dal "Secolo d’Italia"
17 dicembre 1988
Certe dinastie qualche
memoria
SI fa un gran parlare degli arricchimenti dei politici. Gli si fanno i conti in
tasca. E non tornano.
Sull'argomento c'è anche polemica fra i quotidiani e "la Stampa" (leggi Agnelli)
attacca, il "Corriere della Sera" (sempre Agnelli) smorza, "la Repubblica"
(leggi De Benedetti) difende (De Mita).
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E tutto un gioco sottile, impercettibile, fatto di sottintesi, del
neocapitalismo italiano che, da Agnelli a De Benedetti, muove le proprie pedine,
fa le proprie scelte, o perlomeno le predispone.
Il militante e il simpatizzante missino devono prestare la massima attenzione a
questi «giochi», che sembrano buttati lì, cosi tanto per fare, ma che invece non
sono dispettucci, ma cose serie. In questa democrazia senza popolo, sono proprio
queste vicende degradanti che vengono a designare gli scenari politici di
domani. Dunque attenzione, tanta attenzione.
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È, per spiegarci ancora meglio, come ai tempi di Fanfani, Moro e Andreotti.
Quando, fra di loro, per ragioni di potere, gli accordi saltavano, l'Italia
tremava. Non per nulla in Italia si registrano sette stragi misteriose e
impunite. La prima è quella di Portella delle Ginestre del primo maggio del
1947.
* * *
Ora, nell'occhio del ciclone, c'è l'intera famiglia del Presidente del Consiglio
(che si ostina a conservare due cariche) e che, secondo ambienti parlamentari,
si sarebbe «arricchita» con i fondi destinati al terremoto, e finiti nella Banca
Popolare dell'Irpinia, di cui De Mita, con moglie, figlie e parenti vari, è
azionista.
* * *
«Nell'elenco dei soci della Banca Popolare dell'Irpinia», scrive "la Stampa"
(5.XII.88) compaiono lo stesso Ciriaco De Mita con la moglie Annamaria Scarinzi
e i figli Floriana, Simona e Giuseppe; Giuseppe Gargani e Nicola Mancino
(autorevoli politici di vertice della DC) con le rispettive consorti; l'ex
ministro Salverino De Vito, il senatore Ortensio Zecchino e l'on. Gerardo
Bianco».
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"la Stampa" non si ferma qui. Continua. Ascoltiamola:
«Zeppo di cognomi che contano anche l'elenco degli altri 400 dipendenti. Tra i
funzionari compaiono Alfonso Scarinzi, nipote della moglie del Presidente del
Consiglio; i figli del Presidente del Tribunale Giovanni Iannuzzi; del
Procuratore Capo di Sant'Angelo dei Lombardi Angelo Raino; del Questore di
Napoli (già ad Avellino) Antonio Barrel».
* * *
Fin qui "la Stampa". Tutta gente preparata, afferma il Presidente della Banca
Ernesto Valentino, un ex-comunista passato alla DC, generosissimo (con i
quattrini dei risparmiatori) nell'elargire contributi alle varie Feste
dell'Unità.
Sì, indubbiamente, saranno preparatissimi, ma se si riflette solo un istante
che, dentro la Banca Popolare dell'Irpinia, ci sono anche i rappresentanti della
Banca d'Italia (la sorvegliante), bisogna ammettere che l'intreccio è perfetto.
Si va dal Tribunale, alla Questura alla Banca d'Italia. In queste condizioni chi
potrà mai dire qualcosa? Chi potrà chiedere giustizia nei conti? Chi potrà
chiedere anche il pur minimo dei chiarimenti al riguardo? Il cerchio è chiuso.
Ed è controllato. La Banca Popolare dell'Irpinia, in questa democrazia senza
popolo, è in una botte di ferro.
C'è da scommettere che anche i comunisti taceranno. E chi si è visto si è visto,
come dicono in Toscana.
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Ricordate Trilussa:
«Fanno l'ira di Dio! Ma appena Mamma (DC) / ce dice che so' cotti li spaghetti /
semo tutti d'accordo ner programma».
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Intanto a Milano l'accordo è perfetto. DC e PSI, in nome di cognati (che
diventano Sindaci) e fratelli (che diventano Presidenti della Regione Lombarda),
marciano uniti. E guai a chi dissente. Infatti Paolo Pillitteri, sindaco di
Milano, è cognato di Craxi. De Mita Enrico, professore alla Cattolica e
commercialista affermato, andrà a ricoprire la carica di Presidente della
Regione meneghina. Da un popolo «di Santi, Eroi e navigatori» ad un «Popolo di
zii, nipoti e cugini».
Giorgio La Malfa non è stato definito «il figlio di Dio», appunto per essere
figlio di Ugo La Malfa, figlio di tanto padre!
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Scrive Montanelli ("il Giornale", 7.XII.88): «La famiglia è sacra, ha tuonato
l'altro giorno De Mita, che del sacro deve avere un concerto piuttosto
personale. Fino a suggerire l'impressione, che per lui anche lo Stato, il
Governo, il partito e tutto il resto sono cose da gestire fra zii, nipoti e
cugini, e alla peggio da contrattare con gli zii, i nipoti e i cugini di qualche
altra famiglia».
Affermano (gli intenditori) che tutto questo accade perché Andreotti (ma guarda
chi si rivede!) vuole far fuori De Mita dalla Segreteria del partito. Siamo alle
solite. Quando nella DC si arriva ai ferri corti, per il Paese sono dolori. In
tutti i sensi. O mettono la mano nelle tasche, o, ahimè, scoppiano petardi. E
che petardi! Non scherzo, badate. È sufficiente controllare. E meditare.
* * *
Andreotti. Abbiamo assistito all'appassionata arringa che il Senatore Claudio
Vitalone ha pronunciato in Commissione Antimafia «perché le famose schede»
rimanessero segrete.
Abbiamo un tantino riflettuto. E ci siamo ricordati cosa scriveva E. Scalfari
("la Repubblica", 21 aprile 1974), quando Claudio Vitalone non sedeva ancora sui
banchi di Palazzo Madama, bensì sulla sedia di Sostituto Procuratore della
Repubblica di Roma: «Claudio Vitalone è da anni -lo sa qualunque cronista
giudiziario che eserciti a Roma la sua professione- il portavoce a Palazzo di
Giustizia del Presidente del Consiglio Andreotti: "™
«Lo è in duplice modo: informa Palazzo Chigi "per tempo" di quanto sta per
avvenire in Procura e dintorni, e porta in Procura e dintorni gli umori di
Palazzo Chigi. Insomma, Vita-Ione è un canale».
* * *
E «canale» continua ad esserlo. Ma in questo caso delle schede, non solo perché
c'era da proteggere Lima, andreottiano di ferro, ma Lui stesso, Vitalone Claudio
e famiglia. Perché, non se ne dolga il senatore, fra quelle carte sepolte, c'è
lui e tutta la sua famiglia, compreso il cugino Vito. Queste sono le ragioni,
umanissime e comprensibilissime fra l'altro, perché il Senatore si è tanto
battuto...
* * *
Trovo fra le mie carte un adesivo di propaganda. È di cinque anni fa. Dice
semplicemente: 1883-1983: Mussolini non rubava.
* * *
Un'aria più fresca. Scrive il "Corriere della Sera": «El Alamein (Egitto). Alla
presenza delle poche decine di reduci in grado di affrontare il viaggio è stata
rievocata la battaglia di El Alamein, che 46 anni fa segnò la fine
dell'offensiva italo-tedesca in Africa».
Non un rigo di più.
* * *
Lelio Logorio, ministro della Difesa, il 20 aprile del 1980, davanti ai
Reggimenti della Folgore schierati, nella mia Pisa, disse qualcosa di più:
«Paracadutisti, voi avete il privilegio ed io vi esorto ad esserne sempre più
degni. Il vostro privilegio sta nel fatto che alle vostre mani è oggi idealmente
affidata una bandiera che fa onore al Paese e all'Esercito: è la bandiera che
nel 1942 fu tenuta alta ad El Alamein, nella più grande battaglia campale
sostenuta dall'Esercito italiano nella seconda guerra mondiale. Voi siete gli
eredi diretti di quegli uomini che 38 anni or sono, fedeli al dovere al quale
erano stati chiamati, si meritavano, nelle sabbie roventi del deserto egiziano,
l'ammirazione del mondo».
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Da non dimenticare: il 26 dicembre prossimo ricorre il quarantaduesimo anno
della fondazione del MSI. La ragione, la forza, la vittoria, tutto sembrava da
quella parte. David contro Golia. Il nostro punto di partenza, il loro punto di
arrivo.
Ci hanno aiutato tanto i ragazzi che ad El Alamein, 46 anni fa, meravigliarono
il mondo. Non dimentichiamolo!
31 dicembre 1988
La patria è di chi si batte
Montanelli ("il Giornale", 22 dicembre 88) scrive che, agli occhi della pubblica
opinione, i diritti dei palestinesi legittimano il terrorismo. Diritto che
invece sarebbe bollato come bieco se lo praticassero Ì tedeschi, i polacchi, gli
istriani, sradicati tutti dalle loro piccole patrie. Questo, continua
Montanelli, mi turba ancor più delle iniquità lasciate da una guerra. Tutte le
guerre le lasciano. Ma è ipocrisia e malafede l'archiviarle tutte, tranne una...
Il discorso fila, ma c'è un particolare che Montanelli dimentica: che i
palestinesi hanno avuto il coraggio di prendere le armi, di dare morte, e di
morire. Le patrie si conquistano e si tengono e si conservano cosi. Non stando
alla finestra, inchinandosi ai trattati dei grandi e dei prepotenti...
* * *
Craxi, nel suo ultimo pellegrinare in America Latina, si è soffermato in Cile
(12 dicembre) davanti alla tomba di Allende, ed ha notato che il nome non vi
figura, E ha commentato: «E una cosa incredibile per qualsiasi persona civile. A
chi fa paura un nome su una tomba?».
Giusto, è una cosa incivile, barbara diremo. Ma Craxi, e il suo partito, dove
erano quando, qui da noi, un risorto CLN negò, per dieci anni, cristiana
sepoltura a Benito Mussolini? A chi faceva paura quel nome?
È vero: la civiltà comincia con il rispetto dei morti...
* * *
Dai giornali: «stanno restaurando il B29 che il 6 agosto del 1945 gettò su
Hiroshima la bomba atomica, distruggendola al 98 per cento e dando morte
immediata a 71 mila persone. L'aereo sarà esibito al museo dello spazio, durante
le celebrazioni della scoperta dell'America»...
Anche le camere a gas sono state ricostruite ed esposte come monito. Il B29,
strumento di morte, viene invece esibito per celebrare, come manifestazione in
omaggio della scienza, del progresso, dell'entrata dell'umanità nell'era
nucleare. È una manifestazione un tantino macabra. Sa di superbia. La esibisce
la potentissima America e tutti tacciono...
* * *
«Quando qualcosa di losco emerge nell'area dominata da un big politico, è molto
difficile convincere l'opinione pubblica che quel politico non ne sapeva niente,
che ha le mani politicamente nette, che il marasma è cresciuto a sua insaputa.
Del resto, già oggi De Mita si trova in una situazione delicata: nulla, in
Irpinia, avviene a sua insaputa. Anzi, in Irpinia non si muove foglia che De
Mita non voglia. E la stessa cosa succederà un giorno in Calabria per il gemello
Misasi, troppo tenero con troppa gente, dai Ligato ai Ciccio Mazzetta, ai capi
delle Casse di Risparmio che vanno in malora» (Gianpaolo Pansa, "Panorama", 18
dicembre 1988).
Già: un ricordo personale. Quando Misasi, ministro della Pubblica istruzione,
venne accusato nell'ottobre 1970, di essere in Calabria amico e protettore di
mafiosi, ero deputato. Lo invitai, lui presente in aula, a chiedere una
commissione di indagine, onde tutelare la sua onorabilità dalle accuse che gli
venivano mosse. Non lo fece. Nemmeno quando a chiedere la stessa cosa fu, in
persona, il presidente della Camera, allora Sandro Pertini. Avrebbe dovuto
dimettersi, preferì rimanere ministro e tenersi quell'accusa...
Rimase amico dei mafiosi.
* * *
Oggi, d'altra parte, glielo ricorda Francesco Macrì, detto Ciccio Mazzetta,
leader della DC di Taurianova, eletto trionfalmente sindaco e subito arrestato
per fatti di mafia. «Misasi è mio amico», afferma. E chi ne dubita? Lo sapevamo
almeno da diciotto anni. Dall'ottobre 1970.
* * *
"Avvenire" (23/11/88) giornale cattolico, a firma Cesare Cavalieri, sotto il
titolo: «E il presidente Jotti cade sullo spinello», scrive: «L'on. Nilde lotti
è un ottimo presidente, merita l'universale rispetto che le viene tributato. Ma
l'on. lotti ha un passato, e il suo comportamento privato, molto prima che
divenisse presidente della Camera, non è, a parere mio esemplare, cioè tale da
essere proposto a tutte le donne italiane. Ed il mio modo di vedere era
condiviso almeno dall'on. Rita Montagnana, che fu legittima consorte dell'on.
Togliatti. Non è questione di rivangare, ma è che la moralità chiede anche una
continuità temporale».
* * *
E accaduto il finimondo. Sono insorti tutti. In testa, i più furiosi, i
democristiani.
In piccolo è una vicenda che è capitata anche a me. Scrivendo sul "Secolo", una
nota riguardante la vita della consorte dell'allora presidente della Repubblica
Sandro Pertini, nella sua veste di funzionaria della Cassa del Mezzogiorno, mi
vidi arrivare una lettera, a firma del segretario generale della Presidenza
della Repubblica Antonio Maccanico, con la quale mi si esternava il dispiaciuto
stupore del Presidente per le rivelazioni sul conto di sua moglie; che il
Presidente era disposto a darmi tutte le delucidazioni al riguardo, appena mi
fossi recato al Quirinale...
Preferii rispondere per lettera. E mi ricordo di essermi fatto forte di un
argomento polemico: che tutti questi riguardi, per le donne illustri di questa
Repubblica, ci si era ben guardati dall'applicarli verso un'altra Donna caduta
in disgrazia, perché fucilata e appesa ai ganci di piazzale Loreto, insieme a
Mussolini: Claretta Petacci.
Per lei, tutto in piazza. Brutalmente. Non una parola di comprensione, nemmeno
di umana pietà. Sulla sua morte: ironia, sarcasmo, ferocia. Claretta Petacci
risultava perdente e per lei solidarietà non esistevano. Nemmeno a quarant'anni
dalla sua morte. Anzi era giusto che fosse stata massacrata dal mitra
partigiano.
* * *
Oggi, in tempi che sembrano più leggiadri e non sono stati mai tanto feroci, a
difesa della vita privata delle varie lotti insorgono tutti. È un coro sdegnato.
Generale. Quale morale? Tiratela voi, cari lettori...
* * *
Ciriaco De Mita è stato difeso, in relazione allo scandalo dell'Irpinia, da
Giulio Andreotti. «Polemica ingiusta», ha detto il ministro degli Esteri,
«condotta in modo incivile».
Sì, quando anche le pietre sanno che a buttar benzina sul fuoco delle polemiche,
sono stati proprio i più fidi collaboratori di Andreotti.
Meraviglia? Dio ce ne guardi! Andreotti ci ha abituati a tutto. Siamo ormai
assuefatti. Dal giorno almeno in cui incontrò imperturbabile, Michele Sindona
latitante fra l'altro accusato di assassinio in America, nella veste di
Presidente del Consiglio.
Come può meravigliarci un personaggio di tal fatta?
Grande, grandissimo, senza alcun dubbio. Soprattutto, in queste cose.
Giuseppe (Beppe) Niccolai |