinia, di cui De Mita, con moglie, figlie e parenti vari, è azionista.
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«Nell'elenco dei soci della Banca Popolare dell'Irpinia», scrive "la Stampa" (5.XII.88) compaiono lo stesso Ciriaco De Mita con la moglie Annamaria Scarinzi e i figli Floriana, Simona e Giuseppe; Giuseppe Gargani e Nicola Mancino (autorevoli politici di vertice della DC) con le rispettive consorti; l'ex ministro Salverino De Vito, il senatore Ortensio Zecchino e l'on. Gerardo Bianco».
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"la Stampa" non si ferma qui. Continua. Ascoltiamola:
«Zeppo di cognomi che contano anche l'elenco degli altri 400 dipendenti. Tra i funzionari compaiono Alfonso Scarinzi, nipote della moglie del Presidente del Consiglio; i figli del Presidente del Tribunale Giovanni Iannuzzi; del Procuratore Capo di Sant'Angelo dei Lombardi Angelo Raino; del Questore di Napoli (già ad Avellino) Antonio Barrel».
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Fin qui "la Stampa". Tutta gente preparata, afferma il Presidente della Banca Ernesto Valentino, un ex-comunista passato alla DC, generosissimo (con i quattrini dei risparmiatori) nell'elargire contributi alle varie Feste dell'Unità.
Sì, indubbiamente, saranno preparatissimi, ma se si riflette solo un istante che, dentro la Banca Popolare dell'Irpinia, ci sono anche i rappresentanti della Banca d'Italia (la sorvegliante), bisogna ammettere che l'intreccio è perfetto. Si va dal Tribunale, alla Questura alla Banca d'Italia. In queste condizioni chi potrà mai dire qualcosa? Chi potrà chiedere giustizia nei conti? Chi potrà chiedere anche il pur minimo dei chiarimenti al riguardo? Il cerchio è chiuso. Ed è controllato. La Banca Popolare dell'Irpinia, in questa democrazia senza popolo, è in una botte di ferro.
C'è da scommettere che anche i comunisti taceranno. E chi si è visto si è visto, come dicono in Toscana.
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Ricordate Trilussa:
«Fanno l'ira di Dio! Ma appena Mamma (DC) / ce dice che so' cotti li spaghetti / semo tutti d'accordo ner programma».
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Intanto a Milano l'accordo è perfetto. DC e PSI, in nome di cognati (che diventano Sindaci) e fratelli (che diventano Presidenti della Regione Lombarda), marciano uniti. E guai a chi dissente. Infatti Paolo Pillitteri, sindaco di Milano, è cognato di Craxi. De Mita Enrico, professore alla Cattolica e commercialista affermato, andrà a ricoprire la carica di Presidente della Regione meneghina. Da un popolo «di Santi, Eroi e navigatori» ad un «Popolo di zii, nipoti e cugini».
Giorgio La Malfa non è stato definito «il figlio di Dio», appunto per essere figlio di Ugo La Malfa, figlio di tanto padre!
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Scrive Montanelli ("il Giornale", 7.XII.88): «La famiglia è sacra, ha tuonato l'altro giorno De Mita, che del sacro deve avere un concerto piuttosto personale. Fino a suggerire l'impressione, che per lui anche lo Stato, il Governo, il partito e tutto il resto sono cose da gestire fra zii, nipoti e cugini, e alla peggio da contrattare con gli zii, i nipoti e i cugini di qualche altra famiglia».
Affermano (gli intenditori) che tutto questo accade perché Andreotti (ma guarda chi si rivede!) vuole far fuori De Mita dalla Segreteria del partito. Siamo alle solite. Quando nella DC si arriva ai ferri corti, per il Paese sono dolori. In tutti i sensi. O mettono la mano nelle tasche, o, ahimè, scoppiano petardi. E che petardi! Non scherzo, badate. È sufficiente controllare. E meditare.
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Andreotti. Abbiamo assistito all'appassionata arringa che il Senatore Claudio Vitalone ha pronunciato in Commissione Antimafia «perché le famose schede» rimanessero segrete.
Abbiamo un tantino riflettuto. E ci siamo ricordati cosa scriveva E. Scalfari ("la Repubblica", 21 aprile 1974), quando Claudio Vitalone non sedeva ancora sui banchi di Palazzo Madama, bensì sulla sedia di Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma: «Claudio Vitalone è da anni -lo sa qualunque cronista giudiziario che eserciti a Roma la sua professione- il portavoce a Palazzo di Giustizia del Presidente del Consiglio Andreotti: "™
«Lo è in duplice modo: informa Palazzo Chigi "per tempo" di quanto sta per avvenire in Procura e dintorni, e porta in Procura e dintorni gli umori di Palazzo Chigi. Insomma, Vita-Ione è un canale».
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E «canale» continua ad esserlo. Ma in questo caso delle schede, non solo perché c'era da proteggere Lima, andreottiano di ferro, ma Lui stesso, Vitalone Claudio e famiglia. Perché, non se ne dolga il senatore, fra quelle carte sepolte, c'è lui e tutta la sua famiglia, compreso il cugino Vito. Queste sono le ragioni, umanissime e comprensibilissime fra l'altro, perché il Senatore si è tanto battuto...
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Trovo fra le mie carte un adesivo di propaganda. È di cinque anni fa. Dice semplicemente: 1883-1983: Mussolini non rubava.
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Un'aria più fresca. Scrive il "Corriere della Sera": «El Alamein (Egitto). Alla presenza delle poche decine di reduci in grado di affrontare il viaggio è stata rievocata la battaglia di El Alamein, che 46 anni fa segnò la fine dell'offensiva italo-tedesca in Africa».
Non un rigo di più.
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Lelio Logorio, ministro della Difesa, il 20 aprile del 1980, davanti ai Reggimenti della Folgore schierati, nella mia Pisa, disse qualcosa di più: «Paracadutisti, voi avete il privilegio ed io vi esorto ad esserne sempre più degni. Il vostro privilegio sta nel fatto che alle vostre mani è oggi idealmente affidata una bandiera che fa onore al Paese e all'Esercito: è la bandiera che nel 1942 fu tenuta alta ad El Alamein, nella più grande battaglia campale sostenuta dall'Esercito italiano nella seconda guerra mondiale. Voi siete gli eredi diretti di quegli uomini che 38 anni or sono, fedeli al dovere al quale erano stati chiamati, si meritavano, nelle sabbie roventi del deserto egiziano, l'ammirazione del mondo».
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Da non dimenticare: il 26 dicembre prossimo ricorre il quarantaduesimo anno della fondazione del MSI. La ragione, la forza, la vittoria, tutto sembrava da quella parte. David contro Golia. Il nostro punto di partenza, il loro punto di arrivo.
Ci hanno aiutato tanto i ragazzi che ad El Alamein, 46 anni fa, meravigliarono il mondo. Non dimentichiamolo!

 

31 dicembre 1988
La patria è di chi si batte


Montanelli ("il Giornale", 22 dicembre 88) scrive che, agli occhi della pubblica opinione, i diritti dei palestinesi legittimano il terrorismo. Diritto che invece sarebbe bollato come bieco se lo praticassero Ì tedeschi, i polacchi, gli istriani, sradicati tutti dalle loro piccole patrie. Questo, continua Montanelli, mi turba ancor più delle iniquità lasciate da una guerra. Tutte le guerre le lasciano. Ma è ipocrisia e malafede l'archiviarle tutte, tranne una...

Il discorso fila, ma c'è un particolare che Montanelli dimentica: che i palestinesi hanno avuto il coraggio di prendere le armi, di dare morte, e di morire. Le patrie si conquistano e si tengono e si conservano cosi. Non stando alla finestra, inchinandosi ai trattati dei grandi e dei prepotenti...
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Craxi, nel suo ultimo pellegrinare in America Latina, si è soffermato in Cile (12 dicembre) davanti alla tomba di Allende, ed ha notato che il nome non vi figura, E ha commentato: «E una cosa incredibile per qualsiasi persona civile. A chi fa paura un nome su una tomba?».
Giusto, è una cosa incivile, barbara diremo. Ma Craxi, e il suo partito, dove erano quando, qui da noi, un risorto CLN negò, per dieci anni, cristiana sepoltura a Benito Mussolini? A chi faceva paura quel nome?
È vero: la civiltà comincia con il rispetto dei morti...
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Dai giornali: «stanno restaurando il B29 che il 6 agosto del 1945 gettò su Hiroshima la bomba atomica, distruggendola al 98 per cento e dando morte immediata a 71 mila persone. L'aereo sarà esibito al museo dello spazio, durante le celebrazioni della scoperta dell'America»...
Anche le camere a gas sono state ricostruite ed esposte come monito. Il B29, strumento di morte, viene invece esibito per celebrare, come manifestazione in omaggio della scienza, del progresso, dell'entrata dell'umanità nell'era nucleare. È una manifestazione un tantino macabra. Sa di superbia. La esibisce la potentissima America e tutti tacciono...
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«Quando qualcosa di losco emerge nell'area dominata da un big politico, è molto difficile convincere l'opinione pubblica che quel politico non ne sapeva niente, che ha le mani politicamente nette, che il marasma è cresciuto a sua insaputa. Del resto, già oggi De Mita si trova in una situazione delicata: nulla, in Irpinia, avviene a sua insaputa. Anzi, in Irpinia non si muove foglia che De Mita non voglia. E la stessa cosa succederà un giorno in Calabria per il gemello Misasi, troppo tenero con troppa gente, dai Ligato ai Ciccio Mazzetta, ai capi delle Casse di Risparmio che vanno in malora» (Gianpaolo Pansa, "Panorama", 18 dicembre 1988).
Già: un ricordo personale. Quando Misasi, ministro della Pubblica istruzione, venne accusato nell'ottobre 1970, di essere in Calabria amico e protettore di mafiosi, ero deputato. Lo invitai, lui presente in aula, a chiedere una commissione di indagine, onde tutelare la sua onorabilità dalle accuse che gli venivano mosse. Non lo fece. Nemmeno quando a chiedere la stessa cosa fu, in persona, il presidente della Camera, allora Sandro Pertini. Avrebbe dovuto dimettersi, preferì rimanere ministro e tenersi quell'accusa...
Rimase amico dei mafiosi.
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Oggi, d'altra parte, glielo ricorda Francesco Macrì, detto Ciccio Mazzetta, leader della DC di Taurianova, eletto trionfalmente sindaco e subito arrestato per fatti di mafia. «Misasi è mio amico», afferma. E chi ne dubita? Lo sapevamo almeno da diciotto anni. Dall'ottobre 1970.
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"Avvenire" (23/11/88) giornale cattolico, a firma Cesare Cavalieri, sotto il titolo: «E il presidente Jotti cade sullo spinello», scrive: «L'on. Nilde lotti è un ottimo presidente, merita l'universale rispetto che le viene tributato. Ma l'on. lotti ha un passato, e il suo comportamento privato, molto prima che divenisse presidente della Camera, non è, a parere mio esemplare, cioè tale da essere proposto a tutte le donne italiane. Ed il mio modo di vedere era condiviso almeno dall'on. Rita Montagnana, che fu legittima consorte dell'on. Togliatti. Non è questione di rivangare, ma è che la moralità chiede anche una continuità temporale».
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E accaduto il finimondo. Sono insorti tutti. In testa, i più furiosi, i democristiani.
In piccolo è una vicenda che è capitata anche a me. Scrivendo sul "Secolo", una nota riguardante la vita della consorte dell'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, nella sua veste di funzionaria della Cassa del Mezzogiorno, mi vidi arrivare una lettera, a firma del segretario generale della Presidenza della Repubblica Antonio Maccanico, con la quale mi si esternava il dispiaciuto stupore del Presidente per le rivelazioni sul conto di sua moglie; che il Presidente era disposto a darmi tutte le delucidazioni al riguardo, appena mi fossi recato al Quirinale...
Preferii rispondere per lettera. E mi ricordo di essermi fatto forte di un argomento polemico: che tutti questi riguardi, per le donne illustri di questa Repubblica, ci si era ben guardati dall'applicarli verso un'altra Donna caduta in disgrazia, perché fucilata e appesa ai ganci di piazzale Loreto, insieme a Mussolini: Claretta Petacci.
Per lei, tutto in piazza. Brutalmente. Non una parola di comprensione, nemmeno di umana pietà. Sulla sua morte: ironia, sarcasmo, ferocia. Claretta Petacci risultava perdente e per lei solidarietà non esistevano. Nemmeno a quarant'anni dalla sua morte. Anzi era giusto che fosse stata massacrata dal mitra partigiano.
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Oggi, in tempi che sembrano più leggiadri e non sono stati mai tanto feroci, a difesa della vita privata delle varie lotti insorgono tutti. È un coro sdegnato. Generale. Quale morale? Tiratela voi, cari lettori...
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Ciriaco De Mita è stato difeso, in relazione allo scandalo dell'Irpinia, da Giulio Andreotti. «Polemica ingiusta», ha detto il ministro degli Esteri, «condotta in modo incivile».
Sì, quando anche le pietre sanno che a buttar benzina sul fuoco delle polemiche, sono stati proprio i più fidi collaboratori di Andreotti.
Meraviglia? Dio ce ne guardi! Andreotti ci ha abituati a tutto. Siamo ormai assuefatti. Dal giorno almeno in cui incontrò imperturbabile, Michele Sindona latitante fra l'altro accusato di assassinio in America, nella veste di Presidente del Consiglio.
Come può meravigliarci un personaggio di tal fatta?
Grande, grandissimo, senza alcun dubbio. Soprattutto, in queste cose.

 

Giuseppe (Beppe) Niccolai

Inviato da Andrea Biscàro - http://www.ricercando.info