DUELLO AL SOLE

Anno 1989

7 gennaio 1989

11 gennaio 1989 18 gennaio 1989
25 febbraio 1989 4 marzo 1989 11 marzo 1989
18 marzo 1989 25 marzo 1989 1 aprile 1989
8 aprile 1989 15 aprile 1989 22 aprile 1989
6 maggio 1989 13 maggio 1989 20 maggio 1989
27 maggio 1989 3 giugno 1989 10 giugno 1989
17 giugno 1989 24 giugno 1989 1 luglio 1989
8 luglio 1989 15 luglio 1989 22 luglio 1989
29 luglio 1989 5 agosto 1989 12 agosto 1989
13 agosto 1989 19 agosto 1989 26 agosto 1989
31 agosto 1989 2 settembre 1989  

 

dal "Secolo d’Italia"

 

7 gennaio 1989

Moralizzatori a perdere


L'articolo 3 della legge 15-2-1953 n. 60 sulle incompatibilità parlamentari, recita: «I membri del Parlamento non possono ricoprire cariche, né esercitare le funzioni di amministratore, presidente, liquidatore, sindaco o revisore, direttore generale o centrale, consulente legale o amministrativo in Istituti bancari o in società per azioni che abbiano, come scopo prevalente, l'esercizio di attività finanziarie. I membri del Parlamento per i quali esista o si determini qualcuna delle incompatibilità previste debbono, nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione della presente legge sulla Gazzetta Ufficiale, optare fra le cariche che ricoprono e il mandato parlamentare».
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Ora è a tutti noto che il sen. Bruno Visentini, essendo presidente della Finanziaria CIR, la holding del gruppo De Benedetti (centomila dipendenti, 13 mila miliardi di fatturato), avrebbe da un pezzo dovuto lasciare la carica di senatore. Invece, a dispetto della legge, rimane di qui e di là. In più il cittadino italiano è costretto, un giorno sì e uno no ad ascoltare i discorsi moralizzanti di questo repubblicano di ferro, tributarista celebre, carico di quattrini, fra l'altro ministro famoso per avere imposto i registratori di cassa, di cui è produttore ad Ivrea il suo padrone. Ora, con l'aiuto di Giovanni Spadolini, presidente del Senato e come lui repubblicano, e grazie alle manovre della Commissione della Giunta delle elezioni, il senatore, continua, imperterrito, a ricoprire le due poltrone.
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Abbiamo scritto manovre della Commissione delle elezioni. Perché? Perché la Commissione, anziché fare il suo dovere intimando al senatore di andarsene, scrive lettere e domanda (udite! udite!) all'interessato se ha rinunciato, o no, agli incarichi esterni; bello no! Scrivono e perdono tempo. In questo modo passa anche una legislatura, e chi si è visto si è visto...
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O non fece altrettanto Giorgio La Malfa, segretario nazionale del PRI? Anche lui violò, per anni, la legge. Quando fu eletto (il 7 maggio 1972) era direttore della società per azioni RES, ricerche e studi della Mediobanca. Fra lettere e controlettere tenne il posto fino al luglio 1974, per poi assumere (impareggiabili questi repubblicani che vanno da La Malfa a Gunnella!) la carica di presidente del Comitato tecnico-scientifico della stessa società RES, carica che tenne fino al luglio '75 perché solo allora la Giunta delle elezioni si decise a dichiararlo incompatibile. Sono giochetti che nelle... severe aule di Palazzo Madama e di Montecitorio allietano le giornate (intense, ma chi ci crede?) dei nostri parlamentari.
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L'altro grande, e non perché se ne andò dopo essere stato Governatore della Banca d'Italia e presidente della Confindustria nel comune di Monte Argentario, del quale era sindaco Susanna Agnelli, a tenere il dicastero delle Finanze (fra l'altro, il comitato di controllo gli bocciò il bilancio per irregolarità), che deve ormai da anni, scegliere, è il Guido Carli, notoriamente uomo della lobby Fiat. In barba alla legge continua a farsi legislature dalle quali avrebbe dovuto essere espulso come incompatibile. O non presterà, per caso lui rappresentante della più grande lobby nazionale, i suoi consigli per una legge antimonopolio? Anche questo ci è dato vedere! Il tutto sotto la grande ala protettrice di un altro grande moralizzatore: Giovanni Spadolini, presidente del Senato.
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Mi è capitato di citare Susanna Agnelli come sindaco del comune di Monte Argentario, uno dei più belli dal punto di vista paesaggistico del Grossetano. Fra repubblicani si intendono. Infatti, la sindachessa venne informata che, fra le ville abusive del comune da lei amministrato, c'era anche quella del dott. Andrea Manzella, attuale segretario generale della presidenza del Consiglio. Che fare? Andrea è repubblicano. Come fargli l'affronto di inviargli i vigili urbani per contestargli il reato? La sindachessa aggirò l'ostacolo: si rivolse ai carabinieri e l'Arma pensò alla bisogna. Il condono è stato pagato?
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Però, come è dura la vita di questi repubblicani di vertice, cosi compassati, cosi assidui difensori del denaro pubblico, così austeri personaggi dello Stato di diritto! E i loro rapporti con la DC sono così stretti che imprestano i propri uomini allo scudo crociato, anche se puzzano di loggia massonica lontano un miglio!
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Guido Carli ne è un esempio. Quando gli fu offerta, da parte della DC, la candidatura senatoriale, telefonò ad Agnelli e a Ugo La Malfa per avere il permesso: posso andare? posso accettare? E Guido Carli, l'uomo della Fiat e della Banca, si è fatto democristiano.
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Ormai la scelta dei partiti avviene con gli stessi criteri con i quali si sceglie un ristorante. Il Partito Repubblicano Italiano? Troppo piccolo, si sta stretti. Meglio andare con la DC. Lì ci si mangia meglio.
Poi c'è qualcuno che, stigmatizzando l'assenza dei deputati dall'aula ce li vorrebbe mandare a calci nel sedere, e con punizioni terribili! Si richiede una presenza faticosa e inutile, non tanto da teste pensanti ma dal numero necessario a sostenere magari sottobanco o far cadere le maggioranze.
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I partiti sono questi. Non ci crede più nessuno. Si scelgono per convenienza e ci si sta per curare la propria trippa. E, in nome della trippa, si delegano i pochi a decidere per tutti. Per il resto mi prendo le indennità, doppie pensioni (quella regionale e quella parlamentare), per riscuoterle più presto mi faccio riconoscere inabile al cento per cento, viaggio per il mondo a spese del contribuente. Il tutto alla condizione che non pensi, che non mi venga fatto di alzare il dito e di obiettare. L'unica cosa a cui sono tassativamente tenuto è di schiacciare il bottone della votazione, così come stabilito altrove e dalle teste che contano. Il verbale riporterà: presente, e tutto è a posto! Più schiacci bottoni è più sua maestà il partito ti sarà riconoscente. Anche se sei un cretino!
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Si sono, da più parti, onorati i 90 anni di Randolfo Pacciardi. Nessuno si è ricordato del 1961. Quando la sorte del centrosinistra era legata al congresso repubblicano di Ravenna. Erano in lizza due mozioni, quella di Ugo La Malfa favorevole all'apertura ai socialisti, quella di Pacciardi contraria.
Nella vicenda fecero la loro comparsa i servizi segreti che con una valigia carica di milioni (milioni del 1961!) si dettero da fare per corrompere i delegati e perché votassero il documento di La Malfa.
II centrosinistra si fece. Gelli non c'era ancora. Ma i sistemi, che saranno poi da lui illustrati, signoreggiavano di già nella politica italiana, di natura tutta sudamericana.
Il popolo in questa partitocrazia non esiste. Le elezioni non sono vere elezioni. Sono acclamazioni per le oligarchie dei partiti già insediati al potere. Potere che tengono anche con i servizi segreti, spesso con le stragi. Per conto dello straniero.
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A proposito. Si chiedono sempre ai comunisti (e si fa bene) garanzie di indipendenza dallo straniero. Nessuno però le chiede al Partito Repubblicano, alla Democrazia Cristiana, al Partito Socialista Italiano, al Partito Socialista Democratico Italiano. O non è questa la fondamentale questione morale?

 

11 febbraio 1989
II tempo del Tiranno


«Si può dare per certo che il XXI Secolo, ben altrimenti progredito del nostro, guarderà ad Hitler e a Stalin come a due chierichetti». (E. M. Cioran, il Demiurgo cattivo)

Vedo che sono sommerso dalle contestazioni, anzi che mi trovo vicino al rogo, come infedele, per quello che ho scritto sulla violenza terroristica. Non è la prima volta. Il “Secolo” pazienti. Le mie posizioni (che mantengo ferme) non sono quelle del partito e, lungi da me, il volerle imporre. Quindi imputato. Ma prima che la Corte si ritiri per il giudizio definitivo alzo la mano e chiedo di fare una dichiarazione. Si tranquillizzino le anime buone: non sarò assolto!
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Mosè (la Sacra Bibbia, Deuteronomio 3, “Conquista del regno di Og”)
«Così il Signore, nostro Dio mise in nostro potere anche Og re di Bason, con tutta la sua gente; noi lo abbiamo sconfitto, senza lasciargli alcun superstite. Gli prendemmo tutte le sue città, noi le votammo allo sterminio, come avevamo fatto di Sicon, re di Chesbon: votammo allo sterminio ogni città, uomini, donne e bambini. Il bestiame e le spoglie della Città asportammo per noi come preda... Quando ti avvicinerai ad una Città e non vorrà fare la pace con te, allora l'assedierai. Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani, ne colpirai, a fil di spada, tutti i maschi, le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella Città, li prendersi come tua preda... Nelle Città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti da in eredità non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio …»
* * *
Basta ricordare l'origine degli Stati per avvedersi che la violenza e lo spargimento dì sangue sono all'inizio di essi. La Francia moderna nasce in mezzo a stragi, la Russia sovietica si consolida con la cancellazione della vita di milioni di ignoti contadini, non tutti certo colpevoli. Perfino l'India, nata dal verbo umanitario della non resistenza di Gandhi, ha tanti morti che nessuno è riuscito mai a contarli.
C’è, nella storia, l’apologia dell’assassinio liberatore. Certi padri Gesuiti spagnoli del sedicesimo secolo ammisero il diritto al regicidio…
* * *
Sono note che mi permetto di sottoporre all’attenzione di quei «moralisti» politici che, confondendo la morale con la politica, si mettono, per dirla con Benedetto Croce prima maniera «a pronunciare giudizi morali degli Stati e dei Popoli,attribuendo diritti a chi non se li sa conquistare o non li sa difendere, e limiti e doveri a chi, tendendo la propria mente e spargendo il proprio sangue, a ragione non riconosce altro limite e dovere fuori di quelli che la propria mente e la propria forza gli consigliano e pongono».
* * *
Questi moralisti della Storia sono portati a dire che il terrorista di oggi (anzi criminale) è diverso da quello dell'Ottocento perché, mentre il secondo puntava a colpire solo il Tiranno, questo di oggi spara nel mucchio, uccidendo innocenti. È vero, ed è doloroso. E nessuno più della nostra Comunità può esserne buon testimone. Comunità ingiustamente messa sotto accusa (e che accusa!) per «bombe assassine», sistemate fra innocenti con una «tecnica sudamericana», di cui i Servizi interni ed esterni, addetti a stabilizzare maggioranze e a tenere in piedi equilibri internazionali, hanno licenza di utilizzare, cioè licenza di uccidere.
* * *
Questi sono i tempi. E in questi tempi, in cui cadono vittime innocenti da una parte e dall'altra, c'è il povero paralitico della “Achille Lauro”, barbaramente assassinato, ma ci sono anche i bambini dei Campi di Sabra e Chatila, con i quali si è fatto, come fossero piccioni, il tiro al bersaglio.
* * *
Tempi postmoderni, ma mai tanto feroci, anche se non nuovi, Mosè insegna. Ma possono le categorie della criminalità interpretare fedelmente questi tragici fatti? Non credo, infatti, che le incursioni aeree, compiute a scopo di intimidazione e di ritorsione, colpiscano, nella loro furia devastatrice, solo i tiranni e i cattivi. Colpiscono nel mucchio. O dovremmo credere che questo sistema di morte, perchè eseguito dai più sofisticati aerei da combattimento, escluda che si tratti di terrorismo? Ma, allora, direte, la differenza in che cosa consiste?
* * *
È che l'umile sottoscritto si limita a prendere atto che questo è il mondo (fin dai tempi di Mosè), e che, ahimè, solo i popoli che sono capaci dì fronteggiare questi tempi, restano in piedi. Gli altri spariscono, o tutt'al più si dedicano al lamento. Piagnoni e dispersi.
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La tragedia di Ustica, dell'Argo 16, delle stragi impunite, del Mediterraneo «mare loro», invaso da Flotte e aerei di tutte le nazionalità, ci dicono e ci raccontano abbastanza vivacemente, che siamo esposti a pericoli di immensa gravità, di portata apocalittica.
Perché? Perché non siamo indipendenti. Perché abbiamo delegato gli altri a scrivere la storia anche per noi. E ce la scrivono addosso. Perfino un colonnello come Gheddafi!
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È stato scritto «il dramma è che dietro la struttura politica statale non c’è più un sentimento di appartenenza. L'Italia è un territorio in cui abitano 56 milioni dì uomini uniti dal caso, senza storia, senza radici e quindi senza immaginazioni e senza speranze per il futuro, rassegnati a essere sballottati dai costruttori di storia, dagli americani, dai tedeschi, dai russi, dal persiani, dai sauditi, dai libici; dateci pace e petrolio perché possiamo continuare a vivere dimenticando di essere vivi»
Questo è il nostro dramma: sballottati dai costruttori di storia!

 

18 febbraio 1989
Dalla Repubblica al Laterano


Febbraio 1849: a Roma viene dichiarato decaduto il potere temporale dei Papi e proclamata la Repubblica romana, retta da un triumvirato: Mazzini, Saffi e Armellini. Finirà nel luglio, soffocata, nel sangue, dalle truppe francesi.
1849-1989: ricorrono, in questi giorni, i 140 anni della Repubblica romana, come i 60 anni dei Patti del Laterano.
* * *
Qualcuno, anche in casa nostra, ha storto naso e bocca a sentire parlare di un Mazzini «fascista». E bene che si ricompongano, nel naso e nella bocca. Giuseppe Mazzini, già con il primo discorso di Mussolini da Radio Monaco, agli Italiani il 18 settembre 1943, diviene il Padre putativo della RSI. Il suo volto, e non quello di Mussolini, apparirà, sull'unica serie di francobolli per posta ordinaria emessa da parte della RSI; molte delle cartoline postali delle Forze Armate della RSI verranno stampate con motti mazziniani. Non solo: il ritratto di Mazzini sostituisce quello di Vittorio Emanuele III nelle Scuole e negli uffici pubblici, e l'Istituto di Studi sul Risorgimento prenderà il nome di Istituto di Studi mazziniani e sul Risorgimento.
* * *
Scrive Montanelli che «fra la Patria di Mussolini e quella di Mazzini correva un abisso. Mussolini la voleva aggressiva e marziale, cioè peccaminosa; Mazzini la voleva monacalmente virtuosa e casta».
A parte il fatto che nel contesto storico in cui Mussolini visse e operò, tutte le Patrie, a cominciare da quelle democratiche, furono aggressive, marziali, ed io aggiungo sopraffattrici, e quindi peccaminose, resta il fatto che ricorrono queste parole dell'Apostolo genovese che, sulla questione, fanno chiarezza netta: «Amo la libertà, la amo forse più di me stesso, ma la Patria io l'amo più della libertà».
* * *
Se qualcuno rimanesse non del tutto persuaso di ciò che si è affermato, c'è il discorso che Mussolini tenne al Lirico di Milano la mattina del 16 dicembre 1944. C'è un passo, in tema dei diritti civili del cittadino, in cui Mussolini così si esprime: «Fu detto nel Manifesto di Verona che nessun cittadino può essere trattenuto oltre i sette giorni senza un ordine dell'autorità giudiziaria. Ciò non è sempre accaduto... Debbo dichiarare, nel modo più esplicito, che taluni metodi mi ripugnano profondamente. Lo Stato, in quanto tale, non può adottare metodi che lo degradano... Mazzini, l'inflessibile apostolo dell'idea repubblicana, mandò agli albori della Repubblica Romana del 1849 un Commissario ad Ancona per insegnare ai Giacobini che era lecito combattere i papalini ma non ucciderli extra legge, o prelevare, come si direbbe oggi, le argenterie dalle loro case. Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la tessera del partito, merita doppia condanna ...».
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A quali riflessioni può condurci, oggi, il ricordo della Repubblica Romana del 1849?
Assurdo sarebbe rifarsi, rispolverandolo, ad un vecchio anticlericalismo di maniera. Non servirebbe. La riflessione se mai è quella di chiederci se quei tempi antichi possano aiutarci a capire quelli moderni, se possono rispondere alla domanda, tanto per fare un esempio, per quali misteriose vie, la storia abbia costruito l'attuale potere DC, potere -ecco il punto- che sarebbe improprio andarlo a trovare solo prima del periodo fascista.
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L'attuale potere DC -non dispiaccia l'affermazione- nasce dentro Io Stato fascista, quando la Chiesa, con Pio XI, si definisce come un principio di civiltà, portatrice quindi di una ideologia politica che prende cura di tutto lo spazio del cristiano, da quello religioso a quello civile. Diventa totalità, si definisce essa stessa soggetto dinanzi alle altre totalità. Basta pensare all'azione cattolica che dissimula la propria autonomia nelle posizioni antiliberali, anticapitalistiche, anticomuniste del Regime fascista. Il linguaggio con cui la Chiesa e il Fascismo si definiscono, negli anni '30, come soggetti totali è simile, quindi alternativo.
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La base storica dell'egemonia DC in Italia, non è negli «antifascisti» Murri e Sturzo, ma è nei Patti Lateranensi che hanno reso possibile la connessione tra Chiesa e Istituzioni statali, fra Istituzioni statali e la DC. Compenetrazione delle Istituzioni che si è configurata, fin dagli anni '30, appunto con i Patti del Laterano.
Quando tutto crolla, con la sconfitta, il corpo istituzionale dello Stato (burocrazia, esercito, ceto medio) ricorre, come ad un salvagente, alla struttura concordataria, trasferendo tutta la sua influenza sulla forza politica che è espressione dell'istituzione ecclesiastica, la DC appunto.
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La DC ingloba tutto: l'apparato statale (il partito del re), lo Stato concordatario, con il lasciapassare USA di rappresentare, in Italia, il trasbordo dello stesso Stato italiano nel sistema imperiale americano (la via americana).
Da qui il carattere dello Stato italiano: una democrazia che può essere considerata legittima solo se gestita dalla DC. Da qui le condizioni limitative della Democrazia italiana: si è cittadini di pieno diritto solo se si collabora con la DC, altrimenti c'è la discriminazione, la demonizzazione. L'Italia, un Paese non libero ma protetto, a sovranità limitata, con una Democrazia dalle condizioni limitanti di fatto l'esercizio del diritto di voto degli italiani.
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L'essere il partito delle istituzioni ha fatto della DC un partito «più». Le ha garantito sempre la direzione dello Stato, le ha garantito l'immedesimazione di se stessa con le istituzioni. Con tutte le conseguenze del caso, non ultima quella che il terrorismo non è, in fondo, che la reazione al fatto che, con l'attuale sistema, essendo l'alternanza al potere resa impossibile, è l'arbitrio che comanda. Anche quando il potere gestisce criminalmente la cosa pubblica, nulla muta. La DC resta.
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La crisi della società è questa, e si chiama DC. Siamo partiti dalla Repubblica Romana per finire (siamo di febbraio) al sistema concordatario che è alla base, insieme ad altri fattori che sfuggono ora all'analisi, del potere DC. C'è materia per discutere. Anche nelle nostre fila. E sia ringraziato il 140° anniversario della Repubblica Romana se ciò lo renderà possibile. Fuori da tutte le declamazioni, apologie e demonizzazioni.
I Patti del Laterano se, per il Fascismo possono rappresentare aspetti contraddittori, per l'antifascismo, l'averli accettati e fatti suoi, rappresentano, ancora una volta, che il 1945 non fu una rivoluzione ma la più piatta e grigia delle restaurazioni. Da parte dell'antifascismo, si intende.

 

25 febbraio 1989
Teoremi «stabilizzanti»


Vive nell'anno di grazia 1989, alle soglie del 2000, in quel di Firenze, un Magistrato, di nome Pier Luigi Vigna, che le cronache descrivono illuminato, anche se, spesso, carico di protagonismo esasperato.
Nella sua requisitoria, durata più di 20 ore per la strage sul Rapido 904, fra le altre cose, ha riletto la nostra storia, quella quarantennale della Repubblica italiana, parlandoci di una Stato italiano (dove risiede, per cortesia?) e di una perversa alleanza che si sarebbe stabilita fra mafia, camorra e eversione nera, per abbatterlo nelle sue Istituzioni libere e democratiche...
* * *
L'avvocato Guido Calvi, per la parte civile: «È stata una requisitoria di altissimo valore per l'analisi dei fatti e per la riflessione di rara intelligenza, su mafia e eversione». «La strage del Rapido 904 è stata il delitto di mafia più freddo e calcolato che sia stato compiuto dopo Portella delle Ginestre», hanno incalzato altri due difensori di parte civile, gli avvocati Nino
Filaste» e Danilo Ammarinato.
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Dunque, dopo tanto indagare, dopo tanti misteri, la formula è stata trovata: la camorra, la mafia e l'eversione nera si sarebbero alleate, al punto che, per distogliere l'attenzione da sé, (in territori che Io Stato non controlla più, tanto che si deve infiltrare lui nella mafia se vuole sapere qualcosa (vedi il pentitismo), si sarebbero messe tutte insieme a piazzare bombe su quel tratto di ferrovia che, qualunque cosa ivi accada, per precedenti ormai codificati dall'antifascismo militante giudiziario, si deve ritenere di provenienza «nera», anzi «nerissima».
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La sprovvedutezza di questi eversori neri deve essere dal nostro illuminato Pier Luigi Vigna davvero apprezzata se, arrovellandosi lui per anni sui propri teoremi, gli viene fornita, su un piatto d'argento, la tanto sospirata soluzione! Ma il nostro estimatissimo Magistrato non ha mai pensato, se del caso, scegliendo i maligni proprio quel tronco di ferrovia già targato, la camorra e la mafia, ammesso che siano loro che abbiano operato il crimine, abbiano operato il crimine, abbiano voluto, deliberatamente, additare nel «nero» il diversivo, per distrarre da se ogni sospetto?
Non si disse subito, appena il crimine venne commesso, che erano stati i neri? Ve lo ricordate?
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L'attacco allo Stato democratico. Ma quale bisogno di attaccare se lo Stato repubblicano è nato, dalle doglie «liberatorie», mafioso (a riportare i mafiosi in sella, dopo lo sbarco alleato in Sicilia non furono certo i fascisti!), tanto che lo Stato in quanto tale non esiste più, almeno in Sicilia, Calabria e Campania. A scriverlo, a gridarlo dai tetti non siamo noi, ma tutta la stampa, tutta l'informazione democratica!
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Certe cose per affermarle bisogna provarle. Certo. E allora si prendano i libri. Quelli ufficiali, democratici, antifascisti. Dato che si è voluto raccordare la strage del Rapido 904 alla strage di Portella delle Ginestre (la prima in Italia), quella eseguita dal bandito Giuliano in Sicilia (per conto di chi? Mistero non risolto), leggiamo cosa scrive la Relazione conclusiva di maggioranza (DC - PSI - PRI - PSDI), consegnata alla Camera il 4 febbraio 1976:
«Si tratta purtroppo di una verità amara, che è resa ancora più amara dalla falsità della versione iniziale circa la morte del bandito. Fu d'altra parte proprio la certezza, ben presto acquisita dalle popolazioni locali, che era stata in definitiva la mafia a liberare l'Isola dal terribile flagello del banditismo a costituire l'ultimo dei fattori che contribuirono nel dopoguerra a ristabilire l'oppressione del potere mafioso sulle contrade della Sicilia» (Relazione di maggioranza, pagina 132).
* * *
Dunque la mafia, incaricata dallo Stato Repubblicano di far fuori Giuliano, viene «costituzionalizzata», con l'aggiunta dell'articolo 16 del Trattato di Pace che impone all'Italia di non perseguire penalmente i boss di Cosa Nostra che, su richiesta del Governo USA, hanno collaborato alle operazioni militari dello sbarco alleato in Sicilia nel 1943.
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È la mafia che coopera a «liberare» l'Italia dal fascismo, guadagnandosi così il diritto di essere considerata, con lo Statuto regionale del 1946, forza costituzionale dello Stato, al punto che quando il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vuole mettere le manette alla mafia, è lo stesso Stato repubblicano che Io lascia «solo» perché venga assassinato come elemento perturbatore dell'egemonia costituzionale mafiosa instaurata ufficialmente in Italia con la sconfitta.
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Pier Luigi Vigna, Magistrato insigne, dalle letture facili e dalle requisitorie altrettanto scintillanti, ci deve far sapere, visto che ha scoperto l'alleanza «mafia - camorra - eversione nera», come giudichi l'altra alleanza, quella stretta fra lo Stato Repubblicano, uscito dalla Resistenza, con la camorra di Raffaele Cutolo e con le BR di Senzani, ai quali, per ottenere la liberazione del DC Cirillo, si sborsano due miliardi e passa (soldi destinati ai terremotati dell'Irpinia?) che, fra l'altro, serviranno ad assassinare altre persone, il tutto sotto l'auspicio del Ministro dell'Interno, on. Gava? Quale soluzione al teorema che vede la DC finanziare, al contempo, camorra e terrorismo?
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No, eccellentissimo Giudice, i conti non tornano e nemmeno i teoremi. Mafia e camorra sono dentro Io Stato, non fuori. Che bisogno hanno, la camorra e la mafia, di assaltare uno Stato che si è fatto «loro», in tutti i modi di vita, che è congeniale al sistema criminale che, da Bolzano a Palermo, ci delizia?
Ho bisogno forse, per citare un caso fra i mille, ricordare che i partiti dell'Italia repubblicana, per rubare più liberamente, elessero a Capo della Guardia della Finanza, delegata a combattere i ladri, un Generale che, al contempo, era Capo dei contrabbandieri?
Il Giudice Vigna farà bene a ricordare, imparandosele a memoria, le parole che l'allora Direttore del "Corriere della Sera" Alberto Cavallari, scrisse in memoria di Alberto Dalla Chiesa, assassinato ai Palermo dalla mafia e da uno Stato impotente e complice:
«La mafia non è più un fenomeno regionale. Dalla Chiesa muore perché spedito al fronte senza tenere conto che dietro le sue spalle la mafia ha invaso le retrovie, gli stati maggiori, l'Intendenza, il territorio nazionale. Che può fare Dalla Chiesa se Milano è mafiosa come Palermo, se Torino ha più cosche di Agrigento, se Roma è una grande Bagheria, e se tutto si lega alla mafia di New York, attraverso una rete fitta di ricatti, rapimenti, finanziamenti, associazioni per delinquere, commerci internazionali di droga, sistemi finanziari alla Calvi, basati sulla malavita? La mafia è stata nazionalizzata, ha invaso come cancro l'intero corpo della nazione e così amministra, uccide, finanzia, ricicla, decide, giudica, scrive, lottizza e governa».
* * *
Pier Luigi Vigna si compiace definirsi «uomo di sinistra». Il giornalista Parlato, scrittore di punta del quotidiano più intelligente della sinistra "il manifesto", scrive: «Questo Stato ha una potenzialità di violenza superiore a quella di quattordici mafie messe insieme». È d'accordo?
Del resto non è l'umile sottoscritto a scrivere che le bombe sui treni ce le ha messe lo Stato, questo Stato. Per stabilizzare maggioranze, equilibri internazionali. Secondo la logica, mai ripetuta abbastanza, che è meglio essere governati da dei ladri che da degli assassini. E gli assassini si costruiscono, appositamente. Con i teoremi.

 

4 marzo 1989
Eroi di cartone e mafiosi DOC


Il "Corriere della Sera", occupandosi del Congresso DC, titola «Baci a Cariglia, eroe della Resistenza». E ci spiega che quando Ciriaco De Mita stringe le mani di ospiti e di invitati, la generosità DC si spreca: gli applausi piovono abbondanti su amici e nemici. L'applauso più lungo, più sincero e più appassionato se Io aggiudica Cariglia, eroe della Resistenza...
* * *
Ora una sentenza del Tribunale di Rieti del 21 aprile 1949, numero 1245 -terra, quella di Rieti e dintorni, nella quale il Cariglia operò come partigiano monarchico- ci fa sapere che, fra le azioni eroiche dell'attuale Segretario nazionale del PSDI, c'è anche la «cattura» di 30 pecore, di 10 kg di grassi, di 15 kg di legumi, di 50 litri di vino e di 50 kg di farina, in danno di certo Balduzzi Angelo. Non solo, ma il 12 giugno 1944, in una... rischiosissima azione, alcuni partigiani, per ordine dello stesso Cariglia, si introducono nella abitazione di certo Calderini Carlo, asportando circa tre quintali di lenticchie. Non basta, in altro giorno del giugno suddetto, altri partigiani, sempre su ordine del Cariglia, penetrati nella casa del dott. Iacobelli Antonio, asportano dalla stessa (la sentenza non dice se rischiando la vita) 65 kg di farina, mandorle e grano. Il tutto, arrestando arbitrariamente i poveri proprietari delle masserizie prelevate; tanto che il Comandante dei partigiani della zona, capitano Barco Luigi, informato dell'accaduto e dell'arbitrario procedere del Cariglia, destituisce l'eroe (dell'EUR-DC), ristabilendo, afferma la sentenza, l'ordine e la tranquillità nella popolazione.
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A seguito dei rapporti dei Carabinieri sui fatti suddetti, il Cariglia (l'eroe dell'EUR-DC) viene rinviato a giudizio per i reati di estorsione, furto aggravato, sequestro di persona, ma il tutto si risolve in una assoluzione, in quanto il Tribunale asserisce che i fatti, al Cariglia-eroe addebitati, possono tutti essere fatti rientrare in veri e propri fatti di guerra, e quindi non punibili.
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Non sappiamo se il Cariglia si porti, nel portafoglio, la su riferita sentenza, o se, per caso, l'abbia incorniciata. Se non lo ha fatto deve provvedere. Immediatamente. L'applauso dirompente ricevuto all'EUR, quale eroe della Resistenza, lo esige.
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Nella rubrica "Terra di tutti" ("l'Unità"), Emanuele Macaluso ci parla di Vito Ciancimino, delle sue spettacolari ricchezze accumulate, di quanto su di lui, come uomo di mafia, ha scritto la Commissione. Eppure, argomenta Macaluso, ora Ciancimino pare figlio di nessuno, quasi un orfano. No grida Macaluso, Ciancimino è un prototipo DC.
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Strano. Nella dichiarazione di voto di Cesare Terranova, fatta per conto del PCI, un magistrato integerrimo assassinato dalla mafia, al momento della consegna alle Camere delle relazioni conclusive sulla mafia, c'è una sia pur larvata difesa di Vito Ciancimino. Non è Ciancimino importante, dice Terranova, ma tutto il sistema di potere che a Ciancimino ha reso possibile le cose che ha fatto. Prendersela solo con Ciancimino non vale, non serve.
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Terranova ha ragione, da vendere. Infatti Emanuele Macaluso, da tempo, è chiamato a spiegarci come sia avvenuto il passaggio delle vecchie miniere baronali dalla mano privata a quella pubblica. Ha scritto Sciascia che nulla capiremo della mafia finché non metteremo in luce tutti gli aspetti di questa vicenda.
Perché si vollero pubblicizzare quelle vecchie miniere? Chi favorì l'operazione? Chi la rese possibile giuridicamente? Con quali giustificazioni? Quanto furono pagate?
* * *
L'evento accadde quando, in Sicilia, Emanuele Macaluso era uomo di potere, quando comandava. Lui quella storia la sa. Alla perfezione. Più volte gli è stato chiesto di raccontarla. Perché è così restivo? Di penna facile come è, non dovrebbe poi essergli difficile illuminarci su uno spaccato (e che spaccato!) di vita (mafiosa) siciliana. E proprio certo che il PCI non c'entri per nulla?
* * *
Trovo su una ingiallita pagina di "Panorama" (17.8.76), queste parole di Giorgio Galli: «Nella scorsa legislatura, un deputato del MSI (Niccolai) presentò un ordine del giorno per chiedere che non facessero più parte del Governo uomini inquisiti dall'antimafia. Non se ne fece di nulla». Fin qui Giorgio Galli. Si deve aggiungere che anche il PCI nulla fece perché quell'ordine del giorno passasse.
* * *
Sempre per restare in... Sicilia, leggo ("Panorama" 29.1.89): «Nelle cinque Regioni a statuto speciale, il trattamento dei deputati, dal punto di vista economico, è ancora più ricco. Il caso più eloquente è quello della Regione Sicilia, dove il cumulo delle indennità è addirittura principesco. Al semplice deputato regionale toccano, per cominciare, 8.856.000 lire lorde. Nel conto, poi, occorre aggiungere: diaria per le spese di soggiorno (837.000 lire al mese); gettoni di presenza (55.880 lire al giorno); rimborso spese trimestrali (200-250 mila lire al mese); spese di viaggio (6,2 milioni l'anno per il deputato, 2,5 per il coniuge, 471 mila per ogni figlio a carico, più altri 6 milioni per il deputato che ne faccia richiesta); contributo pasto (17.500 lire a pasto per un massimo di due pasti al giorno); spese postali (125 mila lire al mese); telefono (900 scatti per i deputati regionali semplici, 1.500 per quelli con qualche incarico); spese di missione (95 mila lire al giorno se in Italia, 150 mila se all'estero, più le spese di albergo e di ristorante documentate).
Non è finita. Le indennità di carica vanno da un minimo di 306 mila lire al mese per il segretario delle Commissioni, a 3,7 milioni per gli assessori, fino a 5,7 milioni per il Presidente. Le auto blu non si contano. Last but not least, l'indennità per il portaborse: altri 3 milioni al mese per ogni deputato.
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Nessuno ha rettificato queste cifre!


11 marzo 1989
Torbidi affari di «senzabandiera»


Scrive il "Corriere della Sera" (4.3.89): «Stavolta ci siamo davvero, siamo all'ultima spiaggia. Tra poche ore un Tribunale comincerà a scoprire le carte segrete del caso Cirillo, l'affare politico più torbido e inquietante nella storia dell'Italia repubblicana».
* * *
Dentro la vicenda giudiziaria lo stato maggiore della DC con Antonio Gava, Vincenzo Scotti, Flaminio Piccoli, e Francesco Patriarca. "Dentro i Servizi segreti. Dentro i capi più spietati della camorra. Dentro la colonna napoletana delle Brigate Rosse.
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Si tratta di una vicenda di strage. Si tratta di miliardi passati alle BR e alla camorra. Si tratta di un intreccio, basato su prove e non sulle confessioni dei pentiti, per cui lo Stato repubblicano, così come avvenne per il bandito Giuliano nel 1950, viene utilizzato dallo Stato-partito democristiano, per contrattare la liberazione di uno dei suoi; cosa che non si era fatta per Aldo Moro. E la trattativa, Io ripetiamo per farci intendere meglio, investe ministri, uomini politici, direttori di carceri, capi camorra, capi BR, malavita, apparati dello Stato, in testa i Servizi segreti.
* * *
Il giudice Alemi, al termine della sua inchiesta, a diversità degli inni di gloria innalzati al magistrato Pier Luigi Vigna per il suo teorema «mafia - camorra - terrorismo nero», è stato censurato dal ministro Vassalli e dal Presidente del Consiglio DC Mita, ed è in attesa di una decisione disciplinare del CSM.
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Nella turpe vicenda c'è ben altro: vale a dire che la vita di Cirillo non fu mai in pericolo. Fatto sta che dopo la sua liberazione arrivano in Campania i soldi della ricostruzione, una pioggia di miliardi che sicuramente faceva-I no gola a molti, in testa la camorra, e i partiti.
* * *
C'è ancora di più. Ho parlato di strage. Perché, a parte i morti raccattati durante il rapimento dell'assessore DC, la strage è continuata per anni, anche dopo che Cirillo era ritornato a casa. Vincenzo Casillo, il cassiere della camorra, uomo di fiducia di Cutolo, salta in aria nella sua auto, guarda un po', vicino ad una sede dei Servizi segreti. La donna di Cirillo, Giovanna Marazzo, viene assassinata. Sapeva troppo. La tecnica del «sasso in bocca» è tipica di questo Stato-partito. E le bombe sono un suo strumento.
* * *
Mi sono un po' dilungato nel descrivere i caratteri dell'intreccio criminoso perché, in questi giorni in cui i teoremi sulla mafia e il terrorismo si sprecano, vorremmo sapere dai diretti interessati, in particolare dal giudice Pier Luigi Vigna, dove collocano il caso Cirillo; caso che vede la DC, il partito dei moderati e della ricostruzione... democratica, al centro della sanguinosa vicenda.
La torbida alleanza fra apparati dello Stato, la criminalità organizzata, qui, in questo caso, è provata. Manca, come elemento portante del teorema Vigna, l'eversione di destra. C'è, al suo posto, la DC, il partito di Governo; addirittura, con parte di primo piano, il ministro dell'Interno, Antonio Gava.
* * *
Come la mettiamo, giudice Pier Luigi Vigna? Perché non scende a Napoli ad ascoltare, perché non sposa subito l'idea di Domenico Sica che chiede l'instaurazione di una Procura Generale, magari a... Firenze, per tutti i casi di terrorismo mafioso-politico, onde incriminare subito, per eversione terroristica, la DC, con il suo ministro degli Interni Gava?
* * *
Sì, ma lo Stato democratico che, sempre per il teorema di Pier Luigi Vigna, si troverebbe attaccato da mafia e terrorismo nero, dove va a finire se, proprio dal suo seno, si esprimono mafia e terrorismo?
Il male, dunque, non è fuori lo Stato repubblicano, ma è dentro questo Stato. Ha ragione Valentino Parlato che, dalle colonne de "il manifesto", scrive che «la prima Repubblica è metastatica, non c'è più, che la mafia non surroga più, come nel passato lo Stato dove lo Stato difetta, ma è espressione di questo Stato». «Questo Stato», afferma Parlato, «ha una potenzialità di violenza superiore a quella di quattordici mafie messe insieme».
* * *
Pino Arlacchi, il più aggiornato studioso di mafia e camorra, scrive che «il boom della camorra è avvenuto e sta avvenendo in parallelo ad un fenomeno di circolazione delle elites di governo che vede l'ascesa di una nuova schiera di uomini, ambiziosi e spregiudicati, di origini popolari, che non possiedono un elevato livello di istruzione formale. Per individuarli è sufficiente guardare al potere locale e al potere intermedio: consiglieri comunali, provinciali, regionali, sindaci e amministratori di enti pubblici appartenenti ai partiti di governo. Gli scandali che stanno scoppiando a ripetizione vedono molti di essi come protagonisti e segnalano un fenomeno di integrazione di uomini e metodi della camorra anche in ambienti prima relativamente immuni. In diversi comuni delle aree terremotate, della zona vesuviana e dell'agro nocerino-sarnese le amministrazioni comunali vedono la presenza di camorristi e personaggi legati alla camorra che gestiscono importanti quote di denaro pubblico».
* * *
Da queste parole del sociologo Pino Arlacchi, uomo di sinistra, potrebbe trasparire una melanconica nostalgia per i vecchi notabili meridionali che, pur patroni clientelari, operavano in politica come filtro di pulizia amministrativa. Non rubavano insomma.
Ma non è così...
* * *
Al fondo della questione «mafia cardine del potere politico in Italia», c'è la crisi profonda della stessa legittimazione della funzione pubblica. Cioè i quadri politici delle forze di governo non riescono più ad esprimere delle idealità che li distinguano dal sottobosco della criminalità organizzata. Gli uni e gli altri si assomigliano anche nelle aspirazioni, vogliono le stesse cose (potere, influenza, denaro), e per ottenerle sono pronti a tutto. Anzi diremo che fra le due cosiddette gerarchie, quella politica è la più viscida perché pretende di coprire il proprio malaffare con coperture di rispettabilità e coperture di potere che non si fermano nemmeno dinanzi alla strage. Il confine fra gangsterismo e politica è sempre più difficile da rintracciare, dice Paietta.
* * *
È un quadro politico putrefatto, perché questo è un Paese senza scopo, senza destino, senza bandiera. Si ruba, si uccide, si massacra. Perché non ci sono più bandiere.
Abbiamo la presunzione di ritenere che la nostra analisi sul connubio «mafia - politica -terrorismo» sia più corretta e più esatta del teorema del giudice Pier Luigi Vigna. Ha almeno il pregio di fornire delle ragioni, non delle allucinazioni.
N.B. Cirillo fu liberato. E per la sua liberazione si ricorse a tutto: anche al delitto. Ecco l'interrogativo: perché la DC non fece altrettanto per Aldo Moro. Perché lo volle morto?

 

18 marzo 1989
Il "Sabato", Mazzini e la massoneria


"il Sabato" (4.3.89), sotto il titolo: «Ecco gli eredi di quella Repubblica» (la Repubblica Romana del 1849 - N.d.R.), polemizzando con "la Voce Repubblicana", fra l'altro, scrive: «Chi raccolse l'idea mazziniana della 3ª Roma, ovvero della Roma massonica, furono Mussolini e il Fascismo che, non a caso, fecero propri anche i simboli della Repubblica Romana, i fasci consolari e le Aquile legionarie, nonché il velleitarismo imperiale. È significativo -prosegue "il Sabato"- che in parallelo con il PRI proprio il MSI di Fini abbia festeggiato anche esso la Repubblica Romana...».
* * *
Mazzini massone? È una bestemmia, certamente dovuta ad ignoranza (dal latino ignorans, inconsapevolezza). Mazzinismo e massoneria costituiscono una inconciliabile antitesi, sia sul terreno religioso che su quello morale e politico.
* * *
«Non ho alcuna fede in te. Non sei credente, sei una metà, secondo me, di un rivoluzionario. Nel Medio Evo saresti stato un intero». Con queste parole dirette a Nicola Fabrizi, chiamato pure «barbaro materialista», accentuava Mazzini (Epistolario, XII, 37) quanto fossero distanti dal suo spirito, dalla sua dottrina, certi anche eminenti discepoli o seguaci: che non riuscivano affatto a comprenderlo, e proprio perché radicati massoni».
(Alessandro Luzio, "Mazzini e la massoneria", 1923)
* * *
«Mazzini era un mistico, ebbro di fede intensa. Volere o no, il Dio di Mazzini è il Dio personale del cristianesimo, davanti al quale ogni mortale comparirà a rendere conto della missione terrena e dei "talenti" affidatigli... L'imperativo categorico quindi di agire onestamente, malgrado ogni difficoltà, per essere degni di quel premio, di quell'ineffabile conforto dell'oltretomba, sono idee su cui Mazzini insiste con ispirazione di perenne freschezza».
(idem)
* * *
"Il Sabato" non dovrebbe ignorare che nella massoneria si può entrare professando qualsiasi credenza, anche l'ateismo. E da ciò che le recentissime carte della Loggia massonica P2 ci hanno raccontato, si può essere massoni anche se «cattolici» iscritti nella DC, addirittura Ministri della stessa...
Ciò che si è detto per l'esistenza di Dio, vale per l'altra, inscindibilmente connessa, dell'immortalità dell'anima. La massoneria la lascia pure ad libitum dell'opinante, tanto se si condivida la convinzione cristiana nell'al di là, quanto quella del non credente che accetta solo che il ricordo degli uomini possa sopravvivere in noi. Niente di più.
* * *
Come riconosce F. Momigliano ("Nuova Antologia", dicembre 1921) è assurdo ravvisare un qualsiasi contatto tra la fede religiosa mazziniana, pietra angolare di tutto un sistema politico-morale e la dottrina massonica: quella riassunta nel celebre motto «Dio e Popolo»; e questa, «pochissimo devota all'uno e all'altro dei due termini». Non al Popolo, per la natura chiusa dell'associazione, proclamantesi «nucleo di minoranze intellettuali delle classi dirigenti» ("Rivista Massonica", 1917, pagina 147). Non a Dio perché la filosofia massonica è atea, materialista; nella migliore delle ipotesi agnostica, neutrale.
* * *
Per Mazzini l'ateismo, l'agnosticismo equivalgono alla decapitazione, alla rovina di tutta la sua costruzione. Giudicava perciò nel 1868 le Logge altrettanto funeste del borbonismo al
Mezzogiorno...
Commenta lo storico Alessandro Luzio: «Tanto più severamente avrebbe condannato la filosofia massonica d'oggi, buona a tutto fare, che alle questioni più angosciose dello spirito umano, sulla nostra missione in terra, risponde tranquillamente: "Credete quel che vi pare e piace, non guastiamoci il sangue per simili inezie. Il mio credo preferito sarebbe l'ateismo, il paganesimo (basta leggere i discorsi di Giovan Battista Romagnosi), ma se del Grande Architetto dell'Universo amate foggiarvi un Dio personale, cattolico, protestante, semitico, musulmano, buddistico, servitevi pure"».
* * *
Giuseppe Mazzini, da privato e Triumviro della Repubblica Romana, prestò sempre ossequio alle cerimonie della Chiesa. Esule a Londra teneva a battesimo il figlio di un amico italiano; dominatore di Roma, ordinava l'esposizione del Santissimo nelle Chiese fra il fragor della battaglia, e ingiungeva, con un nobile manifesto, il rispetto dei confessionali manomessi da irreligiosità settaria; tema questo che verrà ripreso, 95 anni dopo, da Benito Mussolini, in Repubblica Sociale Italiana, nel discorso del Lirico, tenuto in Milano il 16.XII.1944.
* * *
Sull'orlo della morte Mazzini, nel 1871, all'udire della morte di Adelaide Sidoli, patriota risorgimentale, chiederà affannato al Varè: «Morì cristiana? Ogni Fede, anche guasta da un falso dogma conforta il guanciale del morente e lo consacra più che non può l'arida, scarna, tristissima menzogna di Scienza che chiamano oggi pensiero e ragione».
Non per nulla alla fiamma divorante del misticismo religioso di Giuseppe Mazzini scaldarono il santo petto sacerdoti cattolici che, come il Tazzoli, affrontarono cristianamente e nazionalmente il patibolo.
* * *
Si potrebbero addurre a iosa le mordenti battute con cui Mazzini condannò il cosmopolitismo della massoneria a scapito del sentimento nazionale; il prono ossequio alla Francia massonica, la sconfinata ammirazione per gli uomini e i Fasti della sua Rivoluzione, laddove egli, se non misogallo indefesso, dichiaravasi intollerante della pretesa superiorità che i francesi s'arrogavano, sempre deciso a combatterla.
* * *
Del pari sdegnava gli intrighi tortuosi della massoneria. Questa diceva: nessuna cosa deve sfuggire dalle vostre labbra, nemmeno con le persone più care... Il segreto è l'arma dei nostri successi. Mazzini replicava agli sbirri che lo pedinavano: «Non v'è da scovare in me nulla. Tutto ciò che faccio io lo faccio in pubblico. (...) senza paure, senza reticenze. Non conosco vie coperte».
* * *
E dinanzi al nemico: la santità del martirio come testimonianza di contro al gesuitico procedere massonico della «penetrazione», dell'inserimento «nel mondo profano per meglio combatterlo». No, proclamava Mazzini, «io non blandisco, io non mi inserisco, io lotto. A visiera alzata».
* * *
Questo fu Giuseppe Mazzini, l'Apostolo dell'unità italiana. La sua politica è morale, anzi religione, scriverà Giovanni Gentile.
E veramente strano e doloroso che "il Sabato", sorto per combattere la «terrestrità» democristiana, quel cattolicesimo anticristiano che è compromesso, mediazione, prudenza, viltà, resa, se la prenda con Giuseppe Mazzini, la cui vita venne dedicata alla santità della testimonianza in ciò in cui si crede. Come Cristo insegna. Per essere uomini, non sepolcri imbiancati.


25 marzo 1989
Dolce Italia terra di nessuno


Ha fatto notizia che, fra i consulenti nominati per affiancare il lavoro della Commissione di inchiesta parlamentare sulle «stragi», figurasse il colonnello dei Carabinieri Giorgio Angeli, già appartenente ai Servizi segreti. Il deputato demoproletario Luigi Cipriani ha protestato vivacemente e ne ha chiesto l'allontanamento.
* * *
Ne saranno soprattutto dispiaciuti i senatori Arrigo Boldrini e Ugo Pecchioli. Infatti era proprio il colonnello Giorgio Angeli a fare da collegamento, negli Anni '70, fra il PCI e i Servizi segreti, quando l'allora generale Gian Adelio Maletti, responsabile del controspionaggio, incontrava, in una sede coperta del SID (via del Boccaccio) gli autorevoli senatori del PCI, onde concordare la riforma dei Servizi e le nomine degli alti vertici militari.
Gli incontri sono avvenuti anche a Ravenna, città natale del senatore Boldrini medaglia d'oro della Resistenza (ieri centurione della MVSN) e della moglie dell'Angeli. Ed è da questi incontri che, come si è detto, è maturata, fra il 1974 e il 1979, la riforma dei Servizi, nonché le nomine dei nuovi vertici militari, tutti poi risultati iscritti alla P2. Un buon lavoro davvero quello svolto da Arrigo Boldrini e da Ugo Pecchioli, quest'ultimo responsabile, per conto del PCI, dei problemi dello Stato!
* * *
Non ridete, vi prego. Giorgio Angeli, quando era nei Servizi dirigeva due settori: il reparto che vagliava le informazioni sul PCI e sui partiti comunisti dell'Est e quello della Polizia militare, il cui compito era di impedire infiltrazioni comuniste nelle FF.AA.
L'uomo giusto al posto giusto. Da «sorvegliante» dei comunisti a intermediario e interprete degli stessi. Queste sono carriere tipiche nelle nostre FF.AA che, a prescindere da ciò che possono pensare miei illustri amici, sono state, in questo dopoguerra, niente altro che il braccio secolare del potere, anche per le più squallide e ignobili operazioni. Contro di noi, in particolare, si intende.
* * *
Il DC 9 di Ustica chiama Argo 16, l'aereo dei Servizi che, dopo avere riportato a Tripoli, per ordine del governo, i terroristi arabi sorpresi a Fiumicino nel tentativo di abbattere con un missile un aereo di linea israeliano, cadde (o esplose) a Marghera, in circostanze rimaste misteriose. I terroristi vennero rilasciati, grazie a sentenze assolutorie concordate fra il governo (sottosegretario alla Giustizia Pennacchini) e la Magistratura (Procuratore generale Pascalino), sotto l'alta protezione personale e di Rumor e di Aldo Moro.
* * *
Vendetta del Mossad, il servizio informazioni israeliano? Una lezione all'Italia che, sottobanco, se la intendeva con i terroristi arabi? Rivalsa di quel settore dei Servizi segreti filo israeliano, con a capo il generale Gian Adelio Maletti (sarebbe stato lui a spifferare ad Israele tutto), che era in lotta con l'altro settore, quello filo arabo?
* * *
Sentite questa. Quando il generale Gian Adelio Maletti, capo del controspionaggio del SID, viene messo sotto accusa per aver protetto, nella vicenda di Piazza Fontana, l'agente Giannettini, all'uscita da un interrogatorio con il Procuratore capo di Bologna, fa una dichiarazione che è un messaggio cifrato ai superiori politici. Fate attenzione, è il settembre del 1974, a breve distanza le stragi di Fiumicino e di Bologna. «Tre giorni prima dell'attentato dei fedayn a Fiumicino», afferma Maletti, «io personalmente avevo informato il ministero degli Interni su ciò che sarebbe accaduto».
Cosa significa questa dichiarazione? Presso a poco questo: state attenti uomini politici. Ora mi volete incastrare con lo stragismo. Ma voi? Perché, pur avvertiti che i terroristi arabi avrebbero fatto una strage a Fiumicino, non siete intervenuti? Cosa avete voluto proteggere? I vostri affari (anche personali) che puzzano di petrolio? Petrolio e sangue.
* * *
La morale? Questa: l'Italia è terra di nessuno, è un santuario garantito per la sporca guerra dei Servizi stranieri, tanto che questi, per le alte protezioni che godono, hanno acquisito il diritto di uccidere. Impunemente. E i Servizi segreti italiani, delegati a proteggere lo Stato italiano e i suoi cittadini, devono «non sentire, non parlare, non vedere». Ciò capita ad un Paese e a un popolo che ha perduto la propria indipendenza, argomento questo, dell'indipendenza nazionale, che è completamente sconosciuto al dibattito politico, alla stessa coscienza del popolo italiano, eppure si tratta della propria vita che si può perdere, come se nulla fosse, per strada, su un treno, su un aereo.
* * *
L'Argo 16 e il DC 9 di Ustica, storie parallele, che cosa dimostrano? Che si va alla sistematica distruzione di tutte le prove che potrebbero portare alla verità. Ora sotto inchiesta è l'Aeronautica Militare, con tutte le sue gloriose tradizioni, è sospettata, in questa Italia democristiana, di avere occultato la verità. Un esame di coscienza per i militari non sarebbe poi tanto male. Sul «significato» di che cosa vuol dire essersi fatti servitori di un sistema di potere che ha, alla sua base, le lotte fra «bande». Aver dimenticato di difendere, con l'idea di Nazione, la propria dignità e professionalità di soldati.
* * *
Siamo in tema, a proposito delle stragi, di teoremi. Ve ne è uno anche del ministro Rino Formica. Ascoltiamolo. Chiama in causa «coloro» che, ininterrottamente, hanno mantenuto la presidenza del Consiglio, dal dicembre 1945 al maggio 1981.
«In sostanza», scrive Formica ("l'Avanti1", 1 giugno 1986), «le dichiarazioni del generale dei Servizi Viviani sono gravissime. Il generale dice che i Servizi non deviarono per propria inclinazione, ma in forza di precisi impulsi ricevuti dal potere politico. Qui sta la vera novità e la grande portata delle rivelazioni. In questa luce, non sono più i singoli casi che contano, bensì il contesto generale nel quale si sono inseriti. Nel senso che le stragi, i tentativi di colpo di Stato, l'Argo 16, non possono più essere considerati come singoli episodi criminali staccati l'uno dall'altro, ma articolazioni di una strategia della tensione che ha condizionato la vita italiana per quasi due decenni. È venuto il momento in cui non ci si può più trincerare dietro i segreti, i silenzi. Dobbiamo chiarire le responsabilità a livello politico. Di chi ha governato in questi anni, di chi ha mantenuto, ininterrottamente, la Presidenza del Consiglio per più di 35 anni, dal dicembre 1945 al maggio 1981. È un dovere della DC il chiarimento ...».
* * *
E un teorema. Ci permettiamo sottoporlo all'attenzione del magistrato Pier Luigi Vigna da Firenze.
 

1 aprile 1989
Pallettoni di sterco


«Inutile raccontare favole: ci sono giornalisti che sono dei killer. Una volta c'erano le agenzie di stampa specializzate in spazzatura. Oggi sono spuntati tanti free-lance fabbricatori di scandali».
(Claudio Martelli, 5.3.89)
* * *
«A occhio e croce mi sembra una grandissima mascalzonata, della quale ora verremo a capo».
(Bettino Craxi, 10.3.89)
* * *
«Nelle dichiarazioni di Craxi c'è sempre, voluta o meno, una sfumatura intimidatoria. Non è necessario ripetere che non ci faremo intimidire. L'on. Martelli non è colpevole, in quanto avrebbe fumato uno spinello, ma è colpevole se mente. Noi gli chiediamo oggi un atto di coraggio e di lealtà».
(Miriam Mafai, 11.3.89)
* * *
«L'importanza della posta in gioco e la violenza della polemica precludono tanto per Martelli, quanto per i suoi accusatori qualsiasi ritirata onorevole».
(Gianfranco Piazzesi, 12.3.89)
* * *
«L'onorevole Craxi ha usato per due volte consecutive nello spazio di quarantott'ore la parola "mascalzonata". E ha aggiunto; ci vedremo in tribunale. Non è chiaro quale sia il bersaglio di Craxi e chi siano i supposti mascalzoni».
("la Repubblica", 12.3.89)
* * *
«II caso Martelli è più pesante, anche se la droga in ballo è leggera. Qui la menzogna (se di menzogna si tratta e non di legittima difesa) è ripetuta, ostentata, sostenuta con la sicurezza accorata di chi tenta di passare per la vittima di un complotto».
(Giampaolo Pansa, 13.3.89)
* * *
«L'on. Martelli faccia un atto di coraggio: ammetta la verità».
(Giovanni Valentini, "l'Espresso", 13.3.89)
* * *
«Farò questo atto di coraggio. Porterò Valentini in Tribunale come falsario e diffamatore». (Claudio Martelli, 14.3.89)
* * *
«In America un caso analogo avrebbe comportato le dimissioni perché là, a differenza di quello che avviene in una Repubblica delle banane, chi sbaglia paga».
(Alberto La Volpe, 14.3.89)
* * *
«E bravo La Volpe. In poco meno di due minuti ha liquidato una vicenda ancora tutta da chiarire. Sarebbe facile, a questo punto affermare che l'improvviso gusto della verità che ha contagiato ieri sera La Volpe aveva il profumo del "garofano". L'utente della TV di Stato deve sapere se la Direzione di un telegiornale ha sede in via Teulada o nella Segreteria di un partito che ferreamente la controlla».
("la Repubblica", 15.3.89)
* * *
«C'è un'ulteriore categoria di possibili mascalzoni, e sono tutti quei moralisti, per esempio di grandi firme come Miriam Mafai o come Giampaolo Pansa, che hanno emesso condanne sommarie e hanno moralizzato sul nulla».
(Giuliano Ferrara, 15.3.89)
* * *
«Giornalismo cialtrone. L'impavida Miriam Mafai propone il sistema noto a tutti i nazismi, da quello dei generali hitleriani a quello dei generali argentini: prima si accusa qualcuno di una qualsiasi nefandezza, poi gli si chiede il coraggio "morale e politico" di confessare». (Lanfranco Vaccari, "l'Europeo", 16.3.89)
* * *
«Chi sono i mascalzoni? Coloro che, molto probabilmente, hanno agito sotto l'ispirazione e l'incoraggiamento di un unico mascalzone, grandissimo, incommensurabile, e recidivo mascalzone».
(Ghino di Tacco [Bettino Craxi], 16.3.89)
* * *
«Il direttore di questo giornale è rimasto per qualche attimo incerto se quella qualifica di mascalzone fosse diretta a lui, ma poi si è convinto che il bersaglio doveva probabilmente essere situato più in alto: una specie di Grande Burattinaio, di Belzebù un po' ingobbito (leggi Andreotti - N.d.R.) con il quale Craxi alterna carezze e legnate da almeno dieci anni sul piccolo palcoscenico della politica italiana».
(Eugenio Scalfari, "la Repubblica", 17.3.89)
* * *
«Non vale la pena rispondere a qualche direttore da strapazzo, abituato evidentemente a lavorare sulle versioni ufficiali. Questi non sono giornalisti: sono dei cialtroni e basta, neppure di razza».
(Giovanni Valentini, "l'Espresso", 26.3.89)
* * *
«Prendersi del mascalzone dal bretellume di Ghino di Tacco (leggi Giuliano Ferrara, giornalista di Canale 5, amico di Craxi - N.d.R.), è una medaglia che non ti regalano tutti i giorni. E sono certo che, dall'al di là, il mio papà, che era socialista, avrà applaudito felice, poiché avere un figlio che fa incavolare pupazzi e pupazzari non è roba da poco in questi tempi di pecoraggine»
(Giampaolo Pansa, "Panorama", 26.3.89)
* * *
«Ma la tentazione di rifarsi bandito in Ghino di Tacco (leggi Craxi - N.d.R.) è evidentemente connaturata in lui, sicché ai primi tepori di primavera eccolo scendere di nuovo baldanzosamente in campo assieme a tutta la sua masnada, ben allenata e agguerrita alla guerra di foresta e di riviera, come tutte le masnade che si rispettino. E per di più fornita di strumenti potenti: le reti di Berlusconi, la seconda rete della RAI, nonché una catena di giornali che si estendono molto al di là dell'area di Radicofani propriamente detta»
(Eugenio Scalfari, "la Repubblica", 17.3.89)
* * *
Nota e morale. Hanno fatto tutto da sé. Di nostro non c'è nemmeno un rigo. Si sono descritti, a meraviglia: mentitori, burattini, pupazzi, cialtroni, nazisti, mascalzoni, killer, banditi da strada.
Ma è proprio così? Ma perché dovremmo noi smentirli? E ora, che accadrà? Con tutta probabilità nulla. Dopo essersi offesi vicendevolmente e sanguinosamente, una cosa continueranno a fare: a prendere per il culo il popolo italiano.

 

8 aprile 1989
I conti in tasca a De Mita


SI è svolta il 31 marzo u.s. l'assemblea dei soci della Banca Popolare dell'Irpinia, di cui è azionista, personalmente e attraverso i familiari (minorenni compresi), Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio.
Prima dell'assemblea è corsa, con insistenza, la voce che, in quella occasione, De Mita si sarebbe liberato, per una questione di immagine e di stile, dei pacchetti azionari posseduti. Non va dimenticato che nella banca lavorano il nipote della signora De Mita e il cognato di De Mita; e che della banca sono azionisti il senatore Nicola Mancino, il deputato Giuseppe Gargani, l'ex-ministro Salverino De Mito, tutti uomini demitiani. Non si dimentichi ancora che i «successi» della banca (gestita dall'ex-comunista Ernesto Valentino), illustrati nel bando di convocazione dell'assemblea, si basano, in gran parte, su quella «rendita di posizione», rappresentata dai fondi destinati alla ricostruzione dopo il terremoto.
* * *
Non abbiamo notizia se il gesto sia stato compiuto, o no. Certo è che la rinunzia, come hanno scritto i giornali, all'investimento finanziario nella Banca Popolare dell'Irpinia, è per De Mita un serio sacrificio. Si sono fatti i conti. De Mita ha denunziato nel 1987 un reddito di 73.910.000, di cui 21.938.000 lire come reddito derivante da capitale.
Quanto paga di affitto all'Inpadai l'on. De Mita per il lussuoso appartamento, in cui abita con la famiglia, di via dell'Arcione n. 7?
Le cifre variano.
* * *
Secondo quanto afferma l'on. Formica, ministro del Lavoro, in risposta ad una interrogazione dell'on. Rauti, De Mita pagherebbe un canone mensile di 3 milioni e 598 mila lire, condominio escluso. Secondo altri, tra canone e locazione, contributo alle spese di ricostruzione e oneri vari, la cifra salirebbe ad almeno sei milioni al mese, per un totale di 72 milioni l'anno. Se è esatta quest'ultima cifra, e concedendo a De Mita la giustificazione che nel 1988 i redditi finanziari suoi e della sua famiglia, provenienti dalla Banca Popolare dell'Irpinia, siano raddoppiati per un totale di 90 milioni, gli resterebbero disponibili, da una cifra del genere, 18 milioni annui e ciò per vivere, svagarsi, vestirsi e altro, per Lui e la sua numerosa famiglia. Un po' pochi. Almeno che De Mita non abbia altri introiti, certamente legittimi, ma su questo solo la Guardia di Finanza (non siamo tutti eguali?) potrebbe dire l'ultima parola attraverso un severo accertamento fra ciò che si è denunciato e il tenore di vita praticato.
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Direte che è antipatico fare i conti in tasca ad un uomo pubblico. Può essere, ma dato che tutti, a cominciare da De Mita, abbiamo preso come «modello di vita» quello americano, si sappia che là in America, i conti in tasca ai Presidenti della Nazione più forte del mondo, sono consueti e vi collaborano non solo giornali, riviste e tv, ma le banche stesse. E rimasto celebre l'avvertiménto dato al Presidente Nixon: «Abbiamo fatto i conti fra ciò che denuncia e il tenore di vita da Lei tenuto. Ci rientra, ma per poco. Stia attento a non debordare. E non usi l'elicottero di Stato per andare a pescare!».
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Comunque l'interrogativo è questo: De Mita ha rinunziato agli introiti della Banca Popolare dell'Irpinia?
La risposta è importante. L'uomo pubblico (questa è la sua scelta) non appartiene più a se stesso, appartiene all'intera collettività nazionale, e la collettività nazionale deve sapere come vive e con quali risorse va avanti. Anche per poter stimolare la Guardia di Finanza, giustamente rigorosa con il cittadino trovato senza ricevuta fiscale per aver acquistato un etto di salame, a fare, anche nei confronti di De Mita, tutto il suo dovere.
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Direte ancora che siamo sospettosi. Con ragione, amici miei. Nella nostra memoria frulla ancora l'intervista che lo stesso Ciriaco De Mita, come ministro allora dell'Industria, dette il 14 febbraio 1974 al "Corriere della Sera", e precisamente a Cesare Zappulli.
«Improvvisamente», sbottò De Mita, «si scopre che l'Enel finanzia i partiti, come se non si sapesse che questo è fra gli obblighi, diciamo così, sub-istituzionali dell'Enel».
Capita l'antifona? L'Enel, secondo il De Mita anno 1974, ha, fra i suoi compiti, quello di dare soldi ai partiti! Compito istituzionale!
Con queste... idee, 15 anni fa l'attuale presidente del Consiglio ricopriva la carica di ministro! E poi ci si meraviglia che la partitocrazia abbia mangiato letteralmente lo Stato!
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E noi, retrogradi, che pensavamo che il compito istituzionale, per cui si era nazionalizzata l'energia elettrica, fosse quello di dare ai cittadini, che pagano le bollette, un servizio più efficiente e meno costoso! No, afferma De Mita, compito dell'Enel è quello di dare, sottobanco, quattrini ai partiti. Per questo abbiamo nazionalizzato l'energia elettrica!
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Davanti alla stupefacente e insolente dichiarazione di De Mita, tutti rimasero zitti. L'ente di Stato, l'Enel, per primo. E pure amministra i denari di tutti noi!
Ora c'è da pensare una cosa: l'onorevole De Mita, che da ministro 15 anni fa coltivava quelle idee, le conserva pure oggi che è presidente del Consiglio dei ministri?
Capirete, cari lettori, la ragione perché siamo così sospettosi nei riguardi di De Mita, specie quando i conti, anche quelli familiari, non tornano proprio a puntino.
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Tognazzi, interpretando, con una battuta di sapore contemporaneo, l'Arpagone del celebre "Avaro" di Molière, così si esprime: il sordido spilorcio, alla disperata ricerca di una cassetta ricolma di oro, si rivolge alla platea gridando: «Dove sono i soldi? Dove sono i ladri? Dov'è Nicolazzi?».
Nicolazzi, offeso, ha ricorso, ma i magistrati hanno dato ragione a Tognazzi. Quella battuta è perfettamente legittima, resta nel copione. La recita continua.
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«Nessun rilievo si può fare alla correttezza di Mussolini nella gestione finanziaria dello Stato. Le sue responsabilità morali sono altrove. D'altro canto in TV non ho fatto una domanda che faccio adesso: perché non si pubblicano i risultati dell'inchiesta compiuta dalla Commissione incaricata di accertare i profitti del regime fascista? La Commissione fu formata nel 1944, l'inchiesta la condussero uomini insospettabili come l'on. Scoccimarro e il padre di Berlinguer. Non se ne è mai saputo nulla».
(Giulio Andreotti, "il Messaggero", 22.7.1971).
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Ricordate il celeberrimo disegno di Giovanni Guareschi? È raffigurato un uomo anziano che, con il bastone, indica al nipotino che ha accanto il distributore di benzina di Piazzale Loreto. Sotto la didascalia: «Li impiccarono per i piedi, ma dalle loro tasche non uscì un soldo!».

 

15 aprile 1989
Una sentina di corruzione


Il caso Palermo. Quando scrivo è ancora bagarre. Come andrà a finire? Ascoltiamo intanto il racconto di Claudio Martelli ("Corriere", 10.4), capolista nella circoscrizione elettorale di Palermo: «Con le elezioni politiche del 15 giugno 1987 il PSI passa dall'11% al 17% dei voti. E subito dopo Orlando e Mattarella ci accusano di avere preso consensi nelle zone mafiose. Accuse che vengono proprio dai nipotini dei "consigliori" della mafia, Bernardo Mattarella e l'avvocato Orlando Cascio. Noi rispondiamo in modo fermo, anche perché in luoghi come Partinico e Bagheria, ad alta concentrazione malavitosa, i voti per me erano poche centinaia, per Mattarella molte migliaia. Il motivo politico della rottura è un altro: mentre i socialisti pongono la questione del ricambio laico o socialista alla guida di Palermo o alla guida della Regione, la DC apre ai comunisti con la benedizione dei gesuiti. Lì nasce l'imbroglio, ovvero un sindaco de e un vicesindaco dell'opposizione Aldo Rizzo».
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Tra i due litiganti la domanda: che farà il moderato Arnaldo Forlani, segretario nazionale della DC? Spalancherà le porte del Comune di Palermo ai comunisti, cioè andrà oltre i divisamenti di De Mita? Staremo a vedere.
Comunque sia, le vicende di Palermo tornano, puntualmente, a pesare nella vita di Forlani, tutte le volte che questi assume la carica di segretario nazionale della DC. Già negli Anni '70 a Forlani, anche allora segretario DC, capitò, proprio a Palermo, la «grana» Ciancimino. Venne eletto Sindaco, in un clima di polemiche accese. E il destino volle che il segretario DC si scontrasse con Piersanti Mattarella, fratello dell'attuale ministro Sergio Mattarella, accusato da Forlani di essere stato lui, poi assassinato dalla mafia, l'artefice della elezione del mafioso Vito Ciancimino a Sindaco di Palermo.
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Oggi le parti sembrano invertite, perlomeno confuse. Se Piersanti Mattarella, nella elezione a Sindaco di Vito Ciancimino, dava ad addivedere, nel novembre del 1970, secondo Forlani, di coltivare propensioni mafiose; oggi il suo giovane fratello Sergio sembrerebbe schierato sul cosiddetto «fronte degli onesti», quello del Sindaco Luca Orlando che a Palermo, per dirla con il gesuita Ennio Pintacuda, sarebbe composto da singoli cittadini, gruppi, aggregazioni che avrebbero prodotto il superamento delle vecchie alleanze partitiche che, basate su tipologie di governo e sistemi di potere funzionale solo a vilissimi interessi di parte, sarebbero stati veicolo di mafia e di criminalità organizzata. «Questione morale», dunque, che Claudio Martelli e il PSI respingono, ribadendo, a loro volta, che la mafia sta proprio dalla parte di Orlando, di Mattarella, dei Gesuiti.
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Fra parentesi, il Governatore della Banca d'Italia Ciampi, nel corso della sua audizione presso la Commissione Antimafia, ha denunciato come le Banche stiano diventando lo strumento primo della circolazione del «denaro sporco», e che tale preoccupante problema criminoso rischia, con la liberalizzazione valutaria che si avrà in Europa, di aggravarsi ulteriormente. E tutta la stampa si è particolarmente fermata sull'impressionante numero degli sportelli bancari aperti in Sicilia.
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«Se l'Italia avesse un numero di sportelli bancari proporzionali a quello di alcuni centri della Sicilia, probabilmente avrebbe una potenza finanziaria paragonabile a quella del Giappone», cosi "il Giornale", del 10.4.
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Ma se le organizzazioni criminali hanno potuto darsi, con le Banche e attraverso le Banche, una facciata di rispettabilità, se hanno potuto compiere questa operazione cosmetica, chi si deve ringraziare se non la classe politica nazionale e locale, la stessa che manifesta «stupore» di fronte alla dichiarazione del Governatore della Banca d'Italia?
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È noto che l'Assemblea regionale siciliana, grazie alla sua straripante autonomia derivatagli da quello Statuto del 15 maggio del 1946, che è la prima fonte di inquinamento mafioso, ha competenza primaria sull'apertura degli sportelli bancari. Personalmente senza mai riuscire a sapere, pur interessando al quesito anche amici di partito, mi sono dato da fare per conoscere quanti sportelli bancari vennero autorizzati in Sicilia durante la lunga permanenza di Piersanti Mattarella nell'incarico di assessore regionale al Bilancio e alle Finanze.
La domanda resta in piedi, e già da ora il più vivo grazie a chi vorrà darmi notizie al riguardo. Non è curiosità morbosa, ma desiderio di capire, che è la condizione prima per informare, a sua volta, i lettori, i cittadini, tutti coloro che, sul tema della mafia, si interrogano e soffrono, senza riuscire mai a capire dove cominciano e finiscono le complicità politiche riguardo alla criminalità organizzata.
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Curiosa (si fa per dire) la polemica fra il Sindaco di Palermo Luca Orlando e il deputato europeo (andreottiano della più bell'acqua) Salvo Lima. Orlando non rinuncia alla candidatura europea. Chiede solo a Forlani e ad ogni membro della direzione DC «con nome e cognome» di assumere la responsabilità di indicare Lui o Salvo Lima. Il che equivale porre, da parte del Sindaco di Palermo, la «questione morale» nei riguardi del democristiano Salvo Lima, questione morale in cui lo spartiacque è chiaro: «Io non sono mafioso, Lima sì, questa è la scelta che è davanti a tutta la DC».
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Si ribella il ministro (andreottiano di ferro) Paolo Cirino Pomicino. Il ministro sostiene che la richiesta di Orlando nasconde «metodi intimidatori e mafiosi». E aggiunge: «Non siamo in questura, con la polizia che scheda e scrive: a domanda risponde». Come risolvere allora la... concorrenza fra Orlando e Lima? «Io, dice Pomicino, metterei in lista entrambi, cosi, come a Napoli, prenderemmo tutto. A Napoli, infatti, abbiamo messo insieme la clientela di Gava e le speranze rappresentate da Cirino Pomicino: una miscela esplosiva!».
Dunque: mettiamo insieme mafia e il messaggio di Orlando e si prende tutto!
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Ahimè, questa è la DC! Devo, con rammarico, dare ragione, questa volta, a "la Voce Repubblicana" che, in polemica con "il Popolo", scrive che «la DC è la sentina di tutti i mali e le sciagure del Paese». Una sentina colma di cinismo, corruzione, affarismo.
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Torniamo alle Banche. E a Salvo Lima e alla miscela siciliana che puntualmente mette in crisi tutta l'area nazionale che, con ogni probabilità, farà esplodere la crisi di governo.
Nel Volume III inerente alla pubblicazione, decisa dall'Antimafia, delle famose «schede nominative» (X legislatura. Doc. XXIII, n. 3), Salvo Lima è fra coloro che può contare un numero di pagine, a lui dedicate, numeroso. Sono 34. Ma fra quelle pagine invano si cercherebbero gli «omissis» che, sulla relazione n. 737 dell'allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, comandante la Legione dei Carabinieri di Palermo, vennero posti dalla maggioranza della Commissione antimafia nel 1976, all'atto della consegna delle relazioni conclusive al Parlamento. In particolare l'allegato n. 5, dove si parla, appunto, di Banche; in particolare della Banca Popolare di Palermo. Fra i cui fondatori oltre a noti mafiosi, macchiati anche di delitti, figura anche il nostro Salvo Lima, e si afferma che, dietro gli sportelli di quella Banca, si fa del contrabbando. Sarebbe interessante sapere, visto che la relazione del colonnello Dalla Chiesa è del 13 gennaio 1972, da chi quegli sportelli della Banca Popolare, tutti aperti in zone tipicamente critiche rispetto al fenomeno mafioso, furono autorizzati. Forse si capirebbe di più anche sull'assassinio di Piersanti Mattarella.
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In sostanza: dai casi di Palermo la DC accusa il PSI di essere cresciuto in Sicilia grazie ai voti dei mafiosi; il PSI accusa la DC di avere dentro di sé i «consigliori» dei mafiosi. Protagonista ancora Claudio Martelli, deputato siciliano. Dagli spinelli alla mafia. Chi è nel vero? Entrambi?

 

22 aprile 1989
Una fama usurpata


In questi tempi primaverili, in circostanze diverse, sono stati ricordati da tutta l'informazione italiana, televisiva e scritta, due personaggi di vertice della politica italiana, scomparsi uno dieci anni fa, l'altro drammaticamente nel maggio del 1978: Ugo La Malfa e Aldo Moro.
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Al primo, ad Ugo La Malfa, Indro Montanelli ha elevato, con un suo fondo su "il Giornale" (26.3), un inno. Significativo il titolo; «C'era una volta un uomo»; perentorio il giudizio: «Una passionalità, quella di Ugo La Malfa, incontaminata da qualsiasi calcolo d'interesse o di potere che riscattava e nobilitava anche i suoi errori».
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Sulla «incontaminatezza», sulla purezza spersonalizzata dei comportamenti di Ugo La Malfa, abbiamo qualche dubbio. Non vogliamo con questo dire che Ugo La Malfa è della stessa stazza di un Nicolazzi o giù di lì, vogliamo solo sottolineare che anche Ugo La Malfa, quando si trattò di difendere il proprio particolare partitico, lo fece non guardando in faccia a nessuno, nemmeno alla moralità pubblica, politica.
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Citeremo tre episodi: il primo quello del febbraio 1974, Io scandalo petrolifero, i soldi dei petrolieri ai partiti politici. E lo stesso Ugo La Malfa ad assumersi, con giustificazioni molto contorte e sofferte, la responsabilità dei finanziamenti avuti, attraverso l'Italcasse, insieme agli altri partiti politici: DC, PSI, PSDI.
Come sia andata a finire la vicenda è a tutti noto: nel dimenticatoio. Fatto sta che in una nota della Commissione Inquirente per i procedimenti di accusa contro i ministri (La Malfa era ministro del Tesoro) stava scritto (pagine 6 e 7) testualmente così: «In particolare si dovrà procedere all'interrogatorio dell'on. Ugo La Malfa che dovrà chiarire la sua posizione essendo egli stato il percettore diretto dei 12 assegni dell'Italcasse».
Non se ne fece di nulla. L'intemeratezza di Ugo La Malfa non lo portò nemmeno a rassegnare le dimissioni da ministro. Rimase al suo posto.
* * *
Il secondo episodio riguarda l'elezione di Vito Ciancimino a sindaco di Palermo, avvenuta nel novembre 1970. Alla richiesta di immediate dimissioni del sindaco «mafioso» presentate, con una mozione, all'assemblea regionale siciliana, si registra, da parte di Ugo La Malfa, con un telegramma inviato agli amici di Palermo e della Sicilia, una clamorosa risentita reazione: «Se fate dimettere Vito Ciancimino io provoco la crisi su tutta l'area nazionale... Ci sono ben altre situazioni che abbisognano di interventi moralizzatori!».
* * *
Fece scandalo quel telegramma del siciliano Ugo La Malfa a favore del mafioso Vito Ciancimino. De Pasquale Pancrazio, deputato del PCI, responsabile regionale del partito, più volte presidente del gruppo parlamentare comunista alla Regione siciliana, uscì con questa dichiarazione: «L'atteggiamento di Ugo La Malfa è ricattatorio. Il telegramma configura nel complesso uno dei più classici atteggiamenti mafiosi che si possono adottare. Il leader repubblicano afferma che esistono situazioni a sua conoscenza che abbisognano di un intervento moralizzatore. Dal punto di vista politico egli non sarebbe che un cialtrone se non dicesse all'opinione pubblica quali sono questi elementi degenerativi. Invece invita l'assemblea regionale siciliana a coprire Ciancimino in cambio di coperture di altre situazioni. Ebbene chi ragiona cosi non è certo degno di rappresentare il nostro Paese».
Nella vita di Ugo La Malfa ci sono anche questi «episodi». Come può ignorarli Indro Montanelli? Come è possibile definirli solo errori? Queste sono vere e proprie complicità.
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Il terzo episodio è del marzo 1975. 32° Congresso nazionale del PRI a Genova: i probiviri del PRI, in una lunga dettagliata relazione, espongono le ragioni per le quali l'onorevole Aristide Gunnella (che La Malfa farà ministro) deve essere espulso per indegnità dal PRI.
Che fa Ugo La Malfa? Va alla tribuna del Congresso, addita al disprezzo dei congressisti i probiviri chiamandoli «Torquemada da strapazzo», fa mettere sul banco della presidenza tre urne, una per il sì, l'altra per il no, la terza per l'astensione e fa sfilare, sotto i suoi occhi, i 2.000 delegati, onde annullare la decisione dei probiviri.
«Chi è contro Gunnella è contro di me», sanziona Ugo La Malfa, e il deputato siciliano, amico di Ciancimino, è salvato.
* * *
Giancesare Flesca, su "Panorama", commenta: «Sotto gli occhi della direzione i congressisti hanno votato per quasi un'ora. Qualcuno, mettendo la scheda nell'urna del sì, condiva il suo disappunto con locuzioni di chiara matrice ateista. Altri giravano la testa per non guardare in faccia i dirigenti. Fernanda Missiroli, famosa staffetta partigiana, piangeva in un angolo mormorando: "In questo partito non c'è più posto per la gente perbene" ...».
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Enzo Biagi ("Corriere della Sera", 6.3.75) commenterà così l'accaduto: «È strana la concezione della morale del potere che ha Ugo La Malfa. Certi sistemi di proselitismo, certe alleanze che sarebbero vergognose a Milano, a Caltagirone, stante gli usi e i costumi, vanno per lui benissimo». Nella bella commedia di Federico Zardi "E chi lo sa?", c'è una gustosa scena tra due innamorati seduti su un sofà. Lui allunga la mano e la ragazza lascia fare; la mano si sposta e lei zitta, ma ad un certo momento lei respinge le carezze. «Tu», dice il protagonista meravigliato, «la virtù la concepisci a zone».
Ecco, Ugo La Malfa la morale la concepiva a zone... Come la ragazza descritta da Federico Zardi.
* * *
Aldo Moro, la sua figura di politico, i più dicono di «statista», è ritornata all'attenzione della pubblica opinione perché, in questi giorni, la sua consorte Eleonora Chiavarelli vedova Moro, è stata condannata a sei mesi di reclusione con la condizionale per falsa testimonianza.
* * *
Si tratta di una vicenda legata al maxiprocesso sul contrabbando dei petrolieri. Dentro: ministri, politici, tutto il vertice della Guardia di Finanza, generali, perfino prelati. Interrogando il petroliere Bruno Musselli, amico strettissimo di Aldo Moro, il giudice istruttore Mario Vaudano di Torino, si senti rispondere: «Ero socio occulto, nei traffici della mia raffineria, con Sereno Freato, segretario particolare di Aldo Moro. Gli versavo assegni periodici».
Questa, invece, la replica del segretario di Aldo Moro: «No, erano soldi provenienti da un conto svizzero della corrente morotea, costituito da Aldo Moro all'estero per paura di un golpe. Poi, dopo la legge contro l'esportazione di capitali, decidemmo di farli rientrare, affidandone il compito a Bruno Musselli ...».
* * *
La storia del misterioso conto svizzero coinvolge la vedova Moro. Sentita dal giudice nella primavera dell'86 sostiene di non saperne nulla, ma poche settimane più tardi ne parla per telefono con Massimo Felici, genero di Freato. In quel colloquio, intercettato dalla Guardia di Finanza, Eleonora Moro dice: «Allora mi è venuta un'idea che può servire a qualche cosa. Sono rientrati i soldi dalla Svizzera, diciamo il 20 maggio, pochissimo dopo la morte di mio marito». Da qui la condanna. Eleonora Moro sapeva.
* * *
Ci sono state proteste. Vibratissime. In particolare da parte della senatrice Maria Fida Moro, figlia dello statista: «Voi ammazzate, per la seconda volta, Aldo Moro ...» ha detto, rivolgendosi ai giudici...
Con tutto il rispetto che si deve ad Aldo Moro e alla sua famiglia, i fatti non possono essere smentiti, e i fatti, in breve, sono questi: che la corrente politica dello statista Aldo Moro si finanziava attraverso il contrabbando dei petroli, uno scandalo fiscale questi, il più grande che la storia d'Italia ricordi.
Giudicate voi.
 

6 maggio 1989
L'ennesima «Gelli connection»


Quindici aprile 1944: a Firenze viene assassinato Giovanni Gentile. Maggio 1981: parla Luciano Suiscola, rigattiere di Firenze: «Non capisco come mai siano venuti fuori i nomi dì coloro che uccisero il filosofo Giovanni Gentile. Qualcuno ha parlato, venendo meno all'impegno di non rivelare i nomi dei componenti del commando finché fossero vivi. Comunque ormai è fatta e tengo a dire che se mi trovassi nelle stesse condizioni di allora, tenuto conto che il Gentile era il personaggio più in vista del fascismo, rifarei quello che mi fu ordinato».
* * *
Vengono fuori i particolari. Il GAP era diviso in due gruppi, quello di Bruno Fanciullacci, morto durante la Resistenza, e di Giuseppe Martini tuttora vivo; l'altro del Suiscola e di un gappista, noto con il soprannome «il capitano» e di cui lo stesso Suiscola non sa fornire altri dati anagrafici.
L'ordine di uccidere venne dal Comandante delle formazioni gappiste di Firenze, Cesare Massai che lo ricevette da Luigi Gaiani, ex-senatore, responsabile allora del PCI nel CLN della Toscana. A sua volta il Gaiani aveva ricevuto l'ordine con un messaggio in cifra via radio dal Comando alleato delle Forze Armate.
* * *
Sono notizie, come abbiamo scritto, venute fuori nel maggio del 1981 e che fanno piena luce sugli esecutori morali e materiali dell'assassinio di Gentile. Domanderete perché ci torno su.
E che, sfogliando in questi giorni il libro di Luciano Canfora, "La Sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile", Editore Sellerio, a pagina 290, trovo scritto (che sbadato alla prima lettura!) che, in contemporanea al ritrovamento nel maggio 1981 delle liste degli adepti di Licio Gelli, il Gran Maestro della Loggia P2, sequestrate ad Arezzo, con le prime indiscrezioni, viene fuori la rivelazione dei nomi e dei particolari circa il Commando che assassinò Gentile. E, insieme, una meticolosa indicazione sulla provenienza dell'ordine di uccidere il filosofo; cioè una versione dei fatti che butta all'aria tutte le precedenti, quella, soprattutto «essere stato l'assassinio di Gentile non altro che un gesto giustiziere di semplici patrioti di un gruppo di base comunista, senza alcun collegamento, né con i vertici della Resistenza, né con il CLN, né con le Forze Armate alleate».
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«Le due rivelazioni», scrive il Canfora, «per così dire gemelle si hanno con inizio l'11 maggio 1981», e ruotano subito «intorno al multiplo gioco svolto dal Gelli nel 1944, tra Pistoia e Firenze, quale ufficiale di collegamento tra repubblichini e tedeschi, nei confronti dei partigiani, dei nazifascisti, degli alleati e affiorano le tracce del nesso accortamente da lui stabilito soprattutto con la componente comunista del CLN».
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La serietà degli studi, e quindi del libro, di Luciano Canfora è universalmente riconosciuta, in tutti gli ambienti culturali e politici. È una ricostruzione paziente e scrupolosa del cosiddetto «caso Gentile», un palinsesto di difficile lettura, come lo sono tante vicende italiane, tragiche e sanguinose, in cui tutti, penosamente, annaspiamo. Canfora porta la verità su uno dei tanti misteri italiani; ed è una verità che riconferma la tesi da noi sempre sostenuta: essere l'Italia, dal 1945 in poi, governata da quelle «forze occulte» che furono le vere protagoniste e della caduta del fascismo e della restaurazione cosiddetta democratica.
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Nessuno, fino ad oggi, aveva evidenziato che dal libro del Canfora era emerso che la verità sul caso Gentile si trovava fra le carte del Gran Maestro della P2 Licio Gelli.
Non solo, ma è proprio questa rivelazione a spiegarci tutti i successivi «perché» della stessa vicenda del Gran Maestro: le protezioni avute, non ultima quella di essere uscito comodamente dalla prigione svizzera, di avere trovato l'elicottero e, successivamente, una barca di alto bordo, onde portarlo al sicuro. Per vedercelo restituito, a girare l'Italia, lui accusato di tutto, con tanto di protezione, fra alberghi e ristoranti di grido.
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«Eliminate il cervello del fascismo», questo il messaggio cifrato che, dalle Forze Alleate, giunse al radiotelegrafista che operava in Firenze per conto dei GAP del PCI», cosi "il Giornale" di Indro Montanelli il 12 maggio del 1981; edizione nella quale, fra l'altro, si racconta, sotto il titolo: «Resi noti i nomi dei componenti del Commando, fummo noi ad uccidere», come venne assassinato il filosofo dell'idealismo. Non si dice però che la rivelazione viene dalle carte di Gelli.
* * *
Dedichiamo il tutto a coloro che ancora si cullano nella credenza che, se gli Alleati avessero messo le mani su Mussolini, l'avrebbero salvato. Lo dedichiamo a coloro che ritengono che si possa, in tutta tranquillità, con Licio Gelli, sedersi a tavola a mangiare le pappardelle.
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Nella prima appendice postfascista dell'Enciclopedia Italiana del 1948 sta scritto: «La sopravvivenza della massoneria e la sua importanza furono riconosciute in una radiotrasmissione fascista dalla Germania il 4 settembre 1943, in cui essa massoneria veniva accusata di aver tramato quel colpo sfociato poi nel 25 luglio con l'arresto di Mussolini».
* * *
Su 19 firmatari dell'ordine del giorno Grandi contro Mussolini, ben tredici erano collegati con la massoneria. È un altro capitolo che dovremo coraggiosamente aprire, e che riguarda responsabilità dirette del fascismo stesso.
* * *
Licio Gelli nel 1945, con un lasciapassare del PCI, e grazie ai servigi resi agli Alleati, da Pistoia, passando per Roma e Napoli, avendo per guardaspalle due partigiani armati fornitigli dal PCI, finisce alla Maddalena, in Sardegna. Qui consegna ai Servizi segreti italiani una lista di «fascisti collaboratori dei tedeschi». E un delatore che farà carriera. Una straordinaria carriera che lo vedrà eleggere anche Presidenti di questa Repubblica.
* * *
Venticinque aprile 1989, 44 anni dalla liberazione. Davanti a me i quattro quotidiani più importanti: "Corriere della Sera", "la Repubblica", "la Stampa", "il Giornale". Non c'è un rigo sul 25 aprile. Ma allora che accadde 44 anni fa? Quello che le povere note, che sopra ho cercato di stendere, vogliano dimostrare, e cioè che in Italia hanno vinto, 44 anni fa, le forze occulte: la mafia e la massoneria. E continuano, su tutta la linea, a vincere.
Territorialmente la mafia amministra già tre regioni: la Sicilia, la Calabria, la Campania. Il resto, come mentalità, come costume, l'Italia è, al tempo stesso, mafiosa e massonica. Perché se la mafia fu istituzionalizzata con lo sbarco alleato del luglio 1943 in Sicilia; la massoneria, con Licio Gelli, protetto al contempo dai lasciapassare del PCI e del Comando alleato, fa il bello e il cattivo tempo. Magari continuando ad esercitare il delatore, che è un mestiere simile a quello del pentito, arti proprie del potere occulto.
Questa Italia appartiene a Licio Gelli. Le sue carte, che conservavano la verità sull'assassinio di Giovanni Gentile, sono espressione di questa Italia. L'interpretano, le danno significanza e spessore. Nulla è cambiato da quel 25 aprile di 44 anni fa.

 

13 maggio 1989
P2: verità dimezzate, indagini affossate


Vi prego di fare attenzione. È di scena il Consiglio Superiore della Magistratura. Può dirsi un Paese «civile» se quel Paese non è in grado di rendere Giustizia?
Toga contro Toga. Su tutto i giudici si spaccano. Lottizzati. Selvaggiamente. L'autonomia della Magistratura? Un privilegio, non uno strumento di servizio per i cittadini. I magistrati Giovanni Palombarini e Franco Ippolito dichiarano: «Confessiamo che in tanti anni di magistratura non abbiamo mai visto tanti episodi e tutti cosi decisamente intollerabili in un unico palazzo di Giustizia, quello del Consiglio Superiore della Magistratura».
* * *
Nel Consiglio Superiore della Magistratura si è visto di peggio. Infatti doveva essere «tutto» mandato a casa quando i Giudici di Milano Giuliano Turone, Guido Viola, Gherardo Colombo, indagando sul falso rapimento di Michele Sindona, via Sicilia, misero le mani il 17 marzo 1981 sulle carte di Lido Gelli, prima nella casa di Villa Wanda e poi nell'Ufficio La Gio-Le di Castel Fibocchi.
* * *
La storia della P2 deve essere ancora scritta. Il Palazzo ha dato la sua versione, ma è una verità dimezzata. Cominciamo per ordine. E domandiamoci i motivi per i quali i Giudici di Milano, dopo avere sequestrato le carte di Gelli, dovettero passare l'inchiesta ai giudici di Brescia, e questi, a loro volta, ai giudici di Roma su decisione della Cassazione. È che nelle carte di Licio Gelli spunta fuori un plico che lascia di stucco gli inquirenti. È intestato: Roberto Calvi, vertenza con la Banca d'Italia. Dentro una ricevuta bancaria dell'Unione Banche Svizzere di Ginevra, con l'indicazione che il 14.10.1980, guarda caso 18 giorni dopo che a Calvi era stato restituito il passaporto, un anonimo conto aperto presso quella Banca, ha ricevuto un accredito di 800 mila dollari. Accanto all'importo il nome di Ugo Zilletti, il Vice -Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.
* * *
Che accade? Dato che ad interessarsi del caso giudiziario, relativo al passaporto tolto e poi restituito a Calvi è stata l'intera Procura del Tribunale di Milano, i giudici Viola, Turone e Colombo, si precipitano dal Procuratore Generale Carlo Marini e gli sottopongono il materiale sequestrato. Marini decide subito: il procedimento non può più rimanere a Milano, il tutto sia passato ai giudici di Brescia, sede competente ad esaminare le eventuali responsabilità dei giudici di Milano. E Marini vola a Roma a informare Pertini, allora Presidente della Repubblica.
Tre giorni dopo (16.4.81) un drappello di militi delle Fiamme Gialle piomba nella sede del Consiglio Superiore della Magistratura e perquisisce l'ufficio di Ugo Zilletti. Nelle stesse ore un'altra perquisizione viene compiuta a Firenze nell'abitazione del Vice presidente del CSM.
* * *
Il lettore si fermi un momento sull'episodio: il Consiglio Superiore della Magistratura, il massimo organo della Giustizia in Italia, subisce la vergogna, senza fiatare, di veder perquisita la sua Sede, l'ufficio del suo Presidente di fatto, il Vice Pertini!
Ma la cosa più sconcertante è che la vicenda, da tutti gli organi di informazione, dai politici, dalle alte autorità dello Stato, viene, se non soffocata, addomesticata fino a sparire, nella vicenda Gelli, come un fatto secondario, ed invece ne era l'asse portante. Così come, correttamente, ha rilevato l'on. Matteoli nella sua «solitaria» relazione di minoranza sulla P2.
* * *
Ma c'è di peggio. Mentre vengono a Milano perquisiti gli Uffici della Procura del Tribunale e le abitazioni dei magistrati interessati alla vicenda del rilascio del passaporto a Calvi, nei cassetti dello stesso Zilletti a Palazzo dei Marescialli, sede del CSM che cosa si trova?
Un dattiloscritto riguardante la vita privata del dott. Mauro Gresti, Procuratore della Repubblica di Milano, della sua moglie, della figlia e perfino della suocera! Il che fa scrivere al dott. Mauro Gresti, in una memoria diretta ai giudici romani subentrati per competenza, che quelle riservate notizie raccolte da Gelli, ad altro non potevano servire che a ricattarlo, qualora si fosse opposto al rilascio del passaporto a Calvi!!!
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C'è di più. Il Vice Pertini, il Vice Presidente del CSM Zilletti non si limita ad attivizzare i Magistrati, di cui lui dovrebbe essere il garante massimo, onde commettano «atti impuri», ma mobilita anche il Governatore della Banca d'Italia, se è vero come è vero che gli Uffici della Commissione di inchiesta sulla P2, in previsione che questa si decidesse ad ascoltare Ugo Zilletti (cosa che poi si guardò bene dal fare!) avevano preparato un capitolato di domande da fare al Vice Presidente del CSM, alcune delle quali suonavano cosi:
a) nel quadro della «problematica» riguardante il rilascio del passaporto a Calvi, fu Lei, o fu il Governatore della Banca d'Italia, a prendere l'iniziativa dell'interessamento?
b) Sapeva che anche il dr. Domenico Pone, allora segretario del CSM, poi inquisito per l'appartenenza alla P2, si era interessato presso il Procuratore Gresti per il rilascio del passaporto a Calvi?
e) Vuole spiegare il prof. Zilletti per quali ragioni, pur dopo il rilascio del passaporto a Calvi e l'avocazione del processo a suo carico da parte del Procuratore Generale, ella non cessò di interessarsi di tale vicenda giudiziaria? È vero -come riferisce il Procuratore Generale dr. Marini ai giudici di Brescia- che lei gli raccomandò telefonicamente di adottare la massima cautela perché il procedimento interessava al Quirinale, affermando che a tale proposito gli aveva telefonato il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, dott. Antonio Maccanico?
d) È vero come dichiara il dott. Marini, Procuratore Generale di Milano, che lei gli raccomandò di non affidare l'istruttoria né al sostituto Urbisci né al sostituto D'Ambrosio? Quali furono le ragioni che la indussero a così pesante interferenza nel corso di un delicato processo penale?
e) È vero che, subito dopo il sequestro avvenuto ad Arezzo a danno di Gelli, lei telefonò al Procuratore della Repubblica del Tribunale di Milano, raccomandando al suo interlocutore la massima discrezione, anche perché la cosa interessava il Quirinale?
* * *
Domande rimaste senza risposta. Insieme alla cancellazione per volontà superiore, dei molti reati che in quei giorni di turbolenza gelliana, furono commessi nel Tempio della Giustizia, il Consiglio Superiore della Magistratura! Così va il mondo. Ed è questo il perché non ci meraviglia affatto che cosa accada oggi in quel Palazzo!
* * *
«Resta sconcertante», scrive il deputato Matteoli nella sua relazione di minoranza sulla P2 (Doc. XXIII, n. 2-bis/3,1984), «che il Presidente della Repubblica e, al tempo, Presidente del CSM, Sandro Pettini, la cui notorietà e popolarità si è materiata in difesa della pubblica moralità in gesti anche al di fuori del protocollo, abbia, in silenzio, acconsentito che il caso Zilletti e soci venisse soffocato attraverso procedure vergognose e, ahimé, sancite dal bollo della Giustizia nei suoi vari gradi.
«L'indagine andava rifatta. Da capo a piedi. Là dove era stata affossata andava ripresa, svolta, spiegata. Era l'occasione che la Commissione di inchiesta sulla P2, per la sua credibilità, doveva raccogliere. Invece no. E si è affossata. Con le sue stesse mani».
Ci pare che basti.
 

20 maggio 1989
Un antisemita alla corte del PCI


Compare nelle liste europee del PCI Maurice Duverger, celebre professore della Sorbona, uno dei più noti costituzionalisti europei, scienziato della politica e autorevole editorialista de "Le Monde", di "El Pais" e del "Corriere della Sera".
Un'ombra nella sua vita: l'aver scritto nel 1941, sotto il governo di Vichy del Maresciallo Petain, durante l'occupazione tedesca della Francia, un testo dal titolo "La situazione dei funzionari dopo la Rivoluzione del 1940" (quella di Vichy - N.d.R.) nella "Revue de droit public e de Science politique". Le pagine 306-319 sono dedicate all'incapacità di accesso degli Ebrei alle cariche pubbliche.
* * *
"la Repubblica" (13.5.89) ci fa sapere che da questa accusa Maurice Duverger che, fra l'altro è consigliere di Mitterrand, ci è sempre uscito bene; anche con verdetti giudiziari, i quali gli hanno riconosciuto di aver scritto un'opera, grazie alla quale gli Ebrei poterono veder attenuate le proprie pene dai provvedimenti razziali emanati dal governo di Vichy, in quanto quella interpretazione del grande costituzionalista ne ridusse il campo di applicazione.
Sarà; resta comunque il fatto significativo che nella stessa Francia l'aver redatto quel Testo ha impedito al «grande» Maurice Duverger di entrare nell'Accademia di Francia e nel Consiglio costituzionale.
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Ma che cosa scrisse, in quel Testo, Maurice Duverger? Orbene, in quel testo sta scritto testualmente che «la misura che colpisce gli Ebrei ha carattere di una misura di pubblica necessità». E, a conclusione del suo lungo argomentare, Duverger si ferma, testuale, «sulle importanti riforme realizzate dopo il giugno 1940 dal governo Petain: espulsione degli Ebrei e dei naturalizzati, rafforzamento della disciplina, epurazione politica attraverso il sollevamento delle funzioni, il nuovo regime delle associazioni».
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Scrive lo storico israelita Zeev Stemhell, professore di Scienze politiche all'Università di Gerusalemme ("Né destra, né sinistra, la nascita dell'ideologia fascista"): «Questo studio analitico scientifico della legge 3 ottobre 1940 dal titolo "Statuto degli Ebrei", lascia incredulo persino il lettore meno intransigente. La trattazione in questo tono neutro di un argomento che cambia profondamente il carattere della comunità francese esige un distacco fuori dal comune nei confronti della realtà di questo periodo. Da parte di un animale politico come Duverger, politologo e giornalista d'assalto, che passerà il resto della vita a dare lezione di morale, un distacco del genere sembra piuttosto costituire una certa legittimazione degli aspetti più sordidi del regime nato dalla "Rivoluzione del 1940"».
* * *
Non si dimentichi, infine, che Duverger viene a scrivere su una rivista il cui direttore, Roger Bonnard, preside della facoltà di Legge dell'Università di Bordeaux, fissa saldamente la linea politica. Infatti, fin dal primo numero, uscito dopo la sconfitta della Francia, sottolinea che essa linea si terrà sì sul terreno scientifico, ma «la sua scienza non dovrà essere neutra. Perché nel momento attuale bisogna prendere posizione e schierarsi. D'altronde, con il nostro Capo, il Maresciallo Petain, la Francia ha ora una guida di una saggezza e di una padronanza di idee incomparabili e quasi sovrumane, che gli impediranno di commettere errori e lo condurranno sul cammino della verità». Il resto, commenta Stemhell, è dei medesimo inchiostro.
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Piero Fassino, responsabile del settore organizzazione del PCI, e che ha coordinato la formazione delle liste comuniste per le europee, afferma che la speculazione sul passato di Maurice Duverger è meschina, che il PCI non ha l'abitudine di fare l'investigatore sul passato delle persone (sic! N.d.R.).
È una bella faccia tosta! Hanno infierito perfino sul capo-fabbricato, sul bidello, sull'ultimo dei lavoratori se, per caso, si fossero schierati con Mussolini (salvando, al contempo, il Maresciallo Badoglio!), e ora, nell'anno di grazia 1989, avendo nelle proprie fila il politologo Duverger che trovò normale che gli Ebrei fossero messi fuori nel 1940 dagli uffici pubblici della Francia, il comunista Fassino ci fa la morale: noi, dice, non siamo usi investigare sul passato delle persone!
E, intanto per cambiare, i comunisti (sia pure molto fievolmente) se la prendono con Craxi perché al Congresso del PSI ha invitato Fini!
Torna la parabola evangelica della trave e della pagliuzza.
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La Francia e il Fascismo. Viene spontanea la domanda: come mai in Francia il Fascismo ha avuto una cultura così ricca, così rigogliosa? Sono sufficienti alcuni nomi: il cattolico del personalismo cristiano Emanuel Mounier, con la prestigiosa testata de "l'Esprit"; il socialista, intellettuale di primo piano, Marcel Deat, discepolo di Leon Blum; l'esponente di rilievo del Partito comunista francese Jacques Doriot; il leader del socialismo belga Henry de Man; Thierry Maulnier, direttore di "Combat", che approderà all'Accademia francese; Bertrand de Jouvenel eroe poi del liberalismo, tutti esaltati, affascinati.
Perché tutto questo rigoglio intellettuale intorno al fascismo degli anni, in particolare, che vanno dal 1930 al 1940?
Come mai un Angelo Tasca, che è fra i fondatori del PCI a Livorno nel 1921, approda nel 1940 alla «Rivoluzione di Vichy» del Maresciallo Petain? Come mai il cattolico Monnier giungeva nel 1940 ad accettare il principio della Rivoluzione nazionale del Maresciallo Petain, in odio non solo a socialisti e comunisti, ma a tutto l'Occidente liberale e democratico?
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Nelle viscere della storia francese si trovano anche queste parole: sono della metà dell'Ottocento.
«Ebrei. Fare un articolo contro questa razza che avvelena tutto, ficcandosi dappertutto senza confondersi mai con nessun popolo. Chiederne l'espulsione dalla Francia, eccettuati gli individui sposati con donne francesi. Togliere di mezzo le sinagoghe, non ammetterli a nessun lavoro, perseguire infine l'abolizione di questo culto. Non per niente i cristiani li hanno chiamati deicidi. L'ebreo è il nemico del genere umano. Bisogna rispedire questa razza in Asia oppure sterminarla» (Dal secondo volume dei "Carnets" di Pierre-Joseph Proudhon, Parigi 1961).
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E ancora Drieu La Rochelle: «Senza dubbio, quando ci si riferisce a questa epoca, ci si rende conto che alcuni elementi dell'atmosfera fascista erano riuniti in Francia verso il 1913, prima che Io fossero altrove. C'erano dei giovani di diverse classi sodali che erano animati dall'amore dell'eroismo e della violenza e che sognavano di combattere ciò che essi chiamavano il male su due fronti: capitalismo e socialismo parlamentare, e di trarre il bene dai due lati. C'erano, credo, a Lione delle persone che si definivano socialisti-monarchici o qualcosa di simile. Già il legame fra nazionalismo e socialismo era progettato. Sì, in Francia, intorno all'Action Francaise ed a Peguy, c'era la nebulosa di una sorta di Fascismo».
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La Francia: culla culturale del Fascismo? E chi l'avrebbe mai detto?

 

27 maggio 1989
Le amnesie dì Craxi


Bettino Craxi, aprendo i lavori, non di questo ma dell'altro Congresso nazionale del PSI (aprile 1987), ebbe a dire: «Sapeva bene Carlo Rosselli che l'errore più grande del PSI, per quanto nato dai moti e dai fermenti risorgimentali, era stato proprio quello di non aver saputo fare i conti, né con il Risorgimento né con la Nazione. Invece di farsi popolo i socialisti si restrinsero sempre più nella classe, rinunciando al patrimonio risorgimentale in cui affondavano le proprie ragioni, dimenticando le parole e gli insegnamenti degli Eroi che avrebbero dovuto essere loro».
* * *
Non ci sono dubbi. L'errore, di cui Craxi parla aprendo i lavori del 44° congresso socialista, è quello del 1914 che vide il PSI schierarsi contro la Nazione, da cui ebbe vita la scissione mussoliniana del novembre 1914, l'eresia nazionale del socialismo, la piazza che ha ragione del Parlamento, la guerra per Trento e Trieste, che non è solo il coronamento del sogno risorgimentale di Mazzini e di Garibaldi, ma è guerra rivoluzionaria. Infatti Mussolini comprende che soltanto una vittoriosa prova bellica ottenuta dal proletariato, proprio nei confronti degli Asburgo che l'avevano per secoli tenuto soggetto e, indirettamente, nei confronti della Curia Romana che, allora, non vedeva certo sfavorevolmente la Casa d'Austria erede della Spagna «cattolicissima» nel gioco delle potenze, avrebbe dato al proletariato italiano quella fiducia nelle proprie forze, che in Italia era sempre mancata a causa delle vicende risorgimentali che, derivate dall'azione di piccole minoranze e coronato da una serie di compromessi, avevano impedito quella grande prova di popolo, vaticinata da Mazzini, la quale sola avrebbe potuto, se non realizzare immediatamente, certo gettare le premesse per una rivoluzione italiana.
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L'analisi di Bettino Crasi è esatta, ma si ferma a metà, perché quell'errore del 1914, che vide il socialismo italiano sconfitto lungo la linea turatiana del «né aderire né sabotare», estraniando così il socialismo dalle vicende nazionali e internazionali («se non siete capaci di fare la guerra contro gli Asburgo "reazionari", buttatevi allora nelle piazze a fare la rivoluzione», disse Mussolini, ma nemmeno questo accadde), fu opera del «riformismo» dei Turati e dei Treves. La loro staticità dottrinaria, il loro attendismo paralizzante, l'indecisione permanente. Il PSI fece la fine dell'asino di Buridano: non sapendo scegliere, per mancanza di determinazione, fra un secchio di avena e uno d'acqua, si privò di tutte e due, e morì d'inedia.
* * *
Bettino Craxi, in questi giorni, durante il 45° Congresso del PSI, ha più volte fatto cenno, rendendole omaggio, ad una donna: Anna Kuliscioff, «la russa dai capelli d'oro». Riformista come Turati, ma è da lei, donna, che nei giorni bui di Caporetto, quando gli attendisti del socialismo imperversavano ancora, che arriva a Turati questa lettera irata e carica di dignità: «Verrà il momento che discuterete tutte le responsabilità della guerra. Ma in questo doloroso frangente, colpita tutta l'Italia dalla sorte avversa, il vostro dovere di socialisti e di Italiani è di combattere per la liberazione del proprio Paese. Tanto e tanto tutte le recriminazioni non solo non giovano né alla guerra né alla pace, ma servono soltanto a sabotare la resistenza al nemico»
(A. Kuliscioff a Turati, 10.XI.1917, Archivio Schiavi).
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Craxi questo non lo ha ricordato. Avrebbe fatto bene a farlo. Per ribadire quel «concetto» che la storia, nelle sue vicende, ha più volte confermato e cioè che il Socialismo è nazionale, o non è.
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Dalla Kuliscioff, Bettino Craxi è passato, parlando delle radici storiche del PSI, a Carla Voltolina, «la compagna di Sandro Pertini che la mattina del 25 aprile, partì da questo vecchio stabilimento dell'Ansaldo, sventolando una bandiera rossa, alla volta di Piazza del Duomo, dove Pertini teneva in quello stesso storico giorno un suo famoso comizio insurrezionale».
* * *
Nella vita di Donna Carla Voltolina (raccontiamo queste cose senza alcuna acrimonia, così come del resto ha fatto Craxi, parlando, con civiltà, delle vicende del 25 aprile 1945) c'è, lei inconsapevole di quei fatti storici perché era una bambina, un'altra celebre partenza: quella per la marcia su Roma, quando, sulle spalle del padre, lo squadrista Nino Voltolina, fondatore del Fascio di Torino, e Lei mascotte della squadra d'azione "Cesare Battisti", si avvia a partire appunto per Roma, il 28 ottobre 1922. Il tutto in una fotografia pubblicata a pagina 281 del libro "Quattro anni di passione" (Enrico Portino, Torino, 1935, Tipografia Silvestrelli e Cappelletti).
* * *
Bettino Craxi, rivolgendosi proprio a noi, ha parlato di pacificazione, un sentimento, ha detto, che non è estraneo a noi socialisti, purché a misura di tutto restino sempre i valori della libertà nella pienezza della loro autenticità e validità.
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D'accordo, ma che quei sentimenti, a 40 anni dalla fine della guerra e della guerra civile, siano accompagnati da quel senso della pietà (intesa come la intendevano i latini, la pietas verso i morti, le memorie, il passato) che si deve nei riguardi di vicende storiche che, appartenenti al Secolo delle «passioni» (il Secolo delle Rivoluzioni), videro gli Italiani «sbudellarsi» a vicenda, onde affermare la propria concezione della vita. In una lotta che fu fratricida, che attraversò città, paesi, famiglie, in un intrecciarsi di episodi impietosi, crudeli e sublimi davanti ai quali, più che andare a vedere chi ha avuto torto e chi ragione, occorre mettersi in ginocchio, religiosamente, onde ricucire la propria storia lacerata, condizione fondamentale per un Popolo, se vuole vivere, affermarsi, esistere.
Lincoln, il Presidente degli Stati Uniti d'America, davanti alla resa del sudista Generale Lee, dopo una guerra fratricida costata 700 mila morti, ebbe a dire: «Le guerre civili si dimenticano e se io potessi ne strapperei le pagine dai libri della Storia».
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Per carità, nessuno vuole strappare quelle pagine. Anzi. Direi che vanno lette, ma con amore infinito. Componendo quell'immenso doloroso calvario nell'amore della Patria.
Per tutto, un episodio. Nel libro di Gaetano Tumiati "Prigionieri nel Texas" (da leggere) è raccontata la storia del di lui fratello «Francino», fascista entusiasta, amico di Mieville, che si imbarca giovanissimo quasi ragazzo e va a combattere in Africa Settentrionale con le Batterie Volanti. È decorato, ferito, rimpatriato.
L'8 settembre è dall'altra parte. E per non rivelare i nomi dei partigiani suoi amici, viene fucilato dalle Camicie Nere il 17 maggio 1944 a Cantiano, vicino Pesaro. Gaetano Tumiati che è, insieme a chi scrive, a Mieville, a De Torto, a Cecchini e altri nel Campo non collaborazionista di Hereford in America, riceve una lettera in cui è detto: «Tuo fratello, il nostro Francino, è morto caduto sotto il fucile dei fascisti».
Un mondo che crolla addosso.
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«Fucilato dai fascisti», scrive Turnisti, «cioè da quelli della mia parte. Sì, anche se non volevo ammetterlo, anche se gridavo no, no, non poteva essere vero, eravamo finiti sui lati opposti della barricata, lui di là, con gli Alleati, con gli Americani, con quelli che non avevano voluto restare nel nostro Campo; io di qua, con quelli della vecchia via: con i tedeschi, con i fascisti, con i prigionieri rimasti ad Hereford, con quelli che lo avevano fucilato.
«Come era stata possibile questa atroce, impensata divisione? Fulmineamente, con la incredibile rapidità di certi sogni, riandavo a tutto l'itinerario percorso insieme — l'Italia, i Littoriali, la partenza per l'Africa, le discussioni al Villaggio Crispi. Niente. La mia strada pareva di una linearità disarmante. Ed allora? Cosa era successo? A quali tragedie aveva assistito? Quale scintilla lo aveva fatto ribellare? ... Non so quanto tempo sono rimasto sotto il sole con quella lettera in mano... Poi, a gran fatica, sono riuscito a muovermi, ho fatto pochi passi, sono arrivato fino alla prima baracca, mi sono accasciato sull'erba, le spalle appoggiate alla parete, e ho cominciato a piangere...
«E ora? Sta per spuntare l'alba di un altro giorno, qui nel Texas. Già alla finestra si intravedono i primi chiarori. Un altro giorno di prigionia in questo Campo di Hereford, riservato ai "non collaboratori". Ci siamo rimasti in pochi ormai. Ogni tanto qualcuno non ce la fa più a resistere e chiede di passare dall'altra parte, dalla tua parte. Tu sai che non posso venirci, Francino. Esperienze diverse dalle tue mi hanno portato qui e qui debbo resistere. L'unico modo per essere degno di te è resistere fino in fondo tra questi reticolati. Mi capisci, vero, Francino?».
* * *
Così Gaetano Tumiati. La mia parte, la tua parte. I fucili che crepitano. Bisogna comprende tutto ciò. Bisogna aver la forza e la capacità di mettersi, in ginocchio, davanti a questa Italia, che non è stata alla finestra. E pregare. Solo così la pace sarà. Fra Italiani.
 

3 giugno 1989
Il sistema di potere DC


Non riuscivo a stabilire di che tipo fosse la solidarietà subito dimostrata dal Ministro dell'Interno Antonio Gava a Ciriaco De Mita, appena questi si è dimesso da Presidente del Consiglio dei ministri. Perché, mi sono chiesto, se al Congresso DC, proprio Antonio Gava è stato uno dei promotori perché De Mita lasciasse la carica di Segretario della DC?
Poi mi sono ricordato. E una solidarietà che nasce dal fatto che anche Gava, e la sua famiglia, è stato anni fa, come Ciriaco De Mita, definito, in pubblico, padrino, anzi «superpadrino». Qualifica che, a proposito dell'immagine, è costata cara a De Mita, anche se la sua querela nei confronti di Montanelli, formalmente, è andata a buon fine.
* * *
7 ottobre 1973: il "Corriere della Sera", a firma di Leonardo Vergani, titola: «Il super-padrino di Napoli». Nell'obiettivo: Antonio Gava, figlio allora del Ministro DC Silvio Gava, doroteo potentissimo.
Nessuna querela da parte di Antonio Gava. Solo che, anziché Antonio, è Silvio Gava a fornire al "Corriere della Sera" alcune precisazioni e che il quotidiano di Milano così titola: «La polemica sul superpadrino, una lettera del Ministro Silvio Gava».
Non finisce qui. Il "Corriere" replica (13 ottobre 1973) e titola: «La polemica sul superpadrino di Napoli, risposta al Ministro Gava».
Leonardo Vergani, fra l'altro, scrive: «Scrivo sul figlio Antonio, e risponde il Padre Silvio Gava, paternamente preoccupato di quanto sta succedendo a Napoli. Così ha fatto anche con Andrea Barbato de "la Stampa"... Insomma replica sempre lui, come se avesse detto al figlio: sta buono, a questi ci penso io. Antonio obbedisce e tace».
E, aggiungo io, si prende del «padrino». Senza fiatare.
* * *
La cosa dilaga. "il Messaggero": «Antonio Gava l'uomo del potere DC a Napoli. Parla il superpadrino: la mia forza è il partito».
"l'Espresso", a tutta pagina (21.X.73): «Il Padrino e i suoi padroni».
Quindi, per riassumere, quello che Montanelli, da solo, ha scritto nei riguardi di Ciriaco De Mita, è nulla in confronto a ciò che la stampa nazionale scrisse, 16 anni fa, di Antonio Gava, il «padrino». Ed ecco spiegata la solidarietà che si è stabilita fra Gava e De Mita, quando quest'ultimo ha dovuto abbandonare la scena... Quella parola: «Padrino»...
Domanderete perché, davanti ad una crisi di governo che sarà una fra le più difficili, mi vada... perdendo dietro il «padrino» Gava. Che senso ha? Un senso c'è, cari amici, ed è che quel governo che è caduto aveva, non per caso, come Ministro dell'Interno, Antonio Gava, il padrino... Come può -ecco la domanda di fondo- un «sistema di governo» selezionare un Gava, portandolo in cima alla piramide dello Stato, un uomo universalmente riconosciuto «padrino», senza essere detto «sistema» marcio nei suoi meccanismi?
Le colpe non sono di Gava, ma del sistema di potere DC che Gava esprime. E il sistema di potere DC che designa al settore più delicato della manovra governativa, quello dell'ordine pubblico, e nel momento in cui tre regioni italiane, fra le più popolate, la Sicilia, la Calabria e la Campania, non sono più controllate dallo Stato, Antonio Gava, doroteo. Il territorio di quelle tre regioni è in mano della criminalità organizzata. Ebbene a sovrintendere all'ordine pubblico ci va, per volontà DC, un uomo che è immerso fino al collo in quella foresta di faide in cui camorra, servizi segreti, terrorismo (parlo del caso Cirillo) si mescolano in un viluppo di circostanze incredibili e di significato terribile.

* * *
E nel bel mezzo di questa storia, il Ministro dell'Interno che lancia la sua proposta di coinvolgere nell'azione di governo contro la mafia il PCI, così come si è fatto, precisa, con il terrorismo. L'idea può apparire percorribile se non fosse in Gava strumentale. È che il Ministro dell'Interno, in difficoltà sul caso Cirillo, con questa proposta, altro non mira che ad ingraziarsi il PCI. Non pensa allo Stato, all'interesse generale, pensa a se stesso, alle sue vicende personali, ai suoi affari. Che vada pure allo sfascio lo Stato, ma si salvi la dinastia Gava!
* * *
Una testimonianza. E di un Ministro in carica, Paolo Cirino Pomicino, vicino ad Andreotti, risale all'aprile 1982, cioè proprio nel caldo della vicenda Cirillo. Intervistato da Massimo Caprara del settimanale "Pagina", Paolo Cirino Pomicino dice: «Gli sviluppi dell'ultimo periodo a Napoli, presentano un dato di continuità: quello del rapporto tra il gruppo doroteo della DC ed amministratori comunali del PCI. Per essere più precisi, tra Andrea Geremicca, deputato ed assessore di punta comunista e Raffaele Russo, gaviano, precisa Pomicino. La gestione dei 20 mila alloggi da costruire e distribuire in base alla legge Andreatta è stata manipolata (sic! N.d.R.) nel quadro di un cosiddetto comitato politico che è la sede della spartizione fra PCI e dorotei. Una volta, quando, inopinatamente per loro, mi presentai ad una riunione di quell'organismo, accadde che da parte comunista si telefonasse alla DC per chiedere ragguagli e sconsigliare la mia presenza scomoda. Tutte le scelte urbanistiche con questi insediamenti sono state giocate all'interno di una combinazione, all'esterno conflittuale, in concreto convergente. II terreno? La legge numero 219 del maggio dell'81. In pratica questo binomio imperfetto fra certa DC e certo PCI ha cominciato con il distribuire 40 miliardi di lavori a consorzi di imprese private ...».
Cosa significano, in termini concreti, queste parole di Paolo Cirino Pomicino, non ultimo arrivato, ma Ministro in carica?
Presto detto. Che i fondi per i terremotati, soldi nostri, soldi di tutti, la DC e il PCI, o meglio una certa DC (quella di Gava) e un certo PCI (quello di Geremicca), se li giocano fra loro in Comitati speciali e fasulli; cioè con una cultura partitocratica tutta mafiosa, con metodi partitocratici tutti mafiosi, con risultati partitocratici tutti mafiosi. Forse è davvero impossibile immaginare a quali imprese quei miliardi sono finiti? E quelle imprese come potranno ricambiare? Ringraziando solamente? Ma come si fa a pensarlo appena si rifletta che oggi, per tentare di essere «eletti» non bastano, come partenza, 800 milioni o giù di lì?
* * *
Altra domanda: attraverso questo sistema vengono davvero eletti gli uomini migliori?
Non certo. Ma se è cosi, e così è, il sistema di governo che abbiamo, non è lui stesso generatore primo di malavita, non è il terreno ideale perché la mafia viva e prosperi?
La domanda ora la pone Giorgio Bocca ("l'Espresso", 15.1.89): come può un politico nato e cresciuto in una società mafiosa, che si è fatto strada negoziando voti e finanziamenti con la dominante economia mafiosa, che è imbevuto di riflessi condizionati malavitosi, diventare un uomo di governo, adatto all'Italia legale e europea?
Se i politici utilizzano i soldi di tutti per fare della malavita organizzata il loro apparato elettorale, in che mani siamo finiti?
 

10 giugno 1989
Un'altra Italia


Spigolature, curiosità, sempre di costume. Piero Ottone ("Epoca", 16.4) racconta, come inviato del "Camere della Sera", il suo incontro a Mosca con Nikita Krusciov.
«Lei è italiano», mi disse Krusciov, «ho visto gli Italiani durante la guerra in Ucraina, brava gente, non avevano nessuna voglia di combattere e si lasciavano prendere prigionieri, erano veramente bravi figlioli!».
* * *
L'on. Giuseppe Codacci Pisanelli, democristiano, professore universitario, Rettore di Università, più volte ministro, incontra Nikita Krusciov il 3 novembre 1961 al Cremlino, in qualità di presidente dell'Unione Interparlamentare. «Mi ha guardato», scrive Codacci Pisanelli ("Concretezza", quindicinale diretto da Giulio Andreotti, 16 novembre 1961, n. 22, pagina 5), «e con uno strano sorriso mi ha detto: "Voi Italiani non siete cattivi. Ho combattuto contro gli Italiani nel bacino del Donetz ed avevo di fronte proprio le Camicie Nere, che ritenevo i più malvagi fra gli Italiani. Avevano combattuto bene e pensavo che fossero accaniti contro di noi. Dopo avere interrogato numerosi prigionieri ho dovuto constatare invece che non avevano odio nei nostri riguardi"».
E Codacci Pisanelli aggiunge: «Ho voluto che la notizia di simile riconoscimento fosse resa nota attraverso la rivista del ministro della Difesa (quello del tempo: Giulio Andreotti - N.d.R.), al quale spetta, fra gli altri compiti, quello di tutelare il buon nome dei combattenti italiani, divulgando le testimonianze a loro favore, specialmente quando provengano da fonti non sospette!».
* * *
Su Piero Ottone questo giudizio di Indro Montanelli: «Quali siano le opinioni di Piero Ottone non si è mai capito: qualcuno dubita che ne abbia... E un consumato trapezista. E un animale a sangue freddo, anzi gelido, il cui self control si distingue male dalla simulazione. Mai abbiamo visto in lui uno slancio, un guizzo, un palpito, nemmeno uno scatto d'umore... Nella politica di corridoio, nell'arte di navigare in acque torbide -quelle chiare non gli si addicono- è da ammirare. Ma solo in questo» ("il Giornale", 23.10.1977).
Pace all'anima sua.
* * *
Nel cimitero americano di Nettuno, davanti alle file silenziose di lapidi bianche, George Bush ha ricordato che la NATO venne creata «quando era fresca in mente la memoria dei sacrifici di soldati americani, inglesi e francesi caduti durante la campagna per liberare l'Italia, e i sacrifici di milioni di altri Europei e Americani, caduti per la causa della libertà».
Un monito, dunque, quello di Bush, rivolto a quegli Europei che, nel momento attuale, vorrebbero, nei riguardi della Russia sovietica, abbassare la guardia militare, con ciò mettendo in pericolo la libertà e la democrazia. La risposta, ha detto Bush, è qui, «nel silenzio di queste tombe».
* * *
Fermiamoci un attimo. La memoria ci suggerisce che, nel momento in cui migliaia di Americani, Inglesi, Francesi cadevano, più di 40 anni fa, in difesa della libertà e della democrazia, avevano al loro fianco le Armate sovietiche che, alla causa della libertà e della democrazia esaltate dal Presidente americano, contribuivano con venti milioni di morti.
La commemorazione di Nettuno ha un senso se il sacrificio di Americani, Inglesi e Francesi, si accompagna nel ricordo al sacrificio dei soldati sovietici. Se così non è, anzi se quella «commemorazione» assume, come assume, un significato anti-sovietico, non ha più senso. Infatti è Bush stesso a ricordare agli Europei immemori che c'è da difendere quella «libertà» e quella «democrazia» che gli Americani, improvvidamente, ci portarono, insieme ai Russi, 40 anni e più fa. Come esaltare una guerra «liberatrice» se, alla sua fine, gli alleati di un tempo, vincitori contro l'Europa, si dividono e si affrontano a suon di cannoni, aerei, carri armati, missili e testate nucleari?
* * *
A Nettuno e ad Anzio, in difesa di Roma, caddero, davanti ad Americani, Inglesi, Francesi, Marocchini e Senegalesi (che ci portavano la democrazia e la libertà), ragazzi italiani del Folgore, del Nembo, dell'Azzurro, del Barbarigo. In nome anche di una idea-bandiera, quella antibolscevica, che l'Italia, negli anni Venti, aveva innalzato per prima nel mondo, quando i liberaldemocratici se la intendevano con Beppino Stalin.
Oh! quanto sarebbe stato fiero e virile, e pieno di significato, se George Bush, nel momento in cui rendeva il dovuto omaggio alle croci bianche dei Caduti americani, avesse portato un fiore a quelle altre tombe, ai ragazzi caduti dall'altra patte, ai ragazzi del Folgore e del Barbarigo!
* * *
Al fronte di Nettuno è legato un episodio particolare, di penetrante significanza, quasi ignoto. Ce lo racconta Giovanni Dolfin nel libro "Con Mussolini nella tragedia. Diario del capo della Segreteria particolare del Duce 1943-1944", ed. Garzanti.
Si tratta del maggiore dei paracadutisti Rizzatti. Questo valoroso ufficiale, volontario di guerra più volte, comandante a Nettuno del Battaglione "Nembo", scrive dal fronte una lettera ad una ragazza del Friuli. In essa è detto, fra l'altro, che «combatte per l'onore della Bandiera e della Patria e non certo per il governo di Salò»; ha parole feroci contro il fascismo, i suoi uomini, lo stesso Mussolini.
La lettera è censurata e perviene a Mussolini. Questi chiede a Kesselring, da cui il Battaglione "Nembo" dipende, di inviargli il Rizzati perché gli vuole parlare.
* * *
Rizzatti giunge a Gargnano, dopo un viaggio fortunoso, accompagnato da un gruppo di ufficiali. Dolfin gli contesta la lettera. Imperturbabile, scrive Dolfin, prese il foglio, lo rilesse, e con la massima tranquillità, disse: «Questo scritto è mio. Non ho nulla da ritoccare. Se ho compiuto un reato, per aver manifestato quello che penso, sono qui per scontarlo. Non ritratto una virgola». E specificò: «Il mio battaglione combatte da anni. I morti sono assai più numerosi dei vivi, e i vivi continuano a morire. Siamo nel fango, privi di tutto. Spariamo perché non vogliamo che nessuno abbia il diritto di dire che gli Italiani sono vigliacchi. Conosciamo solo l'Italia e credo che questo possa bastare!».
* * *
Mussolini non lo ricevette. Pretese una lettera di scuse che il Rizzatti rifiutò di scrivere nei termini richiesti. «Questo Rizzatti cocciuto, testardo, è un Italiano! Uno di quegli Italiani che sanno ancora scrivere storia! Assicuri il maggiore che il suo battaglione avrà d'ora innanzi tutto quello che necessita. Dica a lui e ai suoi ufficiali che li considero i primi Italiani».
Rizzatti: «Riferisca a Mussolini che noi continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto, cioè il nostro dovere!».
Rizzatti torna a Nettuno. Per morire alla testa del suo battaglione. Alla sua memoria la Medaglia d'Oro al V.M.
Così moriva a Nettuno contro gli Americani un non-fascista.
In Italia non ci sono solo i Piero Ottone.

 

17 giugno 1989
Occhetto, sedotto e abbandonato


Caro Occhetto, che effetto le fa essere «linciato» da quegli stessi personaggi che, pochi giorni fa, come Forlani, tenevano a far notare la propria presenza al Congresso del PCI dove si discuteva di comunismo dal volto umano?
Che effetto le fa constatare la fuga degli Agnelli, dei De Benedetti, dei Pesenti, dei Cardini, di quel capitalismo italiano che appena «ieri» si era precipitato a fare «affari» con la Cina di Deng e la Russia di Gorbaciov?
Che effetto le fa «ricordare» che le liberal-democrazie dell'Occidente che, senza Stalin, non avrebbero certo vinto la guerra, rimasero immobili quando Mussolini, per aver anticipato fin dal 1918 quello che sarebbe stato il comunismo, venne appeso ai ganci di Piazzale Loreto?
Ricorda? Anche il Cardinale Schuster fu della partita e applaudì i liberatori sovietici, portatori di una dottrina che, secondo il cattolico De Gasperi, equiparava Marx a Cristo.
Ora gli si rivoltano tutti contro, caro Occhetto. È facile «picchiare» nella disgrazia. Anche noi siamo passati da quella esperienza, ma senza rinnegare. Lei prende botte e rinnega. È brutto, caro Occhetto, rimanere a terra. Senza più bandiere, senza memoria, senza storia. Noi la nostra Storia ce la siamo tenuta. E non ci da torto nel 2000, tanto che possiamo dire a chi le fa oggi la morale e che ieri fu alleato del comunismo, che ci fa altrettanto pena (e un tantino schifo).
* * *
Ma non è di questo che volevo oggi parlare con Occhetto, ma della sua recente affermazione: «Su questo voto amministrativo c'è il segno di clientele e di malavita» ("l'Unità", 31.V).
Non posso dargli torto, è così. Il sistema è malavitoso, ma non solo a Palermo, anche a Torino, che ha più cosche di Bagheria.
Ma può, ecco il punto, caro Occhetto, il PCI fare una simile denuncia? Può farla il suo Segretario che, a lungo. ha governato, per conto del PCI, la Sicilia come proconsole regionale e proprio nel periodo (gli Anni '70) in cui il PCI tesseva la sua politica di compromesso storico con il partito che della malavita siciliana era, ed è, il più imbevuto?
Possibile, caro Occhetto, che lei dimentichi quanto ha scritto Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale assassinato, iscritto al PCI, e da questi portato in processione, come un Santo, tutte le volte che, in Sicilia o altrove, c'è in discussione l'argomento mafia?
Su "la Repubblica" del 19.XII.1982, sotto il titolo «Pax mafiosa», Nando Dalla Chiesa pone una riflessione e due interrogativi. La riflessione è questa: «La mafia, è bene ricordarlo, diventa più potente nel decennio (è il decennio in cui Occhetto regge a Palermo le sorti del PCI - N.d.R.) in cui cresce, e non di poco, la sinistra». Gli interrogativi sono questi: «Quali sono i princìpi che regolano tattiche, strategie, formule, e soprattutto alleanze della sinistra in quel periodo? Forse le leggi della politica che essa sinistra pratica sono le stesse leggi in cui può navigare il potere mafioso?».
«Il fatto è», scrive Nando Dalla Chiesa, «che è cresciuta la compenetrazione della mafia col potere e per questo si possono colpire le Istituzioni. Non ci sono cadaveri eccellenti senza assassini eccellenti. Se ciò è vero, ed è vero, che il salto qualitativo si realizza nel decennio, c'è a sinistra un approccio del potere alla politica che va criticato impietosamente. Senza di che -conclude Nando Dalla Chiesa- la denuncia delle responsabilità democristiane resterà sacrosanta quanto inefficace».
Caro Segretario del PCI, Nando Dalla Chiesa ha ragione da vendere, anche perché la critica «all'approccio del potere del PCI», con metodi in cui la malavita mafiosa può tranquillamente navigare, il PCI l'ha fatta, un anno dopo, nel marzo-aprile del 1983, quando lo stesso PCI venne duramente colpito nella sua immagine di partito dalle mani pulite, con lo scandalo delle tangenti di Torino, dove al governo di quella città c'era proprio il PCI, e con uno dei suoi uomini più prestigiosi, Diego Novelli.
* * *
Caro Occhetto, si faccia portare, la prego, i verbali del Comitato centrale del PCI che si svolse nei giorni 7-8-9 aprile 1983, proprio sul tema dello scandalo di Torino. Non trovo tracce di un suo intervento in quella occasione, ma ho conservato, fra le mie carte, quelli di Diego Novelli e di Piero Fassino, quest'ultimo allora segretario della Federazione comunista di Torino, e quello della Nilde lotti che ai due, che avevano messo le carte in tavola sullo scandalo con rigore fermo (non è un incidente di percorso, disse Novelli, la colpa è del «sistema» che va tutto emendato), rispose, filosoficamente distaccata, «che quando si governa bisogna essere pronti a portare la gloria ma anche la Croce, altrimenti si va ad un arroccamento che precluderebbe ogni capacità di azione e di presenza politica»; il che, in parole povere, voleva significare che, agguantato il potere, si deve stare anche con i ladri e i furfanti, perché «con la morale» non si reggono i Comuni, tantomeno gli Stati.
Se lo ricorda, onorevole Segretario, quel dibattito presieduto da Enrico Berlinguer? È importante che se lo rilegga tutto. Perché la crisi di identità del PCI comincia proprio da quei giorni quando gli Italiani appresero che anche il PCI aveva le mani non pulite, cioè «era un partito eguale agli altri».
* * *
«Non basta punire i colpevoli, occorre rifondare tutto se si vuole uscire dalla corruzione alleata della politica».
Queste parole sono risuonate, vivo Berlinguer, sei anni fa nella massima assise del PCI, al suo più vivo fulgore elettorale.
Rifondare tutto, caro Occhetto, non c'è altro da fare. Ha ragione Diego Novelli. Noi lo diciamo da tempo. Le denunce sul tipo «quelli sono voti malavitosi» non servono, se poi si è i più tenaci difensori di questa Costituzione i cui perversi meccanismi ci regalano inefficienza, impotenza, corruzione e criminalità.
* * *
E, per ultimo, caro Occhetto, si faccia consegnare la dichiarazione di voto con la quale l'on. Alberto Malagugini, poi Giudice costituzionale, accompagnò la relazione di minoranza del PCI contro la mafia, primo firmatario Pio La Torre, il 15 gennaio 1976. La vogliamo leggere insieme nel suo interrogativo di fondo? Eccola: «La Commissione antimafia doveva offrire una risposta alla seguente domanda: come mai la riconquista della libertà e della democrazia nel nostro Paese ha consentito, e secondo taluni giudizi agevolato, la rinascita dell'attività palese della mafia? Come, perché, ad opera di quali forze politiche e sociali è stato possibile un fatto di questo genere?».
* * *
Già, perché onorevole Occhetto?.
Sui muri un manifesto elettorale per le Elezioni europee. E firmato dal Comitato delle Vittime della mafia. Dice:

Gennaio 1983 - Settembre 1988
3.534 morti di mafia
La guerra italiana continua

 

24 giugno 1989


«Riabilitati 93.000 ungheresi arrestati negli anni dello stalinismo»

"l’Unità", 7.6.1989

Loro, i vivi


Correva l'anno 1952, mese di novembre. "l'Unità" invia a Praga, per assistere al processo contro Rudolf Slansky, segretario generale del partito comunista, e i suoi complici, tutti accusati di tradimento (per cui saranno condannati alla impiccagione), il senatore Ottavio Pastore, il quale inizia così la propria corrispondenza:
«Quattordici imputati: dirigenti del Partito comunista e della Repubblica cecoslovacca, uomini i cui nomi avevamo sentito risuonare nelle lotte politiche, proletarie e nelle battaglie per la liberazione dei popoli dalla barbarie hitleriana. Oggi udiamo testimoni che ne denunciano i delitti, sentiamo leggere documenti di ogni genere che li annientano, udiamo loro stessi confessare complotti, accordi con gli imperialisti anglo-americani, atti di spionaggio e di sabotaggio contro il loro Paese, preparativi di assassinio. Ancora una volta si pone la domanda angosciosa: come è stato possibile?».
* * *
L'inviato speciale de "l'Unità" non si ferma a queste considerazioni; va oltre. Le sue corrispondenze trasudano sdegno. Come quella del 28 novembre 1952 quando, condannati a morte Slansky e compagni, fra il plauso delle mogli e dei figli dei condannati alla impiccagione, tratta da «gesuiti» coloro che, in Italia, davanti a queste mostruosità, muovono obiezioni. «La madre che incita i figli ad odiare il padre, hanno esclamato questi gesuiti», scrive il senatore (appoggiato, fra l'altro, dall'altro inviato, il deputato Sergio Segre), «tragica situazione, certo, quella di tante famiglie, il cui capo si rivela indegno anche di essere padre, ma nobile condotta quella della compagna Josefa che dice l'angosciosa verità ai suoi figli e, attraverso la forza del dolore, vuole farne uomini onesti e combattenti per la grande causa tradita dal padre».
* * *
Siamo arrivati anche a questo: l'esaltazione, da parte de «l'Unità», per la penna di un senatore (Ottavio Pastore) e di un deputato (Sergio Segre, quest'ultimo ancora in servizio) del comportamento della consorte di Slansky (la Iotti cecoslovacca) che, «eroina popolare», davanti al marito condannato all'impiccagione, incita i figli a odiare il padre che sta per salire il patibolo, e a ritenere giusta la condanna a morte del proprio genitore!!!
Lo stalinismo è arrivato a questo. Ed è arrivato, checché ne dica Achille Occhetto, anche nel sangue del comunismo italiano!
* * *
Io non so se nel 1952 il senatore Pastore avesse dei figli, so però che Togliatti, Paietta, Ingrao, che con tanta convinzione plaudivano allora all'atteggiamento delle virago ceche e dei loro ragazzi, avevano figli. Ed erano, allora, nelle medesime «posizioni» in cui si trovavano gli Slansky ed i Clementis, mandati a morte.
La domanda è d'obbligo: che sarebbe accaduto se il regime che ... allietava ed allieta la Cecoslovacchia e altri Paesi, fosse giunto anche in Italia? Che ne sarebbe stato di tutti loro?
E non si dica che se a Togliatti e compagni ciò che capitò a Slansky non accadde, lo si deve esclusivamente alla vittoria degli americani. Questi ultimi alleati del comunismo fin dai tempi remoti, quando tifavano per la Spagna rossa, il comunismo lo hanno portato fin nel cuore dell'Europa, e senza Stalin la 2ª guerra mondiale non l'avrebbero certo vinta!
* * *
In sostanza, se nel 1922 non fosse salito al potere l'odiatissimo Mussolini, con ogni probabilità, i bolscevichi nostrani, prima o poi, avrebbero sovvertito le forze in campo e sarebbero arrivati alla conquista del potere. In questo campo quanti Togliatti, Terracini, Secchia, Longo, Paietta, sarebbero sopravvissuti alle purghe che eliminarono i Rajk, i Kostov, i Bela Kun e poi tutti gli altri fino ad arrivare agli Slansky, ai Clementis, ai Nagy?
* * *
E se il comunismo nel 1922 avesse trionfato in Italia, quali sarebbero stati i termini del dibattito? Chi avrebbe riabilitato la memoria di Togliatti? Forse Terracini? O sarebbe accaduto l'inverso? A chi sarebbe spettata l'autocritica post-mortem di Paietta e Amendola, riesumati come «degni» dopo essere stati impiccati come spie, traditori, sabotatori, fascisti?
E pensare che sono stati davvero sull'orlo della conquista del potere, e se non vi fosse stato l'Uomo della Provvidenza, vi sarebbero riusciti, ma quanti di loro sarebbero sopravvissuti?
* * *
E loro, ingrati, se la prendono ancora con i «fascisti» che li hanno tutti salvati! È vero: non è tanto l'offesa delle insolenze che ci buttano addosso che addolora, quanto l'ingratitudine!
Occhetto ha ricordato alla TV che i primi comunisti che suo padre gli fece conoscere «venivano dalle prigioni e dal confino fascista». Questi per me, ha detto, sono i comunisti italiani!
Sì, è senz'altro così, è commovente; ma se quei comunisti, che si battevano contro il fascismo, avessero vinto, e nel 1922, e nel 1946, e nel 1948, che ne sarebbe oggi di Occhetto? Il nostro Alberto Giovannini era solito dire che, fra le tante opere buone che abbiamo compiute nella nostra esistenza, quella dell'anticomunismo è certamente la più lunga, se non la più difficile, ma è quella che è stata coronata da maggior successo.
Fateci caso: ci hanno insolentito (e continuano) e ghettizzato per oltre 40 anni. Eppure Togliatti, Longo, Secchia, Terracini, Amendola sono morti, tranquilli, nei loro letti. Non hanno avuto la sorte di avere come i Rajk, i Kostov, i Bela Kun, i Nagy, i «conforti democratici» dopo morti (impiccati o fucilati).
* * *
E quelli, ingrati, se la sono presa, e se la prendono ancora con noi «fascisti» che li abbiamo preservati a miglior vita, consentendo loro di vivere agiatamente e con la medaglietta parlamentare, salvandoli dagli Stalin e dai Deng!
* * *
La vita è davvero... complessa. Nessuno ha riflettuto che le pallottole che assassinarono, sul Lago di Como, Mussolini, sono state fuse nel piombo dei «princìpi» del comunismo, alleato delle liberal-democrazie d'Occidente. E che quel medesimo piombo, dopo essere stato adoperato in abbondanza nel 1956 in Ungheria, ha fatto la sua comparsa in questi giorni su una celebre Piazza, quella della Pace Celeste. A Pechino.

 

1 luglio 1989
L'Europa degli affari loro


Alcune riflessioni sul voto europeo. Ascoltiamo che cosa pensano dell'Europa alcuni uomini politici di vertice, già deputati europei, e alcuni che si accingono ad esserlo di nuovo.
* * *
Giancarlo Paietta, già deputato europeo del PCI, per tutta la passata legislatura durata cinque anni, è andato a Strasburgo solo due volte. Dichiara: «Il Parlamento europeo non ha poteri, persino nell'eliminazione del piombo dalla benzina si limita ad emettere raccomandazioni. Non conta nulla e noi come deputati non contiamo nulla».
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Alberto Michelini, già deputato europeo della DC, rieletto ora, dice: «È colpa dei partiti se il Parlamento europeo si è trasformato in un cimitero degli elefanti. Pur di prendere voti alle elezioni sono disposti a mandare chiunque, usando specchietti per allodole come Moravia, Strehler, o anche come il sottoscritto».
Ma allora se è così, perché ci torna? È uno specchietto per allodole?
* * *
Castellina Luciana, deputato europeo del PCI, rieletta ora, è lapidaria: «Questo Parlamento europeo non serve a nulla». Ma, allora, perché anche lei ci ritorna?
* * *
Carlo Casini, deputato europeo per la DC, torna a Strasburgo. Cosa ne pensa? Ecco: «Quello di Parlamento europeo è un nome usurpato, visto che a Strasburgo non si fanno leggi, ma solo discussioni. Spesso si ha l'impressione che si tratti più che altro di un prestigioso luogo espositivo: mostre, degustazioni di vini e grappe, gruppi folcloristici, parlamentari che vengono solo per mettere la firma al verbale e poi fanno del turismo politico».
Anche Casini, malgrado queste dichiarazioni, torna a Strasburgo. A cosa fare? A mettere la firma e ad intascare più di venti milioni al mese? Mamma mia, che fatica!
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Di Bartolomei Mario, già deputato europeo per il PRI, ora trombato, afferma: «La colpa è dei partiti che inseriscono in lista vecchi tromboni».
Ma lui come si considera? Un trombino?
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«Un grande Circo Barnum», così l'onorevole Margherita Boniver del PSI.
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«Il patto tacito che si stabilisce tra il Parlamento europeo e il singolo parlamentare è il seguente: tu ti diverti, viaggi, giri il mondo, e in cambio non conti nulla».
Così Giovanni Negri, eurodeputato del Partito radicale, ora risultato trombato nelle liste del PSDI. Ahimè per lui, non torna a divertirsi!
* * *
Queste opinioni, gli interessati si sono ben guardati dal ribadirle durante la campagna elettorale europea. Hanno parlato d'altro, e hanno chiesto voti per sé. Come definirli? Pensateci voi, cari lettori. Quello che meraviglia è che, 88 italiani su 100, siano stati al gioco (al gioco loro) e per questi «sfaticati signori della politica» abbiamo sacrificato una bella giornata al mare per andare a votarli.
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Si sono, fra l'altro, lamentati: «Poco o niente si è parlato di Europa. E una vergogna», hanno sentenziato.
La vergogna vera era parlarne.
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Innanzi tutto questa domanda: se gli onorevoli Goria e Formigoni hanno speso cinque miliardi a testa per farsi eleggere, diconsi cinque miliardi ("il Giornale", 18.VI), quale è il costo complessivo per eleggere a Strasburgo 81 deputati? E di dove viene questo fiume di denaro? Chi è che paga? Perché, se c'è qualcuno che paga, quale è il corrispettivo che l'eletto deve dare? A chi sborsa i quattrini? Se non è così, sono soldi che il deputato si leva dalla tasca sua? Cioè vi sono personaggi che, tranquillamente, dal proprio patrimonio possono distogliere cinque miliardi per andare a divertirsi a Strasburgo?
Indubbiamente tutto denaro pulito, non ci sono dubbi, ma non potrebbero questi «fortunati miliardari» dirci come hanno fatto a fare tanti quattrini con la politica? Perché non dare anche al povero elettore la ricetta per diventare plurimiliardari?
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«Ha fondi inesauribili, dicono in Piemonte. Ora Goria, che di elicotteri per spostarsi ne ha addirittura due, per annullare il rischio di guasti, passa a raccogliere i frutti del seminato, se fin dal gennaio 1988 ha battuto la penisola presentando a tutte le categorie produttive un suo personalissimo programma Europa '92 che assomiglia ad una Enciclopedia, tanto è onnicomprensivo ...». (Dal quotidiano "il Giornale" del 18-VI)
* * *
E Martinazzoli Mino, presidente del Gruppo parlamentare DC, non è da meno se, da capolista nel Collegio Nord-Ovest, per coprire le spese ridotte all'osso (materiale propagandistico, inserzioni pubblicitarie su cinque quotidiani e sui pochi periodici a larga tiratura), come ci attesta "il Giornale", spende due miliardi e mezzo, «come soglia minima», tende a specificare il quotidiano di Montanelli.
* * *
Una valanga di quattrini per andare, dopo tutto, in un Parlamento dove i singoli deputati, a detta loro, non contano nulla. Ma allora perché questo giro vorticoso di miliardi? Per caso, fra i deputati europei che non contano nulla, ve ne è qualcuno che conta di più al punto che per arrivare alla meta ci investe cinque miliardi? A quale fine? Solo per divertirsi? O c'è uno scopo recondito e che non viene raccontato?
* * *
Sono interrogativi pesanti, pesantissimi, e che pongono l'inquietante riflessione: essere questa Europa niente altro che un'Europa degli Affari Loro, visto che l'Europa della partecipazione popolare, della informazione, dell'ecologia, della solidarietà, delle memorie storiche non esiste, non c'è, e non ci sarà mai fino a quando a decidere dell'Europa sarà il Dio quattrino.
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Io non ho nessuna remora a dichiarare che, viste le cose come sono, ho messo, per quanto riguardava il cosiddetto Referendum propositivo per l'Europa, il segno «no» sulla scheda. Vado a far parte di quei quattro milioni di italiani che, contro 29 milioni di altrettanti italiani, hanno scritto no. E la domanda sulla scheda, non ci sono dubbi, l'ho letta bene.
Questa Europa, perdonatemi, mi fa un tantino schifo.
È grassa, falsa, bolsa, bugiarda, ingiusta. Forte con i deboli, debole con i forti. Non ha sangue nelle vene, ma soldi e trippa pronunciata. Si va in questa Europa ad una condizione: che si facciano gli Affari Loro. Coloro che ci arrivano senza il viatico degli Affari Loro, non contano nulla. Si divertono. A nostre spese. Con venti e più milioni al mese.
* * *
Questa riflessione è di Giorgio Bocca ("l'Espresso", 15-1-89): «Come può un politico, nato e cresciuto in una società mafiosa (e per questo Torino non è meno palermitana di Palermo - N.d.R.), che si è fatto strada negoziando voti e i finanziamenti con la dominante economia mafiosa, che si è imbevuto di cultura, di metodi malavitosi, diventare Uomo di Governo, adatto all'Italia europea?».
Già, come può?

 

8 luglio 1989
Ricordando Fortebraccio


Il giornalista Mario Melloni, più noto con lo pseudonimo "Fortebraccio", con cui ha firmato per anni i suoi corsivi su "l'Unità", è morto a Milano. Prima di prendere la tessera del PCI, Melloni era stato direttore de "il Popolo" e deputato democristiano.
Nel trafiletto rapido e tagliente, come ha scritto Montanelli, non ebbe uguali. Spadolini, che fu il suo bersaglio fisso, delle sue stoccate porta ancora le ferite.
* * *
Con "Fortebraccio" ho avuto, nel 1978, uno scambio di lettere che pubblico oggi, alla sua dipartita.
L'iniziativa partì da me. In data 6 dicembre 1978, così scrivevo a Fortebraccio: «Gentile Signore, ho davanti a me il suo libro "Partita aperta, corsivi 1978". Possiedo tutta la collezione che, credo, dati dal 1973. Leggo, a pagina 82, il corsivo su Indro Montanelli, apologeta di Mussolini. Davvero gustoso! Però, in fatto di "adulatori" di Mussolini, non c'è solo il Direttore de "il Giornale". Allego alla presente le ultime pagine (a Lei senz'altro sconosciute) del libro "Bocche di Donne e di Fucili" di Davide Lajolo. Le sarei tanto grato se su "l'Unità", cioè davanti alla platea dei proletari, stabilisse, in tema di "buffoni retori di Mussolini", una classifica. A chi la palma? A Montanelli o a Lajolo? Non si faccia serrare la gola, come scrive Lajolo, dalla commozione. Scriva e dica la sua. Grazie e distinti saluti».
* * *
Montanelli, così si esprimeva su Mussolini: «Quando Mussolini ti guarda è inutile tentare di recitare e di ricorrere alla suggestione di una messinscena qualunque. Quando Mussolini ti guarda non puoi che essere nudo dinanzi a lui. Ma anche lui sta, nudo, dinanzi a noi. Che importanza possono avere il fez di caporale d'onore o la feluca di ministro? C'è chi per essere qualcuno ha bisogno di ricorrere a una divisa o a un distintivo. Mussolini no. Il suo volto e il suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. E il resto non conta».
* * *
David Lajolo, detto "Ulisse", già direttore de "l'Unità", deputato del PCI, letterato, Mussolini lo vedeva così: «Un attenti urlato nel silenzio di Palazzo Venezia ci fa irrigidire. E nella sala. La sala è piena di lui. Non esistiamo che in Lui, Legionari di Spagna. Passa davanti ad ognuno. Lentamente. Ma quei suoi occhi paiono più grandi della sala stessa... Ecco il Duce è davanti a me. Guarda me. Voglio urlare il suo nome, forte come una cannonata. Ma un'onda di commozione mi assale, mi serra la gola. Duce! Duce! L'urlo tremendo scuote la sala, ripete gli echi di tutto il Palazzo, su Roma. Duce! Duce! L'urlo fermava il nemico, gridava la nostra intransigenza di fascisti. Ora lo urliamo a lui. È ancora là, sotto la gran porta. E Cesare, davanti ai capi delle Legioni che ha mandato per il mondo nel nome di Roma... Duce, un tuo cenno, e i Legionari di Spagna balzeranno ancora coi garretti induriti da due anni di guerra. Essi dormono con la testa sullo zaino per essere ancora i volontari mistici, i guerrieri d'acciaio, i Legionari di Roma!».
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Alla lettera su riportata, "Fortebraccio", con carta de "l'Unità", in data 12 dicembre 1978, così rispondeva: «Egregio signor Niccolai, alla Sua lettera del 6 dicembre desidero rispondere personalmente e Lei abbia la bontà di scusare la mia pessima dattilografia. Le scrivo da Milano, dove sono venuto per qualche giorno a passare le ferie. Ho l'impressione che Lei voglia mettermi in imbarazzo (cortesemente si intende) ma spero di persuaderla che davanti ai due testi, cui Lei mi richiama, non provo disagio alcuno ad esprimere un giudizio, anche se uno è di un ostinato avversario, l'altro di un compagno. Qui non ho sott'occhio il corsivo dedicato a Montanelli (non conservo i miei scritti, se Dio vuole), ma ricordo che anche quella volta dissi che non amo rivangare i trascorsi fascisti di nessuno. Il passato è passato (lo dico non avendo nulla, ma proprio nulla da rimproverarmi al riguardo, neppure la tessera del Dopolavoro) e non ne parliamo più. Feci eccezione per Montanelli in ragione della inaudita ridicolaggine della sua adulazione, ma sia quella che questa di Lajolo sono parimenti vergognose e soltanto due sfacciati di quella forza possono dimenticare di averle scritte. Lei avrà capito che io non apprezzo Lajolo, a proposito del quale bisogna però tener presente che in piena lotta per la Liberazione, passo dalla parte della Resistenza e vi militò degnamente. Successivamente, non ha mai abbandonato la causa democratica e tuttora milita nelle sue file con lealtà, anche se io deploro certi suoi atteggiamenti, diciamo cosi liberali, certi suoi facili pappa e ciccia che non mi garbano. Ma non ho nulla, politicamente, da rimproverargli, mentre Montanelli è quell'avversario che Lei sa bene. Dovrei forse riservare ai due lo stesso trattamento? Sarebbe giusto? Me lo dica Lei sul piano della pura ragione. Ma poi io sono (e me ne vanto) uomo di parte. Ammettiamo per un momento che i due, Montanelli e Lajolo, siano egualmente riprovevoli (ciò che non è). Dovrei forse dare una mano ai nostri avversari, o non è piuttosto mio dovere (e interesse) riservare ogni mia forza polemica, per modesta che sia, a combattere coloro che ci combattono lasciando in pace i compagni anche quando, per caso, non piacciano? Le pare che i comunisti non siano già abbastanza avversati per potersi passare il lusso di azzuffarsi tra loro?
«Non so, egregio e caro Niccolai, se era sua intenzione, diciamo così, cogliermi in fallo. Ne ho avuto l'impressione e non mi dolgo di averle aperto l'animo mio. Voglia accogliere i miei migliori e più cordiali auguri di buone feste. Mario Melloni ("Fortebraccio")».
* * *
A questa lettera, in data 3 gennaio 1979 (dieci anni fa!), rispondevo in questi termini: «Egregio Fortebraccio, ricevo la Sua e la ringrazio. Non ho mai dubitato di avere a che fare con un galantuomo. Comunque mi consenta di dire che non mi convince la giustificazione per la quale David Lajolo, essendo passato dalla parte della Resistenza "in piena lotta di liberazione", merita un apprezzamento particolare. Le dispiace se le dico che resto del parere di chi sostiene che le iscrizioni all'antifascismo erano già chiuse con il 1939? Gentile signore: cosa sarebbe accaduto di tanti italiani che, grazie all'8 settembre, poterono rifarsi una verginità antifascista, se gli eserciti alleati, anziché risalire faticosamente la penisola, fossero sbarcati a Genova e a Trieste, conquistando rapidamente l'Italia? David Lajolo non avrebbe potuto darci oggi lezioni di antifascismo. Nemmeno Badoglio. Nemmeno Gorresio. Nemmeno il fu Pioverle. Nemmeno Eugenio Scalfari. Nemmeno Indro Montanelli. E fu per loro che il Vero e autentico processo al fascismo non fu possibile, per cui ci ritroviamo nelle presenti condizioni. Infatti il fascismo venne processato "per aver fatto la guerra". Errore. Il Fascismo doveva essere messo sotto accusa per come aveva condotto la guerra. In modo errato. Se così ci si fosse comportati i "felloni" di sempre, e sotto tutte le bandiere, avrebbero pagato. Invece i "felloni", dimostrando di avere fatto il doppio gioco, cooperando magari a far affondare navi cariche di popolo ignaro, sono stati premiati, lasciati ai loro posti di responsabilità, addirittura promossi ai vertici dello Stato repubblicano, per essere passati "in piena lotta di liberazione" dalla parte della Resistenza. Pessimi fascisti ieri, pessimi antifascisti oggi. Non fu rivoluzione, fu autentica restaurazione. Sono anch'io uomo di parte! Eccome! Però con questa differenza: che, pur non essendo comunista, mi levo il cappello dinanzi alla grandezza storica di Giuseppe Stalin. Ed è logico che il mio disprezzo sia totale nei riguardi di coloro che dovendo tutto a Stalin, lo rinnegano in nome di quel trasformismo che, ieri, ci ha portati a massacrare Pisacane ed oggi a scannarci fra noi in nome dei "padroni" che si sono diviso il mondo. So che Lei, caro Fortebraccio, è di altra pasta. Mi voglia perdonare. Non mi risponda.
* * *
Sempre su carta de "l'Unità", organo del PCI, Mario Melloni, alias "Fortebraccio", in data 12 gennaio 1979, volle cosi rispondermi: «Egregio Signore, no, no, troverò sempre il tempo di rispondere a lettere come le sue, e voglio dirle subito che il suo riconoscimento, a me rivolto, mi lusinga molto, sebbene non sappia chi Lei sia, né come esattamente La pensi. Il suo discorso generale è ineccepibile. Ha ragione. Se il caso non avesse offerto a molti odierni predicatori una ciambella di salvataggio e noi, dal canto nostro, avessimo capito, con Brecht, che non si doveva essere buoni, molte cose tragiche e nauseabonde oggi non accadrebbero. Ma ciò che è stato è stato, ed io ora piuttosto che andare ad un passato ormai incancellabile, preferisco adoperarmi a pretendere che fascisti non si sia più adesso; ed è anche per questo che rifiuto e rifiuterò sempre di rifugiarmi nel privato, per usare una espressione che attualmente, non a caso, ha fortuna. La saluto, e la ringrazio ancora, soprattutto di essere un lettore di "Fortebraccio" e di stimarlo. Me ne sento onorato. Mi creda suo. Mario Melloni ("Fortebraccio")».
* * *
La corrispondenza si chiudeva con parole di stima personale. Ma con altrettanta affermazione che «ero stato fascista» e che, ahimè, «lo rimanevo». Per quello che avevo visto, per quello che vedevo, per quello che avevo sofferto, per quello che soffrivo. Nei riguardi del mio Paese.
 

15 luglio 1989
La DC, i servizi e la strategia della tensione


«Vent'anni di fascismo credo che non abbiano mai fatto le vittime di questi ultimi anni. Cose orribili come le stragi di Milano, di Brescia, di Bologna, non erano mai avvenute in venti anni. Prendiamo le piste nere. Io ho un'idea, magari un po' romanzesca ma che credo giusta, della cosa. Il romanzo è questo. Gli uomini del potere, e potrei fare addirittura dei nomi senza paura di sbagliarmi tanto, hanno prima gestito la strategia della tensione a carattere anticomunista, poi, passata la preoccupazione per l'eversione del '68 e del pericolo comunista immediato, le stesse, identiche persone hanno gestito la strategia della tensione antifascista. Le stragi quindi sono state compiute sempre dalle stesse persone. Prima hanno fatto la strage di piazza Fontana accusando estremisti di sinistra, poi hanno fatto le stragi di Brescia e di Bologna accusando i fascisti ...».
(Pier Paolo Pasolini, "Scritti corsari", pagine 287-288).
* * *
La proposta di legge di indulto per i terroristi «rossi e neri» fa discutere. Con toni indignati. Come si fa, argomenta Fausto Gianfranceschi su "il Tempo" (4.7), a riconoscere in degli assassini dei «combattenti» dei «prigionieri politici» è una mostruosità politica, etica, giuridica.
Non entro nel merito della proposta di legge; se essa sia barbarie o un ritorno all'equità del sistema giuridico; non ne ho le forze, soprattutto le capacità; voglio, e penso mi sia concesso, svolgere alcune considerazioni, a posteriori, sul terrorismo. E faccio una prima riflessione, ponendo una domanda, legittima credo, anche se molto fastidiosa.
La domanda è questa: se il PCI, anziché schierarsi con questo Stato repubblicano; anziché mettere la propria disciplina al servizio di questo sistema parlamentare «contro gli assassini del partito armato», avesse dichiarato la sua adesione alla formula «né con lo Stato né con il partito armato», il terrorismo sarebbe stato vinto?
Voglio dire, per essere ancora più preciso, se il centralismo democratico, questa forza organizzativa e disciplinare del PCI non fosse stata impiegata, nelle ore calde del dramma, per andare a parlare nelle fabbriche e in quei quartieri dormitorio dove le altre forze democratiche non avevano certo facile ascolto, che cosa sarebbe accaduto del sistema parlamentare dello Stato repubblicano?
Si sono chieste «abiure» al PCI, in merito al suo centralismo democratico -che uccide la sua dialettica interna-, ma se questa disciplina non ci fosse stata, la sorte di questa democrazia che fine avrebbe fatto?
* * *
E che cosa, se non proprio gli anni del terrorismo, fanno fare al PCI la più lunga marcia della sua storia nelle Istituzioni democratiche? La sua «occidentalizzazione», la sua «socialdemocratizzazione», non hanno origine proprio dagli anni di piombo quando, al loro culmine, il rapimento Moro venne considerato dal PCI «il più grave colpo al cuore, dello Stato democratico»?
Sono gli anni del terrorismo che inseriscono definitivamente il PCI nel sistema partitocratico. La provocazione armata accelera la sua marcia dentro le Istituzioni; gli anni di piombo gettano tutte le condizioni per le quali il PCI può oggi candidarsi come forza di governo.
In quegli anni il PCI si guarda bene dal denunciare, con forza, la quarantennale, perversa commistione fra lo Stato e il partito DC; la sua eternizzazione al potere per cui, qualsiasi infamia commetta, non ne paga mai le conseguenze, anche quando, pur di conservare il suo sistema di potere interno e internazionale, ricorre al delitto e alla strage. Il PCI, in quegli anni, scende in piazza e le sue bandiere rosse si mescolano a quelle bianche della DC.
E non è proprio su questo terreno che il terrorismo nutre le sue follie? Cosa si ha in Italia, con tutta la duttilità possibile, se non una situazione morbida di stampo «sovietico», per cui da oltre quaranta anni governano gli stessi e con tutti i mezzi, legali e no?
E che fa questo Stato, quando la rigidità e la perversione del sistema che lo tiene in piedi si viene a trovare in difficoltà?
Ricorre alla violenza subdola, all'eversione, alla strage. Crea gli estremisti. Mette su gli assassini. Per poter dire: «Sì, noi siamo ladri, peculatori, truffatori, farabutti ma, Italiani fate attenzione, è meglio essere governati da dei ladri che da degli assassini!». E gli «assassini», come demoni necessari, sono evocati, provocati, costruiti.
E questo Stato partitocratico che apre il fuoco. E lo fa, barando al gioco, in chiave eversiva. Non ho nessuna tema a scrivere che questo Stato «eversivo» è Piazza Fontana; è quel Comitato di Affari che uccide la gente. Fin dalla prima strage di Portella delle Ginestre del 1947, che è la strage che «fonda» questa Repubblica, non a caso in Sicilia.
Non solo, ma tutta la costruita strategia della tensione; la tesi degli «opposti estremismi», per cui fra rossi e neri deve scorrere sangue, è di natura «occidentale». Sono i Servizi «occidentalizzati» che, non solo mettono le bombe nelle banche e nelle piazze e sui treni, ma anche davanti alle Sedi del MSI-DN e del PCI, perché lo scontro sia inevitabile, e la DC governi in eterno.
* * *
Scrivo cose paradossali, enormi, fuori del mondo? Mi limito a riportare due fatti recenti, sotto il naso di tutti: Ustica e Giulio Andreotti.
Il massacro di Ustica. Scrive il "Corriere" (17.7), fate attenzione: il "Corriere della Sera", non il "Secolo": «Un'altra piaga oscura nella quale la Commissione parlamentare sulle stragi intende andare a fondo e con severità, ascoltando cosa hanno da dire i tre Capi dei SIOS di Aeronautica, Marina, Esercito... Per sottolineare quanto sia stata singolare la coincidenza tra la firma del trattato Italia-Malta di neutralità e garanzia militare, osteggiato dai libici, e la strage alla stazione di Bologna con l'insieme degli avvenimenti di quelle settimane: dalla strage di Ustica, al Mig 23 sulla Sila».
Si è messa la bomba alla stazione di Bologna per stornare l'attenzione dalla strage di Ustica?
E se le cose stanno cosi, questo Stato non ha una violenza superiore a quella di 14 mafie messe insieme?
Giulio Andreotti. Il Presidente della Repubblica lo ha incaricato di formare il nuovo Governo. Se ce la farà sarà il sesto. Un episodio: settembre 1977. Siamo davanti alla Corte di Assise di Catanzaro. Si cerca la verità sulla strage di Piazza Fontana. Giulio Andreotti, in veste di Presidente del Consiglio, è chiamato a testimoniare. È testimone e imputato al tempo stesso. E interrogato per oltre diciotto ore. Per tre giorni. La corte non gli crede, tanto che lo sottopone, per cinque ore, ad un confronto con il giornalista Caprara.
Quando torna a Roma non si dimette. Rimane. Anche il PCI (sono i giorni del Governo di unità nazionale) tace. E la sua carriera, inossidabile, continua. Imperterrita. Anche alle soglie del 2000.
* * *
Sì, quell'indulto proposto per i «terroristi» può apparire una mostruosità. Ma che dire del resto?
Nella Grecia «mediterranea e facilona» si è avuta la forza e la volontà di mettere su un governo, al solo scopo di ripulire dalla sporcizia la Nazione e di mandare in galera Presidenti del Consiglio e Ministri, ladri e corrotti.
L'Italia quanto dovrà aspettare?

 

22 luglio 1989
Da che parte i barbari?


Hitler, Stalin, Khomeini: tre nomi bollati come satanici in Occidente, ma non privi, tutti e tre, di convinzioni profonde. Del primo trovo questo profilo: «La sua impresa si è conclusa con il suicidio, non con il tradimento. La Germania sedotta nel più profondo dell'animo, ha seguito il suo Fuhrer con slancio. Fino alla fine gli è stata fedele e docile, servendolo con i propri sforzi più di quanto avesse mai fatto un altro popolo con qualsiasi Capo. L'impresa di Hitler è stata sovrumana e disumana. Egli la sostenne senza tregua. Sino alle ultime ore di agonia in fondo al bunker berlinese rimase indiscusso, inflessibile, impietoso, come lo era stato nei giorni del massimo fulgore. Per l'oscura grandezza della sua lotta e della sua memoria, aveva scelto di non esitare, transigere o indietreggiare mai. Il Titano che si sforza di sollevare il mondo non può infiacchirsi, né addolcirsi. Ma, vinto e schiacciato, forse torna un uomo, giusto per il tempo di una lacrima furtiva, nel momento in cui tutto finisce» (Charles De Gaulle, "Memohes de guerre", volume III, "Le salut, 1944-1946", Plon, 1959).
* * *
«1944: Stalin ci venne incontro fino a metà della stanza. Fui il primo ad accostarmi a lui e a dirgli il mio nome. Poi fu la volta di Terzic, che "recitò" tutti i suoi titoli in tono militaresco, alla fine battendo i tacchi; al che il nostro ospite, presentando se stesso: "Stalin"... La stanza di Stalin, non molto larga, era piuttosto lunga, arredata senza nessuna opulenza; sopra la scrivania modesta, sistemata in un angolo, era appesa una fotografia di Lenin, e sulla parete al di sopra della tavola intorno a cui sedevamo c'erano, in identiche cornici di legno intagliato, i ritratti di Suvorov e Kutuzov (entrambi generali czaristi, il primo vincitore dei turchi, il secondo di Napoleone alla Beresina - N.d.R.)... Stalin avviò la conversazione chiedendoci le nostre impressioni sull'Unione Sovietica. "Ne siamo entusiasti", risposi, al che egli rimbeccò: "Noi no, benché stiamo facendo del nostro meglio per migliorare la situazione in Russia". Mi è rimasto impresso come egli usasse il termine Russia e non Unione Sovietica; questo significava che non cercava solo di ravvivare nel suo popolo il senso del nazionalismo russo ma ci credeva lui stesso profondamente, ne era ispirato nelle sue azioni e si identificava in esso ...» (Milovan Gilas, "Conversazioni con Stalin", Feltrinelli editore).
* * *
Già, si tratta di lui, di Beppino Stalin, l'autentico fondatore della potenza russa nel mondo. Senza di lui gli anglo-americani non avrebbero vinto la 2ª guerra mondiale e né i Togliatti, ieri, né gli Occhetto, oggi, avrebbero mai potuto, il primo incensarlo come un dio, il secondo vilipenderlo come un assassino. Senza Stalin sarebbero stati nulla, pulviscolo. La riflessione va portata sul nazionalismo di Stalin che, nel 1944, non si peritava ad esaltare, in nome della grande Russia, quello che i generali czaristi avevano fatto per la Patria. Già, la Patria. Pare esistere anche là, in Russia. Forse è l'unica cosa che resta in piedi dopo il tramonto dell'ideologia del comunismo. Ed è con quella Patria che dovremo fare i conti.
* * *
E veniamo al terzo: Khomeini. Il suo testamento. Queste parole: «Ricordate che un uomo fornito della Fede, anche se non ha armi potenti, può sbaragliare molti avversari armati fino ai denti ma privi di Fede. Se un crociato uccide va in paradiso, se resta ucciso va in paradiso, il martirio è un dono di Dio. I nemici che vi stanno di fronte invece non credono allo spirito né al paradiso, combattono solo per vivere su questa terra. Dio è dalla nostra parte. Le potenze sataniche dell'imperialismo non possono nulla contro dì noi: quando anche ci uccidessero tutti, fino all'ultimo musulmano, ci avrebbero soltanto spalancato le porte dell'Eterna delizia». Firmato: Ayatollah Ruhollah Mussavi Khomeini.
* * *
I funerali dell'Ayatollah Khomeini sono stati definiti in Occidente una manifestazione di fanatismo folle, selvaggio, barbaro. E evidente: le categorie mentali, con le quali italiani ed europei giudicano quei fatti, si ispirano, più che all'anima, alla trippa, alla vilissima trippa. Urbano II, il Pontefice della seconda Crociata, ragionava presso a poco come Khomeini. Infatti ai Crociati diceva: morire in battaglia è avvicinarsi a Dio. La morte in combattimento risparmia al soldato la punizione della tomba. Morire in battaglia è trascendere il proprio destino». Il martirio, insomma, come resurrezione. E, in nome di Dio, si compivano i massacri di Gerusalemme (1099) e di Costantinopoli (1204). Anche l'ideologia dell'amore verso il prossimo ha, nel suo albero genealogico, i suoi massacri. Nessuno si salva.
Altri tempi, direte, oggi si muore di overdose, di mafia, di Aids e negli stadi.
* * *
Ci avete fatto caso? A Khomeini, pur avendo condotto disastrosamente una guerra che è costata milioni di morti, non hanno, alla fine, riservato, per impiccarlo, un distributore di benzina. Hanno pianto per lui. Lo hanno onorato, nella morte, così come in vita. Fanaticamente. 1945: Piazzale Loreto. 1989: Teheran, le esequie di Khomeini. Da che parte i barbari?
 

29 luglio 1989
I «frati ricchi» della politica


Riflessioni estive. Un dato costante che si vede chiaramente, che si tocca con mano: lo stato di cassa dei partiti (che pur vengono accusati di totalitarismo oppressivo, in tutti i rami della vita) diventa sempre più magro, ma crescono enormemente le ricchezze personali dei singoli uomini politici. Come dire: il convento è povero, ma i frati sono ricchi.
Un secondo dato è quello che i «frati ricchi» della politica, quando vanno a denunciare allo Stato le proprie ricchezze, tornano ad essere magri, anzi magrissimi. Quasi nullatenenti.
Direte: ma i politici non sono, in fondo, eguali agli altri milioni di cittadini?
No. I politici hanno obblighi particolari: dettano le regole del gioco, sulla pelle di tutti. Debbono essere onesti. Nell'interesse soprattutto di se stessi. Nessun ceto politico, alla fine, si salva se finisce nella fogna.
E una battaglia da combattere. All'interno delle rispettive Comunità politiche. Dovunque. E fino in fondo. Con determinatezza.
* * *
Venezia, il concerto dei Pink Floyd. La Città irripetibile della Serenissima è stata sottoposta allo scempio. Invasa da masse sterminate, dove nulla era stato predisposto per accoglierle, è stata ridotta ad un porcile. Poi le vibrazioni degli amplificatori del concerto hanno danneggiato il gruppo marmoreo del Palazzo Ducale.
Quando un pezzo di Venezia scompare non ci sono possibilità di riprodurlo. Scompare, per sempre. Sepolto, definitivamente. Così scompaiono le Memorie.
E su questo terreno che il nuovo «patriottismo» dovrebbe essere ricostruito e difeso. Il «patriottismo» delle Memorie, dei Castelli, delle Cattedrali rinascimentali, dei Fiumi, del Mare, delle Città irripetibili.
Ma chi pon mano ad esso? Barbari? Ma i Barbari rimanevano almeno stupefatti dinanzi alle grandi Opere dell'uomo e della civiltà. Oggi, in democrazia e per la democrazia, Venezia può diventare tutto: anche un grande, immenso defecatoio.
* * *
Tutti hanno gli occhi puntati su Gorbaciov, come colui che ha messo in moto gli arrugginiti meccanismi della Storia atti a mutare il volto dell'Impero sovietico.
A mio modesto parere Chi ha fatto da acceleratore storico al processo che stiamo vivendo è il Papa polacco. Carlo Wojtyla, non a caso salito sul Pontificato di Pietro nell'ottobre 1978, subito dopo la scomparsa del «Papa del dubbio» Montini e di Aldo Moro, il politico amministratore di una Italia senza storia e senza Stato, Io spegnimoccoli di tutte le passioni, in primis quella nazionale. Papa Wojtyla, prima di essere Papa, è un patriota. E, dalla cattedrale di Pietro, ha difeso, andando per il mondo, la propria Terra. Espresso dal mondo slavo e dal di dentro del comunismo, è Lui che, in nome della Patria, ha scosso l'Impero sovietico, le 15 Repubbliche federative, le 28 Repubbliche autonome, i cento gruppi etnici e i 70 gruppi linguistici dell'URSS. I quali, tutti, ora in nome della Patria, chiedono libertà e giustizia.
* * *
L'Adriatico: una fogna.
Sarebbe interessante andare a vedere come si è comportato il potere politico, in Parlamento e negli Enti locali, quando l'Adriatico, negli anni passati e recenti, doveva essere difeso contro l'incontrollata «chimica», di Stato e no; intendo dire dai detersivi, dai pesticidi, dal fosforo e da altri veleni. Che cosa ha fatto il Parlamento contro gli interessi forti della Montedison, di Raul Gardini?
Ricordate la vicenda del metanolo? In Parlamento il 19 luglio 1984, un emendamento riguardante il metanolo ebbe come relatore il deputato Francesco Piro. Che disse? Ecco, testualmente: «Il relatore ha dovuto in breve tempo acquisire nozioni sulla cui validità non ritiene certo di poter impegnare il proprio fondato convincimento, né esortare i colleghi ad accettare per oro colato tutto ciò che è stato esposto. Il dubbio qui non ha ragioni, né amletiche né filosofiche. Le convinzioni sulle quali lavora un parlamentare non consentono certo quelle che gli storici chiamano critica delle fonti».
* * *
Come dire: «Non ne so nulla, vengo qui a ripetere cose che mi hanno riferito e sulle quali non posso giurarci. Fate voi. Voi sapete come si lavora in Parlamento. Al disotto dell'approssimazione ...».
Quell'emendamento venne approvato. All'unanimità. In nome della Chimica. E sono venuti i morti. E il discredito del nostro vino. In Italia e fuori. Credete che per l'Adriatico sia stato diverso?
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Gli ascoltatori alle conferenze stampa dei Segretari di partito in TV: 1974, 17 milioni di ascoltatori; 1989, un milione e mezzo di ascoltatori.
* * *
I misteri di Palermo. Ruotano nel sangue. Fin da Por-tella delle Ginestre, la prima strage (1.V.47) rimasta impunita, che vide lo Stato italiano chiedere l'aiuto della Mafia per eliminare il bandito Giuliano.
Il prestigio indiscusso della Mafia data da allora. Assume forza costituente questa Repubblica. Tutti i misteri venuti dopo, e che ruotano nel sangue, portano le identiche caratteristiche di quelli siciliani di 43-44 anni fa. Milano non è meno palermitana di Palermo. Non è la Resistenza a fondare questa Repubblica, è la Mafia.
Se ne vuole prendere atto?
* * *
II giudice Giovanni Falcone afferma: «Sto assistendo nei miei riguardi all'identico meccanismo che portò alla eliminazione del generale Dalla Chiesa». Il che significa che, in Italia, gli assassinii dei personaggi eccellenti vengono programmati. In pubblico.
Ma possono esserci cadaveri eccellenti senza assassini altrettanto eccellenti?

 

5 agosto 1989
I veleni di 40 anni fa
 

I veleni di Palermo (e di Roma). I mezzi di informazione descrivono un Paese attonito, sbalordito, shoccato, in ordine alle notizie sui Corvi, sulle Talpe e sulle Serpi alberganti nel Palazzo di Giustizia di Palermo.
Eppure è tutta storia vecchia, vecchissima. Di oltre 40 anni fa.
Basta prendere fra le mani il volume di 777 pagine, licenziato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia in Sicilia il 10-2-1972, e dal titolo: «Relazione sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia», relazione approvata alla unanimità.
La titolazione è incompleta. Il titolo giusto dovrebbe essere: «Relazione sui rapporti fra lo Stato, la mafia e il banditismo in Sicilia».
* * *
Fatti di 46 anni fa. Che c'è dentro? Di tutto. Lotta feroce fra Carabinieri e Polizia. Pluriomicidi che girano per la Sicilia indisturbati con in tasca lasciapassare rilasciati dal ministero degli Interni. Ispettori-capo di Polizia (Messana Ettore e Ciro Verdiani) che si incontrano con il bandito Giuliano e trattano con costui (430 vittime nella sua carriera) comuni piani di azione; carabinieri che fanno fuori confidenti della polizia e viceversa; generali dei Carabinieri (Luca Ugo e Pierantoni Giacinto) che per il bandito Pisciotta costruiscono stati di benemerenza a firma del ministro Mario Scelba; stragi (Portella delle Ginestre), intorno alle quali ruotano i nomi dei deputati monarchici Alliata, Leone Marchesano, Cusumano Geloso, dei democristiani Mattarella e Scelba; di americani come l'ufficiale Michele Stern; di ergastolani mafiosi come Lucky Luciano, poi paracadutato in Sicilia nel feudo di Don Calogero Vizzini, il capo della mafia, per aiutare lo sbarco anglo-americano. C'è di tutto.
* * *
Una cosa certa, certissima. E cioè che lo Stato, la Repubblica italiana, per avere la meglio sul bandito Giuliano, ricorre all'aiuto della mafia, da qui il suo enorme prestigio, da qui la sua istituzionalizzazione come elemento portante dello Stato democratico che si andava costituendo.
La prova? Lo Statuto siciliano del 15 maggio 1946, n. 455, di cui non si sono mai trovati i precedenti: da chi sia stato redatto, come sia stato approvato. Quello Statuto è il capolavoro dell'azione mafiosa in Sicilia. Il sistema mafioso ha avuto come supporto fondamentale quello Statuto, un'autonomia esasperata intrisa di sangue, di lotte spietate, di stragi. Il bandito Giuliano eliminato dall'alleanza tra lo Stato e le forze di questo sistema di mafia nato nel 1943 con lo sbarco alleato. È qui che il Sindaco Orlando deve porre la sua attenzione. I complotti di cui parla, e di cui non neghiamo l'esistenza, partono tutti dalla fondazione «mafiosa» della Regione siciliana. Condurre un'inchiesta alla sola Sicilia non ha senso. Occorre aprire un'inchiesta su come lo Stato repubblicano, tutto quanto, ebbe i suoi natali nel 1943, sulle spiagge siciliane.
* * *
Si argomenta che il mafioso Totuccio Contorno sarebbe stato fatto rientrare dagli Stati Uniti perché organizzasse l'eliminazione fisica della bande mafiose dei corleonesi. Di poi, portata a termine l'operazione, sarebbe stato fatto fuori dallo «Stato» repubblicano che a Contorno aveva chiesto aiuto. Quali meraviglie? Cosa c'è di nuovo sotto il sole siciliano (e romano)?
Per far fuori Giuliano non si ricorse a Pisciotta e alla mafia? E, compiuta la bisogna, Pisciotta non venne avvelenato in carcere dalla mafia, per conto dello Stato che voleva cancellare tutte, le prove relative alla sua Connivenza con il mondo della malavita?
E la tazzina di caffè che assassina Pisciotta non è la stessa che fa fuori Sindona?
Aveva ben ragione a dire Pisciotta (aula del tribunale di Viterbo, 1950) che «polizia, banditi e mafia erano una cosa sola. Come il padre, il figlio e lo spirito santo».
Forse che il caso «Cirillo» mostra una diversa realtà? Forse che il caso «Calvi» è diverso? Forse che le vicende delle stragi rimaste impunite danno una diversa interpretazione? Forse che il caso Ustica non fa parte della stessa melma?
E come può uno Stato in queste condizioni amministrare la Giustizia?
 

12 agosto 1989
Le incaute battute di Peter Secchia


Stento a crederlo. Mi riferiscono che il "Time" di New York, in data 31 luglio 1989, pubblica una nota su Peter Secchia, il nuovo ambasciatore americano a Roma, dove si riportano alcune dichiarazioni dello stesso di questo tenore, e cioè che, venuto precedentemente alla sua nomina in Italia, aveva avuto modo di constatare che le navi italiane, anziché avere la chiglia di acciaio, l'avevano di vetro. E ciò opportunamente, precisa l'ambasciatore, «perché in tale modo si permetteva alla nuova Marina italiana di vedere, attraverso il vetro, la vecchia Marina Italiana adagiata sul fondo degli abissi marini».
* * *
Ripeto: spero che non sia vero, ma se lo fosse, voglio sperare che in Parlamento ci sia una voce che faccia ringoiare all'incauto ambasciatore la bestemmia pronunciata.
Non si tratta qui né di fascismo né di antifascismo, ma di dignità, sentimento che è di tutto il popolo italiano che ha il sacrosanto diritto di non vedere insultati, dopo tutto da un «ospite» straniero, i suoi Figli caduti in mare fedeli al dovere al quale erano stati chiamati.
Risponderemo intanto all'Ambasciatore statunitense con queste belle parole di Giovanni Spadolini, Presidente del Senato: «Bisogna affermare a voce alta che tutti coloro che vogliono abdicare ai loro sogni, non s'accorgono che in fondo un popolo non acquista, non acquisterà mai pace e rispetto e sicurezza, col tagliarsi gli attributi della propria virilità nazionale. Che anzi la storia d'Italia dimostra che più il Popolo italiano ha rinunziato ai propri diritti, e più è stato fustigato, umiliato, deriso, spogliato ed offeso. Ciò che certamente capiterà un'altra volta agli Italiani tutti, se essi non sapranno riguadagnare la stima e la considerazione del mondo». ("Italia e Civiltà", anno 1, n. 14, 8 aprile 1944).
* * *
Rassicuriamo l'Ambasciatore che, malgrado tutto, il Popolo italiano gli attributi non se li è tagliati del tutto.
E che certamente non è intenzionato a farsi insultare da chi conosce solo la prepotenza dei propri miliardi accumulati e che ritiene che la Storia scritta con il sangue possa essere cancellata dalle battute cafonesche per troppi whisky bevuti.
* * *
Il dibattito sul «comunismo» in mezzo a noi. C'è chi lo ritiene ancora il nemico principale, chi lo dà ormai per morto e sepolto. È il dibattito dottrinale, quello detto dei massimi sistemi.
Veniamo ad alcuni dati reali. Dalle stelle sulla terra. A Milano, in questo giugno 1989 (ultimo rilevamento), il PCI ha 53.700 iscritti. A Ferrara 35.600. A Pisa 21.710. A Grosseto 14.207. A Termoli 1.800. A Bari 11.781.
Ho preso campioni di città grandi, medie, piccole. Del Nord, del Centro, del Sud.
Riflessione: è un radicamento diffuso, che non si può affrontare con le tipiche categorie dell'ordine, della pericolosità, addirittura della criminalità. Questo radicamento è stato costruito in anni di lavoro e occorre farci i conti. Politicamente. Non si può prescindere da quelle cifre, datate 1989. Cosa esprimono quelle cifre? Desidererei tanto che mi si rispondesse. Non sul terreno astratto della ideologia, ma su quello pragmatico, della politica che ognuno costruisce. Giorno per giorno. Noi e loro. Quelle cifre, le nostre cifre.
Riflessione sul Mezzogiorno. La DC nel Sud tiene, anzi cresce. E la DC tiene in Italia perché cresce nel Mezzogiorno.
La DC lucra nel Mezzogiorno quel «premio di maggioranza» che la fa essere padrona della politica a Roma. Se non si tonifica la battaglia del Sud contro la DC, il Mezzogiorno non ci darà altro che cocenti dolori.
Che utilità ha il dirsi destra o sinistra? La vera e autentica discriminazione è questa: stare con la DC, oppure costruire una politica per mandarla all'opposizione. O di qui o di là.

 

13 agosto 1989
La vogliamo mandare la DC all'opposizione?


Trovo difficile capire (la colpa è senz'altro tutta mia) perché il confronto interno, sulle idee e sui propositi, si debba trasferire sulle colonne da "il Tempo", anziché venire promosso, stimolato e accolto dal "Secolo". In questo non ha torto Marzio Tremaglia a chiedere che, sul quotidiano del partito, si apra il dibattito; che non venga alteralo, né soffocato. Anche se è giusto che il Direttore, a sua volta, debba pretenderà che questo confronto, tra camerati, si svolga con tutta la correttezza passibile.
Ecco perché io scrivo al "Secolo" e non a "il Tempo". E, con tutto il garbo possibile, così come è richiesto, intendo rivolgermi al camerata senatore Marchio, il quale nel finale del suo intervento ospitato da "il Tempo", scrive che la strada della destra è quella già sperimentata nel '71 e nel '72, quella che riuscì a sottrarre consensi al PCI, quella che ha portato Le Pen a quattro milioni e mezzo di voti; la strada, insomma, «della destra nazionale, sociale, controcorrente, lieta delle proprie radici, una destra ben riconoscibile e individuabile da tutti. Non un ibrido. Non un oggetto misterioso. Non un parto da laboratorio. Noi cosi -argomenta Michele- prenderemmo tre milioni di voti. Perchè non dovrebbe riuscirci ancora?».
* * *
Faccio una doverosa premessa, di segno morale prima che politico, e cioè che le cose che dirò, in cortese polemica con Marchio, me le carico tutte sulle mie spalle perché di quella politica, che piace tanto a Marchio e non a chi scrive, fummo allora tutti, dico tutti, responsabili in quanto la costruimmo insieme.
E allora veniamo al sodo. La domanda è questa: la strada degli anni '70, in particolare quella che ci portò, come argomenta Marchio, al «successo» del '72, da che cosa era caratterizzata?
Lo Statuto del partito verme rivoluzionato, tanto da fare cambiare volto al MSI. L'articolo primo riebbe una elaborazione tutta occidentalistica, con dei correttivi non di poco conto, come la cancellazione della norma riguardante la forma dello Stato (depennata la pregiudiziale monarchia-repubblica), e quella riguardante l'incompatibilità fra adesione al MSI e alla massoneria. Si poteva, insomma, essere missini e massoni.
C'è di più. Quel «successo», intorno a quali «personaggi» venne scientemente costruito? Le idee camminano con le scarpe degli uomini. E noi ci servimmo di uomini che rispondevano al nome dell'Ammiraglio Birindelli, del barone universitario Plebe, di ex-DC dai... caratteri di un Greggi, di un Giacchero, di liberali ultra conservatori come Artieri. Non solo. Michele non può averlo dimenticato perché, parlamentare come il sottoscritto, ricevette (anni '70) una lettera nella quale, all'incontro in cui si dava vita alla Costituente di destra, veniva cortesemente invitato a non partecipare perché la sua caratterizzazione marcatamente missina avrebbe compromesso l'operazione.
Non solo. Ma in quella occasione ai vertici massimi del partito si mise nel conto -prima che a ciò fossero chiamati i comunisti- l'opportunità di cambiare nome al MSI. E si cominciò con il farlo, allungando la sigla in Destra nazionale, Costituente di destra.
Michele queste cose le sa bene, come sa benissimo, per averlo sofferto sulla propria carne, a che cosa portò quel «successo» del '71-'72.
Io non mi sono sentito tanto isolato dalla comunità nazionale quanto in quegli anni in cui potevamo contare alle Camere più di 80 parlamentari.
* * *
Cosa resta di quel periodo, se non una lunga serie di sofferenze? Non ho nessuna tema a scrivere che il MSI dei cinque deputati del 1948 «contava» e «pesava» di più del MSI 1972, con i suoi 80 e più parlamentari. Soprattutto perché quel MSI degli anni '50 era padrone nelle scuole e nelle Università (120.000 iscritti nelle organizzazioni giovanili), mentre il MSI degli anni '70, per essersi rifiutato di «capire» il '68, aveva perduto per strada quasi tutto il patrimonio giovanile.
* * *
Domando a Michele: vogliamo sul serio, per far piacere ai vari Fisichella, tornare a battere quella strada? A farci interpretare, culturalmente, da un Plebe? A farci insegnare l'atlantismo esasperato da un Birindelli? A eleggere, come nostro intermediario del cattolicesimo, un Greggi? A farci insegnare i «valori» della resistenza da un Giacchero?
Ma se è così, la domanda può apparire bruciante, ma lo stesso Marchio, ne sono certo, la giudicherà pertinente: perché si è dato torto a quelli di Democrazia Nazionale? Non sognavano (e lo dico senza ironia) essi stessi quel MSI, a cui, a tempo debito, si sarebbe dovuto cambiare nome?
* * *
Michele Marchio, sanguigno come è, temperamentale come è, (e la dimostrazione è nella scelta che fece nel 1976, una scelta la sua del tutto sanguigna), non può disconoscere che a salvare il MSI, in quegli anni turbolenti, fu l'estremismo. Il sano, salutare, sanguigno, chirurgico estremismo. Che fu di tutti. Un estremismo che buttava alle ortiche i «fronti articolati anticomunisti» che, costringendoci a metterci al fianco dei corrotti ci toglievano la faccia, non ci facevano essere noi, e di per sé, per la carica di conservatorismo e di malaffare che si portavano dietro, alimentavano la forza del comunismo.
Caro Michele, le tue battaglie al Comune di Roma, a quanto so, si sono qualificate da un (per me) sano estremismo che ti ha portato spesso a solidarizzare con il PCI contro la DC.
Qui sta il punto. Il comunismo è quello che è, e tutto il male di cui è pervaso è stato descritto sulle nostre pagine. Quello che ora preme e vale è rispondere a questa domanda: lavoriamo perché la DC governi ancora per 40 anni o per mandarla, una buona volta, alla opposizione?
Michele, che cosa ne pensi?
 

19 agosto 1989
Terza via e 'funghi' burocratici


L'Assemblea regionale siciliana, con sua legge, ha portato in Sicilia i consiglieri provinciali da 288 a 450. Altri centri di potere, se non di corruttela. Voglio sperare che i deputati del MSI abbiano votato contro.
Questo è il quadro generale: in Italia abbiamo 150.000 fra consiglieri comunali, provinciali e regionali. Quattromila e più fra presidenti, vicepresidenti e membri dei consigli di gestione delle USL. Altrettanti delle Aziende municipalizzate. Quattromila membri delle Camere di commercio, Istituti di credito locale e altri enti di sottogoverno. Insomma una fonte inesauribile di clientele, frammentazione locale, sperpero di denaro pubblico, dalle quali traggono vantaggio, in modo particolare la DC, il PCI, il PSI.
Il MSI non può appartenervi e non si deve limitare ad essere spettatore, sia pure critico e rumoroso. Deve combattere questo perverso fenomeno di moltiplicazione dei centri di potere. Fra l'altro fonte di mafia politica che è l'anticamera di quella criminale.
* * *
Si argomenta: ora la cosa più importante, decisiva, su cui occorre puntare tutto, sono le elezioni amministrative generali del 1990. È vero, ma in parte. Ora le cose decisive di cui occorre subito occuparsi sono:
a) la moralizzazione della vita pubblica amministrativa a cominciare da Napoli, ma per pretendere di pulire le abitazioni altrui, occorre avere pulitissima la propria.
b) Fare di tutto, in modo collettivo, non lasciata all'iniziativa del singolo che non lascia traccia, perché l'Adriatico non diventi del tutto una fogna. Paragone da instaurare: Bologna, la città meglio amministrata d'Italia, si trova al centro della Regione Emilia Romagna, amministrata dal PCI, responsabile, insieme alla Padania, bianco-rossa, del degrado dell'Adriatico.
e) Salvaguardare dovunque, in nome del nuovo «patriottismo», le acque, l'aria, il mare, il fiume, il lago, i centri storici.
d) Stare dalla parte di chi soffre, in tutti i sensi.
e) Far sì che gli ospedali portino salute e non siano ridotti (con topi e scarafaggi) solo a procacciatori di voti.
E via di seguito. Ci sono appena otto mesi. Occorre impiegarli bene. Anzi benissimo. Senza perdere tempo.
* * *
La Fiat, negli ultimi otto anni, ha realizzato 8.300 miliardi di utili, sui quali ha pagato tasse pari al 1996, che è esattamente la quota Irpef dei suoi operai. Parallelamente lo Stato ha dato alla Fiat 7.000 miliardi in oneri sociali; in più dei 18.000 miliardi che lo stesso Stato ogni anno eroga a favore di appena il 796 delle imprese (quelle medie e piccole sono escluse), la parte del leone la fa la Fiat. Nessuno, Dio ce ne guardi e liberi, desidera che la Fiat vada a fondo. Sarebbe da insensati. Ma non si venga a dire che è un'impresa non assistita, che opera solo sul libero mercato! Questo no!
La Fiat, da sempre, è un'industria protetta. Non solo. È anche vecchia, tanto che, per le innovazioni che ancora deve intraprendere, aspetta altri generosi finanziamenti dallo Stato.
* * *
Domanda: c'è più sentimento «cristiano» (a livello popolare) negli smunti Paesi comunisti o in quelli opulenti dell'Occidente democratico? Insomma, dal punto di vista della «secolarizzazione», cioè dell'invadenza del materialismo, ve ne è più a Est o a Ovest?
Io ricordo i cantieri di Danzica occupati dagli operai e la cerimonia della comunione collettiva. C'è uno spettacolo simile in Occidente?
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E quale «significanza» gli si può dare? La tragedia dell'Armenia sotto il terremoto. È il primo popolo, sottolineo popolo, che si sia convertito al Cristianesimo all'interno di una comunità islamica. Gli Armeni hanno subito, per motivi di fede, massacri spaventosi da parte dei Turchi. E l'ateismo sovietico nulla ha potuto contro quella fede. Nel sistema sovietico tutti i popoli rimangono entità forti, tenuti insieme dagli istinti ancestrali della Patria e della religione. Ciò può altrettanto dirsi delle minoranze etniche nel mondo occidentale e nelle due Americhe?
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Ricordate il celebre discorso di Alexander Solgenitsin, premio Nobel, esule russo, ex ergastolano di Stalin, all'Università di Harvard negli Stati Uniti nel giugno 1978? «Se mi si chiedesse se io voglio proporre al mio Paese, l'URSS, a titolo di modello, l'Occidente cosi come è oggi, io dovrei rispondere con franchezza: no, io non posso raccomandare la vostra società come ideale per la trasformazione della nostra. Data la ricchezza di sviluppo spirituale acquisita nel dolore dal nostro Paese in questo secolo, il sistema occidentale, nel suo stato attuale di esaurimento spirituale, non presenta alcuna attrattiva. E un fatto incontestabile: all'Ovest, indebolimento del carattere dell'uomo; all'Est il suo rafforzamento. All'Est una vita opprimente vi ha forgiato, nel dolore, dei caratteri più forti, più profondi di quanto abbia fatto la vita occidentale con il benessere regolamentato. Una società non può vivere senza leggi, ma sarebbe per essa una derisione rimanere alla superficie civilizzata di un legalismo senz'anima come da voi. Un'anima umana accasciata sotto il peso di parecchie decine di anni di violenza aspira a qualcosa di più elevato, di più caldo, di più puro di quello che può oggi proporle l'esistenza di massa in Occidente ...».
* * *
Per il grande esule russo la ricerca sfrenata della felicità, eredità materialistica del Rinascimento e del secolo dei lumi ha distrutto i valori spirituali, tanto da far dire a Martin Heiddeger, uno dei filosofi più grandi dell'era moderna, che per salvarci ci vuole un altro Dio e un nuovo Vangelo.
Si condividano o no, le sue idee, Solgenitsin pone le basi di uno dei dibattiti fondamentali del nostro tempo, quello della ricerca della terza via.

 

26 agosto 1989
Legge Merli? No, legge Cefìs...


La gente comune data, dal punto di vista legislativo, l'attenzione del Parlamento repubblicano ai gravi problemi del dissesto ecologico alla presentazione alla Camera dei Deputati della Legge detta "Merli", il 10 agosto 1974, n. 3193. Dunque, nell'agosto del 1974, il Parlamento, per la prima volta, avrebbe preso coscienza che fiumi, coste, mare, aria, città erano divenuti, in tanta parte, vere e proprie fogne.
* * *
È così? Non è così. A far prendere coscienza al Parlamento di ciò che stava accadendo (e si era pur avuto il colera a Napoli nel 1973!) in campo ecologico non era stato il fatto del degrado fisico e ambientale del Paese, ma una condanna di un Boiardo di Stato, Eugenio Cefis che, in qualità di presidente della Montedison, era stato condannato il 27 aprile 1974 dal pretore di Livorno alla pena di mesi tre, giorni 20 di reclusione e al risarcimento dei danni alle parti civili (fra queste l'Associazione dei pescatori della Corsica), in quanto riconosciuto responsabile di scaricare nel mar Tirreno, fra la Corsica e l'isola Gorgona, ben 3.000 tonnellate di biossido di titanio (fanghi rossi) di cui l'11% di acido solforico, provenienti dagli scarichi dello Stabilimento Montedison di Scarlino, in provincia di Grosseto.
* * *
L'allarme di cui si fa «interprete» il Parlamento non è il tentato massacro del mar Tirreno, l'allarme è che si condanni Eugenio Cefis, che gli sia stato tolto il passaporto (vedi analoga vicenda riguardante il banchiere Calvi). Questo il Parlamento non lo può sopportare e dunque via all'...ecologia, onde salvare dal carcere uno dei padroni dell'economia nazionale. Ed è così che il 10 agosto 1974, a un mese dalla condanna di primo grado di Cefis, viene presentato alla Camera il disegno di legge n. 3193 che, dal nome del primo firmatario, l'on. Gianfranco Merli, prenderà nel tempo il nome di "legge Merli".
Ufficialmente e formalmente, attraverso quel disegno di legge, il Parlamento inizierà a discutere di scarichi, fognature, depuratori e altro; sostanzialmente quel disegno di legge si farà forte di un solo obiettivo: quello di trovare una norma che vanifichi, nelle more in cui si aspetterà di discutere l'appello di Cefis davanti al Tribunale di Livorno, la condanna penale inflitta al presidente della Montedison.
* * *
Direte: ma come è possibile? Sono fandonie, calunnie. Fate attenzione ai fatti che riferirò. Non è la prima volta che denuncio pubblicamente la cosa. L'ho già fatto, senza che abbia ricevuto, né come deputato della Repubblica italiana, né come semplice cittadino dello Stato italiano, uno straccio di smentita. Silenzio: su tutta la linea.
E veniamo ai fatti. Il Tribunale di Livorno fissa per il 14 gennaio 1976 l'udienza per la discussione, in secondo grado, della condanna di Cefis. Il disegno di legge Merli, dall'agosto del 1974, è in discussione nella Commissione Lavori pubblici della Camera dei deputati. Ci si accorge che, dati i ritmi di lavoro della Camera, non ci si fa ad essere pronti con una legge che, comportando anche l'esame da parte del Senato, deve essere varata prima del 14 gennaio del 1976, data in cui Cefis, per salvarsi dal carcere, dovrà far valere, davanti al Tribunale di Livorno, una norma liberatoria dei suoi reati.
* * *
Che si fa allora? Siamo nei pasticci, ma il Parlamento, quando vuole, sa trovare, e con celerità, i diversivi per salvare i suoi personaggi. E, per il momento, si accantona il disegno di legge Merli, per puntare tutto su un disegno di legge che, meno complesso di quello Merli e tutto incentrato nell'elaborare la norma salvatrice di Cefis, è stato, nel frattempo, presentato e approvato dal Senato, disegno di legge a firma Santalco, in data 20 novembre 1975.
E il disegno di legge Santalco approda alla Camera dove si ha «l'avvertenza» di non farlo esaminare dalla Commissione Lavori pubblici (dove la legge Merli si è arenata), ma dalla Commissione Trasporti, relatore il deputato Merli. Sembrano procedure del tutto normali, sono invece episodi da Codice penale, se il Codice penale avesse vigore all'interno del Parlamento repubblicano.
* * *
Intanto l'appello di Cefis viene rinviato dal Tribunale di Livorno ad aprile. Cosi che, in data 2 aprile 1976, una lettera strettamente confidenziale della Montedison arriva all'avvocato, oggi ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, in qualità di primo responsabile del Collegio di difesa di Cefis. In detta lettera è scritto: «È certo che il Senato della Repubblica in data 14 aprile 1976 approverà in via definitiva la legge Santalco, di cui si allega il testo. Si prega quindi di intervenire presso il Tribunale di Livorno perché l'udienza fissata per il 5 aprile (appello Cefis - N.d.R.) venga rinviata in modo che il testo Santalco diventi legge».
E così accade. Il Tribunale di Livorno rinvia l'appello e, nel frattempo, il disegno di legge Santalco diventa legge. La Montedison, nelle sue previsioni, sbaglia di un solo giorno. Anziché il 14, il Senato approva il tutto il giorno 13.
* * *
Gioco fatto? Pare di sì, ma improvvisamente tutto si riapre. Infatti il Tribunale di Livorno fa sapere, in via del tutto confidenziale, che la legge Santalco non è sufficiente ad evitare a Cefis i rigori del carcere. La situazione assume i caratteri dell'emergenza: l'appello è imminente e le Camere stanno per essere sciolte. Che fare?
È il 14 aprile 1976. Si torna, precipitosamente, al disegno di legge Merli. In un sol giorno la Commissione Lavori pubblici della Camera approva il testo (30 articoli!) in sede legislativa, presentato -si specifica nella relazione illustrativa- da «tutte le forze dell'arco costituzionale». Nello stesso giorno il disegno di legge, approvato dalla Camera, va al Senato e il 30 aprile è legge. L'articolo 2 è salvo e, con esso, anche Cefis. Il Tribunale di Livorno assolve.
Non è giusto che quella legge si chiami Merli. Dovrebbe chiamarsi Cefis.
* * *
Cefis ringrazia. Soprattutto i suoi avvocati, ai quali invia la seguente lettera personale:
«Ho appreso con viva soddisfazione dall'avvocato Baldini la notizia della favorevole sentenza di Scarlino e desidero esprimerle i più fervidi ringraziamenti e rallegramenti per questo esito positivo. So con quanta volontà e passione ha portato avanti il processo e quanto si sia impegnato al fine di far sì che la sua conclusione fosse posticipata rispetto all'entrata in vigore della nuova legge Merli che ha costituito il motivo della nostra assoluzione. Nel rinnovarle tutta la mia gratitudine, desidero farle giungere i sentimenti della più viva cordialità, suo Eugenio Cefis».
Non abbiamo riscontri per affermare che una lettera del tutto simile sia giunta ai presidenti delle Camere, in particolare ai due segretari generali del tempo.
* * *
Due riflessioni prima di chiudere. Qualcuno si domanderà dove erano i comunisti quando questa scandalosa «operazione Cefis» veniva portata avanti. Anche qui un po' di attenzione alle date. E il 1976: il PCI si accinge a diventare forza di governo. E tace (e acconsente). Sulle porcherie. Su quelle di Cefis. Su quelle, a... latere, di Andreotti-Sindona.
Seconda riflessione. La Giustizia italiana. La domanda è d'obbligo: davanti ad un cittadino qualsiasi la Giustizia sarebbe stata così corriva, così arrendevole come lo è stata davanti al grande Boiardo di Stato Eugenio Cefis?
Parlamento-Giustizia. Lavorano alacremente, e di comune accordo, per salvare Cefis dalla galera. Sono «casi», questi, davanti ai quali non mi sento affatto «democratico».

 

31 agosto 1989
Riflessioni estive


Un dato costante che si vede chiaramente, che si tocca con mano: lo stato di cassa dei partiti (che pur vengono accusati di totalitarismo oppressivo in tutti i rami della vita) diventa sempre più magro, ma crescono enormemente le ricchezze personali dei singoli uomini politici. Come dire: il convento è povero, ma i frati sono ricchi.
Un secondo dato è quello che i «frati ricchi» della politica quando vanno a denunciare allo Stato le proprie ricchezze, tornano ad essere magri, anzi magrissimi. Quasi nullatenenti.
Direte: ma i politici non sono, in fondo, eguali agli altri milioni di cittadini?
No. I politici hanno obblighi particolari: dettano le regole del gioco sulla pelle di tutti. Debbono essere onesti. Nell'interesse soprattutto di sé stessi. Nessun ceto politico, alla fine, si salva se finisce nella fogna.
È una battaglia da combattere. All'interno delle rispettive Comunità politiche. Dovunque. E fino in fondo. Con determinatezza.
* * *
Venezia, il concerto dei "Pink Floyd". La Città irripetibile della Serenissima è stata sottoposta allo scempio. Invasa da masse sterminate, dove nulla era stato predisposto per accoglierle, è stata ridotta ad un porcile. Poi le vibrazioni degli amplificatori del Concerto hanno danneggiato il gruppo marmoreo del Palazzo Ducale.
Quando un pezzo di Venezia scompare non ci sono possibilità di riprodurlo. Scompare, per sempre. Sepolto, definitivamente. Così scompaiono le Memorie.
È su questo terreno che il nuovo «patriottismo» dovrebbe essere ricostruito e difeso. Il «patriottismo» delle Memorie, dei Castelli, delle Cattedrali rinascimentali, dei Fiumi, del Mare, delle Città irripetibili.
Ma chi pon mano ad esso? Barbari? Ma i Barbari rimanevano almeno stupefatti dinanzi alle grandi Opere dell'uomo e della civiltà. Oggi, in democrazia e per la democrazia, Venezia può diventare tutto: anche un grande, immenso defecatoio.
* * *
Tutti hanno gli occhi puntati su Gorbaciov, come colui che ha messo in moto gli arrugginiti meccanismi della Storia atti a mutare il volto dell'Impero sovietico.
A mio modesto parere chi ha fatto da acceleratore storico al processo che stiamo vivendo è il Papa polacco Carlo Wojtyla, non a caso salito sul Pontificato di Pietro nell'ottobre 1978, subito dopo la scomparsa del Papa del dubbio Montini e di Aldo Moro, il politico amministratore di una Italia senza storia e senza Stato, lo spegnimoccoli di tutte le passioni, in primis quella nazionale.
Papa Wojtyla, prima di essere Papa, è un patriota. E, dalla cattedrale di Pietro, ha difeso, andando per il mondo, la propria Terra. Espresso dal mondo slavo e dal di dentro del comunismo, è Lui che, in nome della Patria, ha scosso l'Impero sovietico, le 15 Repubbliche federative, le 28 Repubbliche autonome, i cento gruppi etnici e i 70 gruppi linguistici dell'URSS. I quali, tutti, ora in nome della Patria, chiedono libertà e giustizia.
* * *
L'Adriatico: una fogna. Sarebbe interessante andare a vedere come si è comportato il potere politico, in Parlamento e negli Enti Locali, quando l'Adriatico, negli anni passati e recenti, doveva essere difeso contro l'incontrollata «chimica», di stato o no, intendo dire dai detersivi, dai pesticidi, dal fosforo e da altri veleni. Che cosa ha fatto il Parlamento contro gli interessi forti della Montedison, di Raul Gardini?
Ricordate la vicenda del metanolo? In Parlamento il 19 luglio 1984, un emendamento riguardante il metanolo, ebbe come relatore il deputato Francesco Piro. Che disse. Ecco testualmente: «Il relatore ha dovuto in breve tempo acquisire nozioni sulla cui validità non ritiene certo di poter impegnare il proprio fondato convincimento, né esortare i colleghi ad accettare per oro colato tutto ciò che è stato esposto. Il dubbio qui non ha ragioni né amletiche né filosofiche. Le convinzioni sulle quali lavora un parlamentare non consentono certo quelle che gli storici chiamano critica delle fonti».
Come dire: non ne so nulla, vengo qui a ripetere cose che mi hanno riferito e sulle quali non posso giurarci. Fate voi. Voi sapete come si lavora in Parlamento. Al disotto dell'approssimazione
Quell'emendamento venne approvato. All'unanimità. In nome della Chimica. E sono venuti i morti. E il discredito del nostro vino. In Italia e fuori. Credete che per l'Adriatico sia stato diverso?
* * *
Gli ascoltatori alle Conferenze stampa dei Segretari di partito in TV.
1974: 17 milioni di ascoltatori.
1989: Un milione e mezzo di ascoltatori.
* * *
I misteri di Palermo. Ruotano nel sangue. Fin da Portella delle Ginestre, la prima strage (1.5.1947) rimasta impunita che vide lo Stato italiano chiedere l'aiuto della Mafia per eliminare il bandito Giuliano.
Il prestigio indiscusso della Mafia data da allora. Assume forza costituente questa Repubblica. Tutti i misteri venuti dopo, e che ruotano nel sangue, portano le identiche caratteristiche di quelli siciliani di 43-44 anni fa. Milano non è meno palermitana di Palermo. Non è la Resistenza a fondare questa Repubblica, è la Mafia.
Se ne vuole prendere atto?
* * *
Il giudice Giovanni Falcone afferma: «Sto assistendo nei miei riguardi all'identico meccanismo che portò alla eliminazione del generale Dalla Chiesa». Il che significa che, in Italia, gli assassinii dei personaggi eccellenti vengono programmati. In pubblico.
Ma possono esserci assassinii eccellenti senza esecutori altrettanto eccellenti?

 

2 settembre 1989
Quella lettera di Mussolini


Mirko Tremaglia me lo consentirà se, in tutta pacatezza, rilevo come la citazione mussoliniana da lui riportata ("Secolo", 21 agosto), sotto il titolo «Quell'accordo (il patto russo-tedesco del '39 - N.d.R.) che indignò Mussolini», non chiarisce i fatti che in quel periodo si vivevano, e perché è una citazione estrapolata da una lunga lettera a Hitler, e perché è purgata di riflessioni che se pubblicate integralmente, non metterebbero in luce il miglior Mussolini, e perché non è situata al punto giusto.
* * *
Comunque dobbiamo essere grati a Tremaglia che, nella sua veste di responsabile della politica estera del partito, apre, finalmente, il discorso, fra noi, sul periodo più tormentato del Fascismo: i rapporti italo-tedeschi, le responsabilità della guerra, il ruolo di Ciano, il dramma che Mussolini sofferse indicibilmente nel 1939 circa il contrasto fra l'esigenza della pace per l'Italia, impreparata alla guerra, e l'urgenza di fissare, tra forze ostili, una solida affermazione italiana nel mondo, ottenuta senza che l'Italia ricadesse nel «vergognoso» sistema dei giri di valzer fra l'uno e l'altro gruppo di potenze (cosi come suggeriva Galeazzo Ciano).
* * *
Discutere il proprio passato non deve farci paura. Per quaranta anni e oltre lo hanno fatto gli altri (e male), perché non farlo noi? Se una tale esigenza, in un mondo in trasformazione, oltre investire i comunisti, ha investito la stessa Chiesa di Cristo, non vedo perché dovrebbe lasciare noi «fuori e indifferenti» dall'affrontare l'esame di coscienza collettivo sul passato che ci ha formati. L'unica cosa che occorre tenere presente, e noi ne abbiamo tutte le condizioni, è che il proprio patrimonio di storia va ricordato, anche impietosamente, mai svenduto, così come capita ad altri, spesso anche alla Chiesa.
* * *
Detto questo torniamo alla «citazione mussoliniana» ricordata da Tremaglia e ricavata da una lettera scritta da Mussolini a Hitler il 5 gennaio 1940, durante il periodo della non belligeranza.
Tale lettera si apre con una vigorosa difesa di Galeazzo Ciano che il 16 dicembre 1939, alle Camere, aveva pronunciato un discorso che, come ricorda lo storico Tamaro, «era tutto pervaso di sottile veleno antitedesco e di richiami anticomunisti».
* * *
Mussolini, nella lettera a Hitler, scrive che il discorso di Ciano («che tanta diffidenza ha generato in Germania») rispecchia interamente il suo pensiero e, difendendo il suo ministro degli Esteri, afferma «che Ciano è stato e rimane uno dei più convinti assertori dell'amicizia italo-tedesca»; il che (ora ragioniamo con il senno del poi) non era, perché se Ciano, nel suo doppio-gioco, era stato il primo cooperatore alla creazione dell'Asse, non senza confessati impulsi ad attaccare preventivamente gli occidentali, poi era divenuto, per circostanze che non è qui il luogo di discutere, un antitedesco viscerale.
* * *
«Mussolini aveva un contegno sempre più incomprensibile verso Ciano. Aveva idee contrarie alle sue, poiché non nascondeva il suo interventismo a favore della Germania, viceversa favoriva il genero, quasi a far credere ai tedeschi di essere d'accordo con lui» (Attilio Tamaro, "Vent'anni di Storia", pagina 392).
* * *
«L'antitesi era completa. Il 31 dicembre Ciano affermava che la guerra a fianco della Germania sarebbe stata un crimine e una idiozia, e che non si sarebbe fatta in nessun caso: se mai si sarebbe andati contro i tedeschi con le democrazie. Pochi giorni dopo Mussolini dichiarava al generale Visconti Prasca: «Noi non vogliamo essere gli eterni traditori. Anche se dovessimo rimanere a mani vuote, gli Italiani devono provare, oggi, che sanno tenere le armi in mano, che son capaci di combattere: devono chiudere, una buona volta per sempre, questa ridicola polemica che si trascina da 70 anni, sul loro valore in combattimento. Qualcuno dice che è il mio chiodo. Sarà il mio chiodo, ma una volta tanto sarà necessario piantarlo solidamente: anche facendo presto, però, avremo il tempo di chiudere la polemica, e questo, questo -e batté il pugno sul tavolo- è più importante anche delle naturali aspirazioni, le quali, quando c'è un esercito, vengono da sé, senza farsi pregare»
(Filippo Anfuso, "Roma, Berlino, Salò", pag. 154).
* * *
Quella lettera a Hitler, dunque, non nasce perché Mussolini era indignato che la Germania e la Russia si spartissero di comune accordo Polonia e Paesi Baltici, ma era il prodotto di altre preoccupazioni quali il dramma che lo stesso Mussolini viveva dentro di sé: di sentirsi
estraniato, in quel momento in cui la guerra aveva inizio, dal grande gioco politico, lui che ne era stato fino a poco tempo prima il protagonista, e perché sapeva (e lo doveva giustificare) che l'Italia era impreparata a rispettare gli impegni che l'alleanza con i Tedeschi imponevano, e soprattutto perché vedeva dilagare nel mondo la fama di un Paese, il suo Paese, sempre pronto agli eterni giri di valzer, a cambiare alleato, pronto a cedersi al miglior offerente. Questo lo offendeva, nel profondo; questo era l'assillo che, nel gennaio 1940, faceva soffrire Mussolini. Questo -se si riflette bene- fu il sentimento primo che lo portò a dar vita alla RSI: l'Italia rispetta la parola data.
* * *
Commenta amaramente Attilio Tamaro ("Vent'anni di Storia", pag. 394): «la lettera che, senza volerlo, pareva una offensiva di pace contro la Germania, mostrava che Mussolini nelle sue riflessioni, se era ingannato dalle informazioni fornitegli dallo Stato Maggiore sugli armamenti, lo era altrettanto da quelle fornitegli dagli Esteri (leggi Ciano - N.d.R.) sulla situazione internazionale».
Se quella lettera ha un significato «morale» resta un documento sul «doppiogioco» di Galeazzo Ciano, e ritengo che su tale argomento anche Mirko Tremaglia abbia le mie stesse convinzioni.
* * *
Un'ultima riflessione e questa è mia e me ne assumo tutte le responsabilità.
Quella lettera di Mussolini pare suggerire a Hitler quell'attacco alla Russia che, per chi scrive, rimane l'errore capitale (tutto di Hitler) della guerra e la causa della sconfitta.
E su questa affermazione, si può, penso, parlare fra noi. Pacatamente. Per schiarirci le idee. Anche Tremaglia sarà d'accordo.
 

Giuseppe (Beppe) Niccolai