dal "Secolo d’Italia"
7 gennaio 1989
Moralizzatori a perdere
L'articolo 3 della legge 15-2-1953 n. 60 sulle incompatibilità parlamentari,
recita: «I membri del Parlamento non possono ricoprire cariche, né esercitare le
funzioni di amministratore, presidente, liquidatore, sindaco o revisore,
direttore generale o centrale, consulente legale o amministrativo in Istituti
bancari o in società per azioni che abbiano, come scopo prevalente, l'esercizio
di attività finanziarie. I membri del Parlamento per i quali esista o si
determini qualcuna delle incompatibilità previste debbono, nel termine di 30
giorni dalla pubblicazione della presente legge sulla Gazzetta Ufficiale, optare
fra le cariche che ricoprono e il mandato parlamentare».
* * *
Ora è a tutti noto che il sen. Bruno Visentini, essendo presidente della
Finanziaria CIR, la holding del gruppo De Benedetti (centomila dipendenti, 13
mila miliardi di fatturato), avrebbe da un pezzo dovuto lasciare la carica di
senatore. Invece, a dispetto della legge, rimane di qui e di là. In più il
cittadino italiano è costretto, un giorno sì e uno no ad ascoltare i discorsi
moralizzanti di questo repubblicano di ferro, tributarista celebre, carico di
quattrini, fra l'altro ministro famoso per avere imposto i registratori di
cassa, di cui è produttore ad Ivrea il suo padrone. Ora, con l'aiuto di Giovanni
Spadolini, presidente del Senato e come lui repubblicano, e grazie alle manovre
della Commissione della Giunta delle elezioni, il senatore, continua,
imperterrito, a ricoprire le due poltrone.
* * *
Abbiamo scritto manovre della Commissione delle elezioni. Perché? Perché la
Commissione, anziché fare il suo dovere intimando al senatore di andarsene,
scrive lettere e domanda (udite! udite!) all'interessato se ha rinunciato, o no,
agli incarichi esterni; bello no! Scrivono e perdono tempo. In questo modo passa
anche una legislatura, e chi si è visto si è visto...
* * *
O non fece altrettanto Giorgio La Malfa, segretario nazionale del PRI? Anche lui
violò, per anni, la legge. Quando fu eletto (il 7 maggio 1972) era direttore
della società per azioni RES, ricerche e studi della Mediobanca. Fra lettere e
controlettere tenne il posto fino al luglio 1974, per poi assumere
(impareggiabili questi repubblicani che vanno da La Malfa a Gunnella!) la carica
di presidente del Comitato tecnico-scientifico della stessa società RES, carica
che tenne fino al luglio '75 perché solo allora la Giunta delle elezioni si
decise a dichiararlo incompatibile. Sono giochetti che nelle... severe aule di
Palazzo Madama e di Montecitorio allietano le giornate (intense, ma chi ci
crede?) dei nostri parlamentari.
* * *
L'altro grande, e non perché se ne andò dopo essere stato Governatore della
Banca d'Italia e presidente della Confindustria nel comune di Monte Argentario,
del quale era sindaco Susanna Agnelli, a tenere il dicastero delle Finanze (fra
l'altro, il comitato di controllo gli bocciò il bilancio per irregolarità), che
deve ormai da anni, scegliere, è il Guido Carli, notoriamente uomo della lobby
Fiat. In barba alla legge continua a farsi legislature dalle quali avrebbe
dovuto essere espulso come incompatibile. O non presterà, per caso lui
rappresentante della più grande lobby nazionale, i suoi consigli per una legge
antimonopolio? Anche questo ci è dato vedere! Il tutto sotto la grande ala
protettrice di un altro grande moralizzatore: Giovanni Spadolini, presidente del
Senato.
* * *
Mi è capitato di citare Susanna Agnelli come sindaco del comune di Monte
Argentario, uno dei più belli dal punto di vista paesaggistico del Grossetano.
Fra repubblicani si intendono. Infatti, la sindachessa venne informata che, fra
le ville abusive del comune da lei amministrato, c'era anche quella del dott.
Andrea Manzella, attuale segretario generale della presidenza del Consiglio. Che
fare? Andrea è repubblicano. Come fargli l'affronto di inviargli i vigili urbani
per contestargli il reato? La sindachessa aggirò l'ostacolo: si rivolse ai
carabinieri e l'Arma pensò alla bisogna. Il condono è stato pagato?
* * *
Però, come è dura la vita di questi repubblicani di vertice, cosi compassati,
cosi assidui difensori del denaro pubblico, così austeri personaggi dello Stato
di diritto! E i loro rapporti con la DC sono così stretti che imprestano i
propri uomini allo scudo crociato, anche se puzzano di loggia massonica lontano
un miglio!
* * *
Guido Carli ne è un esempio. Quando gli fu offerta, da parte della DC, la
candidatura senatoriale, telefonò ad Agnelli e a Ugo La Malfa per avere il
permesso: posso andare? posso accettare? E Guido Carli, l'uomo della Fiat e
della Banca, si è fatto democristiano.
* * *
Ormai la scelta dei partiti avviene con gli stessi criteri con i quali si
sceglie un ristorante. Il Partito Repubblicano Italiano? Troppo piccolo, si sta
stretti. Meglio andare con la DC. Lì ci si mangia meglio.
Poi c'è qualcuno che, stigmatizzando l'assenza dei deputati dall'aula ce li
vorrebbe mandare a calci nel sedere, e con punizioni terribili! Si richiede una
presenza faticosa e inutile, non tanto da teste pensanti ma dal numero
necessario a sostenere magari sottobanco o far cadere le maggioranze.
* * *
I partiti sono questi. Non ci crede più nessuno. Si scelgono per convenienza e
ci si sta per curare la propria trippa. E, in nome della trippa, si delegano i
pochi a decidere per tutti. Per il resto mi prendo le indennità, doppie pensioni
(quella regionale e quella parlamentare), per riscuoterle più presto mi faccio
riconoscere inabile al cento per cento, viaggio per il mondo a spese del
contribuente. Il tutto alla condizione che non pensi, che non mi venga fatto di
alzare il dito e di obiettare. L'unica cosa a cui sono tassativamente tenuto è
di schiacciare il bottone della votazione, così come stabilito altrove e dalle
teste che contano. Il verbale riporterà: presente, e tutto è a posto! Più
schiacci bottoni è più sua maestà il partito ti sarà riconoscente. Anche se sei
un cretino!
* * *
Si sono, da più parti, onorati i 90 anni di Randolfo Pacciardi. Nessuno si è
ricordato del 1961. Quando la sorte del centrosinistra era legata al congresso
repubblicano di Ravenna. Erano in lizza due mozioni, quella di Ugo La Malfa
favorevole all'apertura ai socialisti, quella di Pacciardi contraria.
Nella vicenda fecero la loro comparsa i servizi segreti che con una valigia
carica di milioni (milioni del 1961!) si dettero da fare per corrompere i
delegati e perché votassero il documento di La Malfa.
II centrosinistra si fece. Gelli non c'era ancora. Ma i sistemi, che saranno poi
da lui illustrati, signoreggiavano di già nella politica italiana, di natura
tutta sudamericana.
Il popolo in questa partitocrazia non esiste. Le elezioni non sono vere
elezioni. Sono acclamazioni per le oligarchie dei partiti già insediati al
potere. Potere che tengono anche con i servizi segreti, spesso con le stragi.
Per conto dello straniero.
* * *
A proposito. Si chiedono sempre ai comunisti (e si fa bene) garanzie di
indipendenza dallo straniero. Nessuno però le chiede al Partito Repubblicano,
alla Democrazia Cristiana, al Partito Socialista Italiano, al Partito Socialista
Democratico Italiano. O non è questa la fondamentale questione morale?
11 febbraio 1989
II tempo del Tiranno
«Si può dare per certo che il XXI Secolo, ben altrimenti progredito del nostro,
guarderà ad Hitler e a Stalin come a due chierichetti». (E. M. Cioran, il
Demiurgo cattivo)
Vedo che sono sommerso dalle contestazioni, anzi che mi trovo vicino al rogo,
come infedele, per quello che ho scritto sulla violenza terroristica. Non è la
prima volta. Il “Secolo” pazienti. Le mie posizioni (che mantengo ferme) non
sono quelle del partito e, lungi da me, il volerle imporre. Quindi imputato. Ma
prima che la Corte si ritiri per il giudizio definitivo alzo la mano e chiedo di
fare una dichiarazione. Si tranquillizzino le anime buone: non sarò assolto!
* * *
Mosè (la Sacra Bibbia, Deuteronomio 3, “Conquista del regno di Og”)
«Così il Signore, nostro Dio mise in nostro potere anche Og re di Bason, con
tutta la sua gente; noi lo abbiamo sconfitto, senza lasciargli alcun superstite.
Gli prendemmo tutte le sue città, noi le votammo allo sterminio, come avevamo
fatto di Sicon, re di Chesbon: votammo allo sterminio ogni città, uomini, donne
e bambini. Il bestiame e le spoglie della Città asportammo per noi come preda...
Quando ti avvicinerai ad una Città e non vorrà fare la pace con te, allora
l'assedierai. Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani, ne colpirai,
a fil di spada, tutti i maschi, le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà
nella Città, li prendersi come tua preda... Nelle Città di questi popoli che il
Signore tuo Dio ti da in eredità non lascerai in vita alcun essere che respiri,
ma li voterai allo sterminio …»
* * *
Basta ricordare l'origine degli Stati per avvedersi che la violenza e lo
spargimento dì sangue sono all'inizio di essi. La Francia moderna nasce in mezzo
a stragi, la Russia sovietica si consolida con la cancellazione della vita di
milioni di ignoti contadini, non tutti certo colpevoli. Perfino l'India, nata
dal verbo umanitario della non resistenza di Gandhi, ha tanti morti che nessuno
è riuscito mai a contarli.
C’è, nella storia, l’apologia dell’assassinio liberatore. Certi padri Gesuiti
spagnoli del sedicesimo secolo ammisero il diritto al regicidio…
* * *
Sono note che mi permetto di sottoporre all’attenzione di quei «moralisti»
politici che, confondendo la morale con la politica, si mettono, per dirla con
Benedetto Croce prima maniera «a pronunciare giudizi morali degli Stati e dei
Popoli,attribuendo diritti a chi non se li sa conquistare o non li sa difendere,
e limiti e doveri a chi, tendendo la propria mente e spargendo il proprio
sangue, a ragione non riconosce altro limite e dovere fuori di quelli che la
propria mente e la propria forza gli consigliano e pongono».
* * *
Questi moralisti della Storia sono portati a dire che il terrorista di oggi
(anzi criminale) è diverso da quello dell'Ottocento perché, mentre il secondo
puntava a colpire solo il Tiranno, questo di oggi spara nel mucchio, uccidendo
innocenti. È vero, ed è doloroso. E nessuno più della nostra Comunità può
esserne buon testimone. Comunità ingiustamente messa sotto accusa (e che
accusa!) per «bombe assassine», sistemate fra innocenti con una «tecnica
sudamericana», di cui i Servizi interni ed esterni, addetti a stabilizzare
maggioranze e a tenere in piedi equilibri internazionali, hanno licenza di
utilizzare, cioè licenza di uccidere.
* * *
Questi sono i tempi. E in questi tempi, in cui cadono vittime innocenti da una
parte e dall'altra, c'è il povero paralitico della “Achille Lauro”, barbaramente
assassinato, ma ci sono anche i bambini dei Campi di Sabra e Chatila, con i
quali si è fatto, come fossero piccioni, il tiro al bersaglio.
* * *
Tempi postmoderni, ma mai tanto feroci, anche se non nuovi, Mosè insegna. Ma
possono le categorie della criminalità interpretare fedelmente questi tragici
fatti? Non credo, infatti, che le incursioni aeree, compiute a scopo di
intimidazione e di ritorsione, colpiscano, nella loro furia devastatrice, solo i
tiranni e i cattivi. Colpiscono nel mucchio. O dovremmo credere che questo
sistema di morte, perchè eseguito dai più sofisticati aerei da combattimento,
escluda che si tratti di terrorismo? Ma, allora, direte, la differenza in che
cosa consiste?
* * *
È che l'umile sottoscritto si limita a prendere atto che questo è il mondo (fin
dai tempi di Mosè), e che, ahimè, solo i popoli che sono capaci dì fronteggiare
questi tempi, restano in piedi. Gli altri spariscono, o tutt'al più si dedicano
al lamento. Piagnoni e dispersi.
* * *
La tragedia di Ustica, dell'Argo 16, delle stragi impunite, del Mediterraneo
«mare loro», invaso da Flotte e aerei di tutte le nazionalità, ci dicono e ci
raccontano abbastanza vivacemente, che siamo esposti a pericoli di immensa
gravità, di portata apocalittica.
Perché? Perché non siamo indipendenti. Perché abbiamo delegato gli altri a
scrivere la storia anche per noi. E ce la scrivono addosso. Perfino un
colonnello come Gheddafi!
* * *
È stato scritto «il dramma è che dietro la struttura politica statale non c’è
più un sentimento di appartenenza. L'Italia è un territorio in cui abitano 56
milioni dì uomini uniti dal caso, senza storia, senza radici e quindi senza
immaginazioni e senza speranze per il futuro, rassegnati a essere sballottati
dai costruttori di storia, dagli americani, dai tedeschi, dai russi, dal
persiani, dai sauditi, dai libici; dateci pace e petrolio perché possiamo
continuare a vivere dimenticando di essere vivi»
Questo è il nostro dramma: sballottati dai costruttori di storia!
18 febbraio 1989
Dalla Repubblica al Laterano
Febbraio 1849: a Roma viene dichiarato decaduto il potere temporale dei Papi e
proclamata la Repubblica romana, retta da un triumvirato: Mazzini, Saffi e
Armellini. Finirà nel luglio, soffocata, nel sangue, dalle truppe francesi.
1849-1989: ricorrono, in questi giorni, i 140 anni della Repubblica romana, come
i 60 anni dei Patti del Laterano.
* * *
Qualcuno, anche in casa nostra, ha storto naso e bocca a sentire parlare di un
Mazzini «fascista». E bene che si ricompongano, nel naso e nella bocca. Giuseppe
Mazzini, già con il primo discorso di Mussolini da Radio Monaco, agli Italiani
il 18 settembre 1943, diviene il Padre putativo della RSI. Il suo volto, e non
quello di Mussolini, apparirà, sull'unica serie di francobolli per posta
ordinaria emessa da parte della RSI; molte delle cartoline postali delle Forze
Armate della RSI verranno stampate con motti mazziniani. Non solo: il ritratto
di Mazzini sostituisce quello di Vittorio Emanuele III nelle Scuole e negli
uffici pubblici, e l'Istituto di Studi sul Risorgimento prenderà il nome di
Istituto di Studi mazziniani e sul Risorgimento.
* * *
Scrive Montanelli che «fra la Patria di Mussolini e quella di Mazzini correva un
abisso. Mussolini la voleva aggressiva e marziale, cioè peccaminosa; Mazzini la
voleva monacalmente virtuosa e casta».
A parte il fatto che nel contesto storico in cui Mussolini visse e operò, tutte
le Patrie, a cominciare da quelle democratiche, furono aggressive, marziali, ed
io aggiungo sopraffattrici, e quindi peccaminose, resta il fatto che ricorrono
queste parole dell'Apostolo genovese che, sulla questione, fanno chiarezza
netta: «Amo la libertà, la amo forse più di me stesso, ma la Patria io l'amo più
della libertà».
* * *
Se qualcuno rimanesse non del tutto persuaso di ciò che si è affermato, c'è il
discorso che Mussolini tenne al Lirico di Milano la mattina del 16 dicembre
1944. C'è un passo, in tema dei diritti civili del cittadino, in cui Mussolini
così si esprime: «Fu detto nel Manifesto di Verona che nessun cittadino può
essere trattenuto oltre i sette giorni senza un ordine dell'autorità
giudiziaria. Ciò non è sempre accaduto... Debbo dichiarare, nel modo più
esplicito, che taluni metodi mi ripugnano profondamente. Lo Stato, in quanto
tale, non può adottare metodi che lo degradano... Mazzini, l'inflessibile
apostolo dell'idea repubblicana, mandò agli albori della Repubblica Romana del
1849 un Commissario ad Ancona per insegnare ai Giacobini che era lecito
combattere i papalini ma non ucciderli extra legge, o prelevare, come si direbbe
oggi, le argenterie dalle loro case. Chiunque lo faccia, specie se per avventura
avesse la tessera del partito, merita doppia condanna ...».
* * *
A quali riflessioni può condurci, oggi, il ricordo della Repubblica Romana del
1849?
Assurdo sarebbe rifarsi, rispolverandolo, ad un vecchio anticlericalismo di
maniera. Non servirebbe. La riflessione se mai è quella di chiederci se quei
tempi antichi possano aiutarci a capire quelli moderni, se possono rispondere
alla domanda, tanto per fare un esempio, per quali misteriose vie, la storia
abbia costruito l'attuale potere DC, potere -ecco il punto- che sarebbe
improprio andarlo a trovare solo prima del periodo fascista.
* * *
L'attuale potere DC -non dispiaccia l'affermazione- nasce dentro Io Stato
fascista, quando la Chiesa, con Pio XI, si definisce come un principio di
civiltà, portatrice quindi di una ideologia politica che prende cura di tutto lo
spazio del cristiano, da quello religioso a quello civile. Diventa totalità, si
definisce essa stessa soggetto dinanzi alle altre totalità. Basta pensare
all'azione cattolica che dissimula la propria autonomia nelle posizioni
antiliberali, anticapitalistiche, anticomuniste del Regime fascista. Il
linguaggio con cui la Chiesa e il Fascismo si definiscono, negli anni '30, come
soggetti totali è simile, quindi alternativo.
* * *
La base storica dell'egemonia DC in Italia, non è negli «antifascisti» Murri e
Sturzo, ma è nei Patti Lateranensi che hanno reso possibile la connessione tra
Chiesa e Istituzioni statali, fra Istituzioni statali e la DC. Compenetrazione
delle Istituzioni che si è configurata, fin dagli anni '30, appunto con i Patti
del Laterano.
Quando tutto crolla, con la sconfitta, il corpo istituzionale dello Stato
(burocrazia, esercito, ceto medio) ricorre, come ad un salvagente, alla
struttura concordataria, trasferendo tutta la sua influenza sulla forza politica
che è espressione dell'istituzione ecclesiastica, la DC appunto.
* * *
La DC ingloba tutto: l'apparato statale (il partito del re), lo Stato
concordatario, con il lasciapassare USA di rappresentare, in Italia, il
trasbordo dello stesso Stato italiano nel sistema imperiale americano (la via
americana).
Da qui il carattere dello Stato italiano: una democrazia che può essere
considerata legittima solo se gestita dalla DC. Da qui le condizioni limitative
della Democrazia italiana: si è cittadini di pieno diritto solo se si collabora
con la DC, altrimenti c'è la discriminazione, la demonizzazione. L'Italia, un
Paese non libero ma protetto, a sovranità limitata, con una Democrazia dalle
condizioni limitanti di fatto l'esercizio del diritto di voto degli italiani.
* * *
L'essere il partito delle istituzioni ha fatto della DC un partito «più». Le ha
garantito sempre la direzione dello Stato, le ha garantito l'immedesimazione di
se stessa con le istituzioni. Con tutte le conseguenze del caso, non ultima
quella che il terrorismo non è, in fondo, che la reazione al fatto che, con
l'attuale sistema, essendo l'alternanza al potere resa impossibile, è l'arbitrio
che comanda. Anche quando il potere gestisce criminalmente la cosa pubblica,
nulla muta. La DC resta.
* * *
La crisi della società è questa, e si chiama DC. Siamo partiti dalla Repubblica
Romana per finire (siamo di febbraio) al sistema concordatario che è alla base,
insieme ad altri fattori che sfuggono ora all'analisi, del potere DC. C'è
materia per discutere. Anche nelle nostre fila. E sia ringraziato il 140°
anniversario della Repubblica Romana se ciò lo renderà possibile. Fuori da tutte
le declamazioni, apologie e demonizzazioni.
I Patti del Laterano se, per il Fascismo possono rappresentare aspetti
contraddittori, per l'antifascismo, l'averli accettati e fatti suoi,
rappresentano, ancora una volta, che il 1945 non fu una rivoluzione ma la più
piatta e grigia delle restaurazioni. Da parte dell'antifascismo, si intende.
25 febbraio 1989
Teoremi «stabilizzanti»
Vive nell'anno di grazia 1989, alle soglie del 2000, in quel di Firenze, un
Magistrato, di nome Pier Luigi Vigna, che le cronache descrivono illuminato,
anche se, spesso, carico di protagonismo esasperato.
Nella sua requisitoria, durata più di 20 ore per la strage sul Rapido 904, fra
le altre cose, ha riletto la nostra storia, quella quarantennale della
Repubblica italiana, parlandoci di una Stato italiano (dove risiede, per
cortesia?) e di una perversa alleanza che si sarebbe stabilita fra mafia,
camorra e eversione nera, per abbatterlo nelle sue Istituzioni libere e
democratiche...
* * *
L'avvocato Guido Calvi, per la parte civile: «È stata una requisitoria di
altissimo valore per l'analisi dei fatti e per la riflessione di rara
intelligenza, su mafia e eversione». «La strage del Rapido 904 è stata il
delitto di mafia più freddo e calcolato che sia stato compiuto dopo Portella
delle Ginestre», hanno incalzato altri due difensori di parte civile, gli
avvocati Nino
Filaste» e Danilo Ammarinato.
* * *
Dunque, dopo tanto indagare, dopo tanti misteri, la formula è stata trovata: la
camorra, la mafia e l'eversione nera si sarebbero alleate, al punto che, per
distogliere l'attenzione da sé, (in territori che Io Stato non controlla più,
tanto che si deve infiltrare lui nella mafia se vuole sapere qualcosa (vedi il
pentitismo), si sarebbero messe tutte insieme a piazzare bombe su quel tratto di
ferrovia che, qualunque cosa ivi accada, per precedenti ormai codificati
dall'antifascismo militante giudiziario, si deve ritenere di provenienza «nera»,
anzi «nerissima».
* * *
La sprovvedutezza di questi eversori neri deve essere dal nostro illuminato Pier
Luigi Vigna davvero apprezzata se, arrovellandosi lui per anni sui propri
teoremi, gli viene fornita, su un piatto d'argento, la tanto sospirata
soluzione! Ma il nostro estimatissimo Magistrato non ha mai pensato, se del
caso, scegliendo i maligni proprio quel tronco di ferrovia già targato, la
camorra e la mafia, ammesso che siano loro che abbiano operato il crimine,
abbiano operato il crimine, abbiano voluto, deliberatamente, additare nel «nero»
il diversivo, per distrarre da se ogni sospetto?
Non si disse subito, appena il crimine venne commesso, che erano stati i neri?
Ve lo ricordate?
* * *
L'attacco allo Stato democratico. Ma quale bisogno di attaccare se lo Stato
repubblicano è nato, dalle doglie «liberatorie», mafioso (a riportare i mafiosi
in sella, dopo lo sbarco alleato in Sicilia non furono certo i fascisti!), tanto
che lo Stato in quanto tale non esiste più, almeno in Sicilia, Calabria e
Campania. A scriverlo, a gridarlo dai tetti non siamo noi, ma tutta la stampa,
tutta l'informazione democratica!
* * *
Certe cose per affermarle bisogna provarle. Certo. E allora si prendano i libri.
Quelli ufficiali, democratici, antifascisti. Dato che si è voluto raccordare la
strage del Rapido 904 alla strage di Portella delle Ginestre (la prima in
Italia), quella eseguita dal bandito Giuliano in Sicilia (per conto di chi?
Mistero non risolto), leggiamo cosa scrive la Relazione conclusiva di
maggioranza (DC - PSI - PRI - PSDI), consegnata alla Camera il 4 febbraio 1976:
«Si tratta purtroppo di una verità amara, che è resa ancora più amara dalla
falsità della versione iniziale circa la morte del bandito. Fu d'altra parte
proprio la certezza, ben presto acquisita dalle popolazioni locali, che era
stata in definitiva la mafia a liberare l'Isola dal terribile flagello del
banditismo a costituire l'ultimo dei fattori che contribuirono nel dopoguerra a
ristabilire l'oppressione del potere mafioso sulle contrade della Sicilia»
(Relazione di maggioranza, pagina 132).
* * *
Dunque la mafia, incaricata dallo Stato Repubblicano di far fuori Giuliano,
viene «costituzionalizzata», con l'aggiunta dell'articolo 16 del Trattato di
Pace che impone all'Italia di non perseguire penalmente i boss di Cosa Nostra
che, su richiesta del Governo USA, hanno collaborato alle operazioni militari
dello sbarco alleato in Sicilia nel 1943.
* * *
È la mafia che coopera a «liberare» l'Italia dal fascismo, guadagnandosi così il
diritto di essere considerata, con lo Statuto regionale del 1946, forza
costituzionale dello Stato, al punto che quando il Generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa, vuole mettere le manette alla mafia, è lo stesso Stato repubblicano che
Io lascia «solo» perché venga assassinato come elemento perturbatore
dell'egemonia costituzionale mafiosa instaurata ufficialmente in Italia con la
sconfitta.
* * *
Pier Luigi Vigna, Magistrato insigne, dalle letture facili e dalle requisitorie
altrettanto scintillanti, ci deve far sapere, visto che ha scoperto l'alleanza
«mafia - camorra - eversione nera», come giudichi l'altra alleanza, quella
stretta fra lo Stato Repubblicano, uscito dalla Resistenza, con la camorra di
Raffaele Cutolo e con le BR di Senzani, ai quali, per ottenere la liberazione
del DC Cirillo, si sborsano due miliardi e passa (soldi destinati ai terremotati
dell'Irpinia?) che, fra l'altro, serviranno ad assassinare altre persone, il
tutto sotto l'auspicio del Ministro dell'Interno, on. Gava? Quale soluzione al
teorema che vede la DC finanziare, al contempo, camorra e terrorismo?
* * *
No, eccellentissimo Giudice, i conti non tornano e nemmeno i teoremi. Mafia e
camorra sono dentro Io Stato, non fuori. Che bisogno hanno, la camorra e la
mafia, di assaltare uno Stato che si è fatto «loro», in tutti i modi di vita,
che è congeniale al sistema criminale che, da Bolzano a Palermo, ci delizia?
Ho bisogno forse, per citare un caso fra i mille, ricordare che i partiti
dell'Italia repubblicana, per rubare più liberamente, elessero a Capo della
Guardia della Finanza, delegata a combattere i ladri, un Generale che, al
contempo, era Capo dei contrabbandieri?
Il Giudice Vigna farà bene a ricordare, imparandosele a memoria, le parole che
l'allora Direttore del "Corriere della Sera" Alberto Cavallari, scrisse in
memoria di Alberto Dalla Chiesa, assassinato ai Palermo dalla mafia e da uno
Stato impotente e complice:
«La mafia non è più un fenomeno regionale. Dalla Chiesa muore perché spedito al
fronte senza tenere conto che dietro le sue spalle la mafia ha invaso le
retrovie, gli stati maggiori, l'Intendenza, il territorio nazionale. Che può
fare Dalla Chiesa se Milano è mafiosa come Palermo, se Torino ha più cosche di
Agrigento, se Roma è una grande Bagheria, e se tutto si lega alla mafia di New
York, attraverso una rete fitta di ricatti, rapimenti, finanziamenti,
associazioni per delinquere, commerci internazionali di droga, sistemi
finanziari alla Calvi, basati sulla malavita? La mafia è stata nazionalizzata,
ha invaso come cancro l'intero corpo della nazione e così amministra, uccide,
finanzia, ricicla, decide, giudica, scrive, lottizza e governa».
* * *
Pier Luigi Vigna si compiace definirsi «uomo di sinistra». Il giornalista
Parlato, scrittore di punta del quotidiano più intelligente della sinistra "il
manifesto", scrive: «Questo Stato ha una potenzialità di violenza superiore a
quella di quattordici mafie messe insieme». È d'accordo?
Del resto non è l'umile sottoscritto a scrivere che le bombe sui treni ce le ha
messe lo Stato, questo Stato. Per stabilizzare maggioranze, equilibri
internazionali. Secondo la logica, mai ripetuta abbastanza, che è meglio essere
governati da dei ladri che da degli assassini. E gli assassini si costruiscono,
appositamente. Con i teoremi.
4 marzo 1989
Eroi di cartone e mafiosi DOC
Il "Corriere della Sera", occupandosi del Congresso DC, titola «Baci a Cariglia,
eroe della Resistenza». E ci spiega che quando Ciriaco De Mita stringe le mani
di ospiti e di invitati, la generosità DC si spreca: gli applausi piovono
abbondanti su amici e nemici. L'applauso più lungo, più sincero e più
appassionato se Io aggiudica Cariglia, eroe della Resistenza...
* * *
Ora una sentenza del Tribunale di Rieti del 21 aprile 1949, numero 1245 -terra,
quella di Rieti e dintorni, nella quale il Cariglia operò come partigiano
monarchico- ci fa sapere che, fra le azioni eroiche dell'attuale Segretario
nazionale del PSDI, c'è anche la «cattura» di 30 pecore, di 10 kg di grassi, di
15 kg di legumi, di 50 litri di vino e di 50 kg di farina, in danno di certo
Balduzzi Angelo. Non solo, ma il 12 giugno 1944, in una... rischiosissima
azione, alcuni partigiani, per ordine dello stesso Cariglia, si introducono
nella abitazione di certo Calderini Carlo, asportando circa tre quintali di
lenticchie. Non basta, in altro giorno del giugno suddetto, altri partigiani,
sempre su ordine del Cariglia, penetrati nella casa del dott. Iacobelli Antonio,
asportano dalla stessa (la sentenza non dice se rischiando la vita) 65 kg di
farina, mandorle e grano. Il tutto, arrestando arbitrariamente i poveri
proprietari delle masserizie prelevate; tanto che il Comandante dei partigiani
della zona, capitano Barco Luigi, informato dell'accaduto e dell'arbitrario
procedere del Cariglia, destituisce l'eroe (dell'EUR-DC), ristabilendo, afferma
la sentenza, l'ordine e la tranquillità nella popolazione.
* * *
A seguito dei rapporti dei Carabinieri sui fatti suddetti, il Cariglia (l'eroe
dell'EUR-DC) viene rinviato a giudizio per i reati di estorsione, furto
aggravato, sequestro di persona, ma il tutto si risolve in una assoluzione, in
quanto il Tribunale asserisce che i fatti, al Cariglia-eroe addebitati, possono
tutti essere fatti rientrare in veri e propri fatti di guerra, e quindi non
punibili.
* * *
Non sappiamo se il Cariglia si porti, nel portafoglio, la su riferita sentenza,
o se, per caso, l'abbia incorniciata. Se non lo ha fatto deve provvedere.
Immediatamente. L'applauso dirompente ricevuto all'EUR, quale eroe della
Resistenza, lo esige.
* * *
Nella rubrica "Terra di tutti" ("l'Unità"), Emanuele Macaluso ci parla di Vito
Ciancimino, delle sue spettacolari ricchezze accumulate, di quanto su di lui,
come uomo di mafia, ha scritto la Commissione. Eppure, argomenta Macaluso, ora
Ciancimino pare figlio di nessuno, quasi un orfano. No grida Macaluso,
Ciancimino è un prototipo DC.
* * *
Strano. Nella dichiarazione di voto di Cesare Terranova, fatta per conto del
PCI, un magistrato integerrimo assassinato dalla mafia, al momento della
consegna alle Camere delle relazioni conclusive sulla mafia, c'è una sia pur
larvata difesa di Vito Ciancimino. Non è Ciancimino importante, dice Terranova,
ma tutto il sistema di potere che a Ciancimino ha reso possibile le cose che ha
fatto. Prendersela solo con Ciancimino non vale, non serve.
* * *
Terranova ha ragione, da vendere. Infatti Emanuele Macaluso, da tempo, è
chiamato a spiegarci come sia avvenuto il passaggio delle vecchie miniere
baronali dalla mano privata a quella pubblica. Ha scritto Sciascia che nulla
capiremo della mafia finché non metteremo in luce tutti gli aspetti di questa
vicenda.
Perché si vollero pubblicizzare quelle vecchie miniere? Chi favorì l'operazione?
Chi la rese possibile giuridicamente? Con quali giustificazioni? Quanto furono
pagate?
* * *
L'evento accadde quando, in Sicilia, Emanuele Macaluso era uomo di potere,
quando comandava. Lui quella storia la sa. Alla perfezione. Più volte gli è
stato chiesto di raccontarla. Perché è così restivo? Di penna facile come è, non
dovrebbe poi essergli difficile illuminarci su uno spaccato (e che spaccato!) di
vita (mafiosa) siciliana. E proprio certo che il PCI non c'entri per nulla?
* * *
Trovo su una ingiallita pagina di "Panorama" (17.8.76), queste parole di Giorgio
Galli: «Nella scorsa legislatura, un deputato del MSI (Niccolai) presentò un
ordine del giorno per chiedere che non facessero più parte del Governo uomini
inquisiti dall'antimafia. Non se ne fece di nulla». Fin qui Giorgio Galli. Si
deve aggiungere che anche il PCI nulla fece perché quell'ordine del giorno
passasse.
* * *
Sempre per restare in... Sicilia, leggo ("Panorama" 29.1.89): «Nelle cinque
Regioni a statuto speciale, il trattamento dei deputati, dal punto di vista
economico, è ancora più ricco. Il caso più eloquente è quello della Regione
Sicilia, dove il cumulo delle indennità è addirittura principesco. Al semplice
deputato regionale toccano, per cominciare, 8.856.000 lire lorde. Nel conto,
poi, occorre aggiungere: diaria per le spese di soggiorno (837.000 lire al
mese); gettoni di presenza (55.880 lire al giorno); rimborso spese trimestrali
(200-250 mila lire al mese); spese di viaggio (6,2 milioni l'anno per il
deputato, 2,5 per il coniuge, 471 mila per ogni figlio a carico, più altri 6
milioni per il deputato che ne faccia richiesta); contributo pasto (17.500 lire
a pasto per un massimo di due pasti al giorno); spese postali (125 mila lire al
mese); telefono (900 scatti per i deputati regionali semplici, 1.500 per quelli
con qualche incarico); spese di missione (95 mila lire al giorno se in Italia,
150 mila se all'estero, più le spese di albergo e di ristorante documentate).
Non è finita. Le indennità di carica vanno da un minimo di 306 mila lire al mese
per il segretario delle Commissioni, a 3,7 milioni per gli assessori, fino a 5,7
milioni per il Presidente. Le auto blu non si contano. Last but not least,
l'indennità per il portaborse: altri 3 milioni al mese per ogni deputato.
* * *
Nessuno ha rettificato queste cifre!
11 marzo 1989
Torbidi affari di «senzabandiera»
Scrive il "Corriere della Sera" (4.3.89): «Stavolta ci siamo davvero, siamo
all'ultima spiaggia. Tra poche ore un Tribunale comincerà a scoprire le carte
segrete del caso Cirillo, l'affare politico più torbido e inquietante nella
storia dell'Italia repubblicana».
* * *
Dentro la vicenda giudiziaria lo stato maggiore della DC con Antonio Gava,
Vincenzo Scotti, Flaminio Piccoli, e Francesco Patriarca. "Dentro i Servizi
segreti. Dentro i capi più spietati della camorra. Dentro la colonna napoletana
delle Brigate Rosse.
* * *
Si tratta di una vicenda di strage. Si tratta di miliardi passati alle BR e alla
camorra. Si tratta di un intreccio, basato su prove e non sulle confessioni dei
pentiti, per cui lo Stato repubblicano, così come avvenne per il bandito
Giuliano nel 1950, viene utilizzato dallo Stato-partito democristiano, per
contrattare la liberazione di uno dei suoi; cosa che non si era fatta per Aldo
Moro. E la trattativa, Io ripetiamo per farci intendere meglio, investe
ministri, uomini politici, direttori di carceri, capi camorra, capi BR,
malavita, apparati dello Stato, in testa i Servizi segreti.
* * *
Il giudice Alemi, al termine della sua inchiesta, a diversità degli inni di
gloria innalzati al magistrato Pier Luigi Vigna per il suo teorema «mafia -
camorra - terrorismo nero», è stato censurato dal ministro Vassalli e dal
Presidente del Consiglio DC Mita, ed è in attesa di una decisione disciplinare
del CSM.
* * *
Nella turpe vicenda c'è ben altro: vale a dire che la vita di Cirillo non fu mai
in pericolo. Fatto sta che dopo la sua liberazione arrivano in Campania i soldi
della ricostruzione, una pioggia di miliardi che sicuramente faceva-I no gola a
molti, in testa la camorra, e i partiti.
* * *
C'è ancora di più. Ho parlato di strage. Perché, a parte i morti raccattati
durante il rapimento dell'assessore DC, la strage è continuata per anni, anche
dopo che Cirillo era ritornato a casa. Vincenzo Casillo, il cassiere della
camorra, uomo di fiducia di Cutolo, salta in aria nella sua auto, guarda un po',
vicino ad una sede dei Servizi segreti. La donna di Cirillo, Giovanna Marazzo,
viene assassinata. Sapeva troppo. La tecnica del «sasso in bocca» è tipica di
questo Stato-partito. E le bombe sono un suo strumento.
* * *
Mi sono un po' dilungato nel descrivere i caratteri dell'intreccio criminoso
perché, in questi giorni in cui i teoremi sulla mafia e il terrorismo si
sprecano, vorremmo sapere dai diretti interessati, in particolare dal giudice
Pier Luigi Vigna, dove collocano il caso Cirillo; caso che vede la DC, il
partito dei moderati e della ricostruzione... democratica, al centro della
sanguinosa vicenda.
La torbida alleanza fra apparati dello Stato, la criminalità organizzata, qui,
in questo caso, è provata. Manca, come elemento portante del teorema Vigna,
l'eversione di destra. C'è, al suo posto, la DC, il partito di Governo;
addirittura, con parte di primo piano, il ministro dell'Interno, Antonio Gava.
* * *
Come la mettiamo, giudice Pier Luigi Vigna? Perché non scende a Napoli ad
ascoltare, perché non sposa subito l'idea di Domenico Sica che chiede
l'instaurazione di una Procura Generale, magari a... Firenze, per tutti i casi
di terrorismo mafioso-politico, onde incriminare subito, per eversione
terroristica, la DC, con il suo ministro degli Interni Gava?
* * *
Sì, ma lo Stato democratico che, sempre per il teorema di Pier Luigi Vigna, si
troverebbe attaccato da mafia e terrorismo nero, dove va a finire se, proprio
dal suo seno, si esprimono mafia e terrorismo?
Il male, dunque, non è fuori lo Stato repubblicano, ma è dentro questo Stato. Ha
ragione Valentino Parlato che, dalle colonne de "il manifesto", scrive che «la
prima Repubblica è metastatica, non c'è più, che la mafia non surroga più, come
nel passato lo Stato dove lo Stato difetta, ma è espressione di questo Stato».
«Questo Stato», afferma Parlato, «ha una potenzialità di violenza superiore a
quella di quattordici mafie messe insieme».
* * *
Pino Arlacchi, il più aggiornato studioso di mafia e camorra, scrive che «il
boom della camorra è avvenuto e sta avvenendo in parallelo ad un fenomeno di
circolazione delle elites di governo che vede l'ascesa di una nuova schiera di
uomini, ambiziosi e spregiudicati, di origini popolari, che non possiedono un
elevato livello di istruzione formale. Per individuarli è sufficiente guardare
al potere locale e al potere intermedio: consiglieri comunali, provinciali,
regionali, sindaci e amministratori di enti pubblici appartenenti ai partiti di
governo. Gli scandali che stanno scoppiando a ripetizione vedono molti di essi
come protagonisti e segnalano un fenomeno di integrazione di uomini e metodi
della camorra anche in ambienti prima relativamente immuni. In diversi comuni
delle aree terremotate, della zona vesuviana e dell'agro nocerino-sarnese le
amministrazioni comunali vedono la presenza di camorristi e personaggi legati
alla camorra che gestiscono importanti quote di denaro pubblico».
* * *
Da queste parole del sociologo Pino Arlacchi, uomo di sinistra, potrebbe
trasparire una melanconica nostalgia per i vecchi notabili meridionali che, pur
patroni clientelari, operavano in politica come filtro di pulizia
amministrativa. Non rubavano insomma.
Ma non è così...
* * *
Al fondo della questione «mafia cardine del potere politico in Italia», c'è la
crisi profonda della stessa legittimazione della funzione pubblica. Cioè i
quadri politici delle forze di governo non riescono più ad esprimere delle
idealità che li distinguano dal sottobosco della criminalità organizzata. Gli
uni e gli altri si assomigliano anche nelle aspirazioni, vogliono le stesse cose
(potere, influenza, denaro), e per ottenerle sono pronti a tutto. Anzi diremo
che fra le due cosiddette gerarchie, quella politica è la più viscida perché
pretende di coprire il proprio malaffare con coperture di rispettabilità e
coperture di potere che non si fermano nemmeno dinanzi alla strage. Il confine
fra gangsterismo e politica è sempre più difficile da rintracciare, dice
Paietta.
* * *
È un quadro politico putrefatto, perché questo è un Paese senza scopo, senza
destino, senza bandiera. Si ruba, si uccide, si massacra. Perché non ci sono più
bandiere.
Abbiamo la presunzione di ritenere che la nostra analisi sul connubio «mafia -
politica -terrorismo» sia più corretta e più esatta del teorema del giudice Pier
Luigi Vigna. Ha almeno il pregio di fornire delle ragioni, non delle
allucinazioni.
N.B. Cirillo fu liberato. E per la sua liberazione si ricorse a tutto: anche al
delitto. Ecco l'interrogativo: perché la DC non fece altrettanto per Aldo Moro.
Perché lo volle morto?
18 marzo 1989
Il "Sabato", Mazzini e la massoneria
"il Sabato" (4.3.89), sotto il titolo: «Ecco gli eredi di quella Repubblica» (la
Repubblica Romana del 1849 - N.d.R.), polemizzando con "la Voce Repubblicana",
fra l'altro, scrive: «Chi raccolse l'idea mazziniana della 3ª Roma, ovvero della
Roma massonica, furono Mussolini e il Fascismo che, non a caso, fecero propri
anche i simboli della Repubblica Romana, i fasci consolari e le Aquile
legionarie, nonché il velleitarismo imperiale. È significativo -prosegue "il
Sabato"- che in parallelo con il PRI proprio il MSI di Fini abbia festeggiato
anche esso la Repubblica Romana...».
* * *
Mazzini massone? È una bestemmia, certamente dovuta ad ignoranza (dal latino
ignorans, inconsapevolezza). Mazzinismo e massoneria costituiscono una
inconciliabile antitesi, sia sul terreno religioso che su quello morale e
politico.
* * *
«Non ho alcuna fede in te. Non sei credente, sei una metà, secondo me, di un
rivoluzionario. Nel Medio Evo saresti stato un intero». Con queste parole
dirette a Nicola Fabrizi, chiamato pure «barbaro materialista», accentuava
Mazzini (Epistolario, XII, 37) quanto fossero distanti dal suo spirito, dalla
sua dottrina, certi anche eminenti discepoli o seguaci: che non riuscivano
affatto a comprenderlo, e proprio perché radicati massoni».
(Alessandro Luzio, "Mazzini e la massoneria", 1923)
* * *
«Mazzini era un mistico, ebbro di fede intensa. Volere o no, il Dio di Mazzini è
il Dio personale del cristianesimo, davanti al quale ogni mortale comparirà a
rendere conto della missione terrena e dei "talenti" affidatigli... L'imperativo
categorico quindi di agire onestamente, malgrado ogni difficoltà, per essere
degni di quel premio, di quell'ineffabile conforto dell'oltretomba, sono idee su
cui Mazzini insiste con ispirazione di perenne freschezza».
(idem)
* * *
"Il Sabato" non dovrebbe ignorare che nella massoneria si può entrare
professando qualsiasi credenza, anche l'ateismo. E da ciò che le recentissime
carte della Loggia massonica P2 ci hanno raccontato, si può essere massoni anche
se «cattolici» iscritti nella DC, addirittura Ministri della stessa...
Ciò che si è detto per l'esistenza di Dio, vale per l'altra, inscindibilmente
connessa, dell'immortalità dell'anima. La massoneria la lascia pure ad libitum
dell'opinante, tanto se si condivida la convinzione cristiana nell'al di là,
quanto quella del non credente che accetta solo che il ricordo degli uomini
possa sopravvivere in noi. Niente di più.
* * *
Come riconosce F. Momigliano ("Nuova Antologia", dicembre 1921) è assurdo
ravvisare un qualsiasi contatto tra la fede religiosa mazziniana, pietra
angolare di tutto un sistema politico-morale e la dottrina massonica: quella
riassunta nel celebre motto «Dio e Popolo»; e questa, «pochissimo devota all'uno
e all'altro dei due termini». Non al Popolo, per la natura chiusa
dell'associazione, proclamantesi «nucleo di minoranze intellettuali delle classi
dirigenti» ("Rivista Massonica", 1917, pagina 147). Non a Dio perché la
filosofia massonica è atea, materialista; nella migliore delle ipotesi
agnostica, neutrale.
* * *
Per Mazzini l'ateismo, l'agnosticismo equivalgono alla decapitazione, alla
rovina di tutta la sua costruzione. Giudicava perciò nel 1868 le Logge
altrettanto funeste del borbonismo al
Mezzogiorno...
Commenta lo storico Alessandro Luzio: «Tanto più severamente avrebbe condannato
la filosofia massonica d'oggi, buona a tutto fare, che alle questioni più
angosciose dello spirito umano, sulla nostra missione in terra, risponde
tranquillamente: "Credete quel che vi pare e piace, non guastiamoci il sangue
per simili inezie. Il mio credo preferito sarebbe l'ateismo, il paganesimo
(basta leggere i discorsi di Giovan Battista Romagnosi), ma se del Grande
Architetto dell'Universo amate foggiarvi un Dio personale, cattolico,
protestante, semitico, musulmano, buddistico, servitevi pure"».
* * *
Giuseppe Mazzini, da privato e Triumviro della Repubblica Romana, prestò sempre
ossequio alle cerimonie della Chiesa. Esule a Londra teneva a battesimo il
figlio di un amico italiano; dominatore di Roma, ordinava l'esposizione del
Santissimo nelle Chiese fra il fragor della battaglia, e ingiungeva, con un
nobile manifesto, il rispetto dei confessionali manomessi da irreligiosità
settaria; tema questo che verrà ripreso, 95 anni dopo, da Benito Mussolini, in
Repubblica Sociale Italiana, nel discorso del Lirico, tenuto in Milano il
16.XII.1944.
* * *
Sull'orlo della morte Mazzini, nel 1871, all'udire della morte di Adelaide
Sidoli, patriota risorgimentale, chiederà affannato al Varè: «Morì cristiana?
Ogni Fede, anche guasta da un falso dogma conforta il guanciale del morente e lo
consacra più che non può l'arida, scarna, tristissima menzogna di Scienza che
chiamano oggi pensiero e ragione».
Non per nulla alla fiamma divorante del misticismo religioso di Giuseppe Mazzini
scaldarono il santo petto sacerdoti cattolici che, come il Tazzoli, affrontarono
cristianamente e nazionalmente il patibolo.
* * *
Si potrebbero addurre a iosa le mordenti battute con cui Mazzini condannò il
cosmopolitismo della massoneria a scapito del sentimento nazionale; il prono
ossequio alla Francia massonica, la sconfinata ammirazione per gli uomini e i
Fasti della sua Rivoluzione, laddove egli, se non misogallo indefesso,
dichiaravasi intollerante della pretesa superiorità che i francesi s'arrogavano,
sempre deciso a combatterla.
* * *
Del pari sdegnava gli intrighi tortuosi della massoneria. Questa diceva: nessuna
cosa deve sfuggire dalle vostre labbra, nemmeno con le persone più care... Il
segreto è l'arma dei nostri successi. Mazzini replicava agli sbirri che lo
pedinavano: «Non v'è da scovare in me nulla. Tutto ciò che faccio io lo faccio
in pubblico. (...) senza paure, senza reticenze. Non conosco vie coperte».
* * *
E dinanzi al nemico: la santità del martirio come testimonianza di contro al
gesuitico procedere massonico della «penetrazione», dell'inserimento «nel mondo
profano per meglio combatterlo». No, proclamava Mazzini, «io non blandisco, io
non mi inserisco, io lotto. A visiera alzata».
* * *
Questo fu Giuseppe Mazzini, l'Apostolo dell'unità italiana. La sua politica è
morale, anzi religione, scriverà Giovanni Gentile.
E veramente strano e doloroso che "il Sabato", sorto per combattere la
«terrestrità» democristiana, quel cattolicesimo anticristiano che è compromesso,
mediazione, prudenza, viltà, resa, se la prenda con Giuseppe Mazzini, la cui
vita venne dedicata alla santità della testimonianza in ciò in cui si crede.
Come Cristo insegna. Per essere uomini, non sepolcri imbiancati.
25 marzo 1989
Dolce Italia terra di nessuno
Ha fatto notizia che, fra i consulenti nominati per affiancare il lavoro della
Commissione di inchiesta parlamentare sulle «stragi», figurasse il colonnello
dei Carabinieri Giorgio Angeli, già appartenente ai Servizi segreti. Il deputato
demoproletario Luigi Cipriani ha protestato vivacemente e ne ha chiesto
l'allontanamento.
* * *
Ne saranno soprattutto dispiaciuti i senatori Arrigo Boldrini e Ugo Pecchioli.
Infatti era proprio il colonnello Giorgio Angeli a fare da collegamento, negli
Anni '70, fra il PCI e i Servizi segreti, quando l'allora generale Gian Adelio
Maletti, responsabile del controspionaggio, incontrava, in una sede coperta del
SID (via del Boccaccio) gli autorevoli senatori del PCI, onde concordare la
riforma dei Servizi e le nomine degli alti vertici militari.
Gli incontri sono avvenuti anche a Ravenna, città natale del senatore Boldrini
medaglia d'oro della Resistenza (ieri centurione della MVSN) e della moglie
dell'Angeli. Ed è da questi incontri che, come si è detto, è maturata, fra il
1974 e il 1979, la riforma dei Servizi, nonché le nomine dei nuovi vertici
militari, tutti poi risultati iscritti alla P2. Un buon lavoro davvero quello
svolto da Arrigo Boldrini e da Ugo Pecchioli, quest'ultimo responsabile, per
conto del PCI, dei problemi dello Stato!
* * *
Non ridete, vi prego. Giorgio Angeli, quando era nei Servizi dirigeva due
settori: il reparto che vagliava le informazioni sul PCI e sui partiti comunisti
dell'Est e quello della Polizia militare, il cui compito era di impedire
infiltrazioni comuniste nelle FF.AA.
L'uomo giusto al posto giusto. Da «sorvegliante» dei comunisti a intermediario e
interprete degli stessi. Queste sono carriere tipiche nelle nostre FF.AA che, a
prescindere da ciò che possono pensare miei illustri amici, sono state, in
questo dopoguerra, niente altro che il braccio secolare del potere, anche per le
più squallide e ignobili operazioni. Contro di noi, in particolare, si intende.
* * *
Il DC 9 di Ustica chiama Argo 16, l'aereo dei Servizi che, dopo avere riportato
a Tripoli, per ordine del governo, i terroristi arabi sorpresi a Fiumicino nel
tentativo di abbattere con un missile un aereo di linea israeliano, cadde (o
esplose) a Marghera, in circostanze rimaste misteriose. I terroristi vennero
rilasciati, grazie a sentenze assolutorie concordate fra il governo
(sottosegretario alla Giustizia Pennacchini) e la Magistratura (Procuratore
generale Pascalino), sotto l'alta protezione personale e di Rumor e di Aldo
Moro.
* * *
Vendetta del Mossad, il servizio informazioni israeliano? Una lezione all'Italia
che, sottobanco, se la intendeva con i terroristi arabi? Rivalsa di quel settore
dei Servizi segreti filo israeliano, con a capo il generale Gian Adelio Maletti
(sarebbe stato lui a spifferare ad Israele tutto), che era in lotta con l'altro
settore, quello filo arabo?
* * *
Sentite questa. Quando il generale Gian Adelio Maletti, capo del
controspionaggio del SID, viene messo sotto accusa per aver protetto, nella
vicenda di Piazza Fontana, l'agente Giannettini, all'uscita da un interrogatorio
con il Procuratore capo di Bologna, fa una dichiarazione che è un messaggio
cifrato ai superiori politici. Fate attenzione, è il settembre del 1974, a breve
distanza le stragi di Fiumicino e di Bologna. «Tre giorni prima dell'attentato
dei fedayn a Fiumicino», afferma Maletti, «io personalmente avevo informato il
ministero degli Interni su ciò che sarebbe accaduto».
Cosa significa questa dichiarazione? Presso a poco questo: state attenti uomini
politici. Ora mi volete incastrare con lo stragismo. Ma voi? Perché, pur
avvertiti che i terroristi arabi avrebbero fatto una strage a Fiumicino, non
siete intervenuti? Cosa avete voluto proteggere? I vostri affari (anche
personali) che puzzano di petrolio? Petrolio e sangue.
* * *
La morale? Questa: l'Italia è terra di nessuno, è un santuario garantito per la
sporca guerra dei Servizi stranieri, tanto che questi, per le alte protezioni
che godono, hanno acquisito il diritto di uccidere. Impunemente. E i Servizi
segreti italiani, delegati a proteggere lo Stato italiano e i suoi cittadini,
devono «non sentire, non parlare, non vedere». Ciò capita ad un Paese e a un
popolo che ha perduto la propria indipendenza, argomento questo,
dell'indipendenza nazionale, che è completamente sconosciuto al dibattito
politico, alla stessa coscienza del popolo italiano, eppure si tratta della
propria vita che si può perdere, come se nulla fosse, per strada, su un treno,
su un aereo.
* * *
L'Argo 16 e il DC 9 di Ustica, storie parallele, che cosa dimostrano? Che si va
alla sistematica distruzione di tutte le prove che potrebbero portare alla
verità. Ora sotto inchiesta è l'Aeronautica Militare, con tutte le sue gloriose
tradizioni, è sospettata, in questa Italia democristiana, di avere occultato la
verità. Un esame di coscienza per i militari non sarebbe poi tanto male. Sul
«significato» di che cosa vuol dire essersi fatti servitori di un sistema di
potere che ha, alla sua base, le lotte fra «bande». Aver dimenticato di
difendere, con l'idea di Nazione, la propria dignità e professionalità di
soldati.
* * *
Siamo in tema, a proposito delle stragi, di teoremi. Ve ne è uno anche del
ministro Rino Formica. Ascoltiamolo. Chiama in causa «coloro» che,
ininterrottamente, hanno mantenuto la presidenza del Consiglio, dal dicembre
1945 al maggio 1981.
«In sostanza», scrive Formica ("l'Avanti1", 1 giugno 1986), «le dichiarazioni
del generale dei Servizi Viviani sono gravissime. Il generale dice che i Servizi
non deviarono per propria inclinazione, ma in forza di precisi impulsi ricevuti
dal potere politico. Qui sta la vera novità e la grande portata delle
rivelazioni. In questa luce, non sono più i singoli casi che contano, bensì il
contesto generale nel quale si sono inseriti. Nel senso che le stragi, i
tentativi di colpo di Stato, l'Argo 16, non possono più essere considerati come
singoli episodi criminali staccati l'uno dall'altro, ma articolazioni di una
strategia della tensione che ha condizionato la vita italiana per quasi due
decenni. È venuto il momento in cui non ci si può più trincerare dietro i
segreti, i silenzi. Dobbiamo chiarire le responsabilità a livello politico. Di
chi ha governato in questi anni, di chi ha mantenuto, ininterrottamente, la
Presidenza del Consiglio per più di 35 anni, dal dicembre 1945 al maggio 1981. È
un dovere della DC il chiarimento ...».
* * *
E un teorema. Ci permettiamo sottoporlo all'attenzione del magistrato Pier Luigi
Vigna da Firenze.
1 aprile 1989
Pallettoni di sterco
«Inutile raccontare favole: ci sono giornalisti che sono dei killer. Una volta
c'erano le agenzie di stampa specializzate in spazzatura. Oggi sono spuntati
tanti free-lance fabbricatori di scandali».
(Claudio Martelli, 5.3.89)
* * *
«A occhio e croce mi sembra una grandissima mascalzonata, della quale ora
verremo a capo».
(Bettino Craxi, 10.3.89)
* * *
«Nelle dichiarazioni di Craxi c'è sempre, voluta o meno, una sfumatura
intimidatoria. Non è necessario ripetere che non ci faremo intimidire. L'on.
Martelli non è colpevole, in quanto avrebbe fumato uno spinello, ma è colpevole
se mente. Noi gli chiediamo oggi un atto di coraggio e di lealtà».
(Miriam Mafai, 11.3.89)
* * *
«L'importanza della posta in gioco e la violenza della polemica precludono tanto
per Martelli, quanto per i suoi accusatori qualsiasi ritirata onorevole».
(Gianfranco Piazzesi, 12.3.89)
* * *
«L'onorevole Craxi ha usato per due volte consecutive nello spazio di
quarantott'ore la parola "mascalzonata". E ha aggiunto; ci vedremo in tribunale.
Non è chiaro quale sia il bersaglio di Craxi e chi siano i supposti mascalzoni».
("la Repubblica", 12.3.89)
* * *
«II caso Martelli è più pesante, anche se la droga in ballo è leggera. Qui la
menzogna (se di menzogna si tratta e non di legittima difesa) è ripetuta,
ostentata, sostenuta con la sicurezza accorata di chi tenta di passare per la
vittima di un complotto».
(Giampaolo Pansa, 13.3.89)
* * *
«L'on. Martelli faccia un atto di coraggio: ammetta la verità».
(Giovanni Valentini, "l'Espresso", 13.3.89)
* * *
«Farò questo atto di coraggio. Porterò Valentini in Tribunale come falsario e
diffamatore». (Claudio Martelli, 14.3.89)
* * *
«In America un caso analogo avrebbe comportato le dimissioni perché là, a
differenza di quello che avviene in una Repubblica delle banane, chi sbaglia
paga».
(Alberto La Volpe, 14.3.89)
* * *
«E bravo La Volpe. In poco meno di due minuti ha liquidato una vicenda ancora
tutta da chiarire. Sarebbe facile, a questo punto affermare che l'improvviso
gusto della verità che ha contagiato ieri sera La Volpe aveva il profumo del
"garofano". L'utente della TV di Stato deve sapere se la Direzione di un
telegiornale ha sede in via Teulada o nella Segreteria di un partito che
ferreamente la controlla».
("la Repubblica", 15.3.89)
* * *
«C'è un'ulteriore categoria di possibili mascalzoni, e sono tutti quei
moralisti, per esempio di grandi firme come Miriam Mafai o come Giampaolo Pansa,
che hanno emesso condanne sommarie e hanno moralizzato sul nulla».
(Giuliano Ferrara, 15.3.89)
* * *
«Giornalismo cialtrone. L'impavida Miriam Mafai propone il sistema noto a tutti
i nazismi, da quello dei generali hitleriani a quello dei generali argentini:
prima si accusa qualcuno di una qualsiasi nefandezza, poi gli si chiede il
coraggio "morale e politico" di confessare». (Lanfranco Vaccari, "l'Europeo",
16.3.89)
* * *
«Chi sono i mascalzoni? Coloro che, molto probabilmente, hanno agito sotto
l'ispirazione e l'incoraggiamento di un unico mascalzone, grandissimo,
incommensurabile, e recidivo mascalzone».
(Ghino di Tacco [Bettino Craxi], 16.3.89)
* * *
«Il direttore di questo giornale è rimasto per qualche attimo incerto se quella
qualifica di mascalzone fosse diretta a lui, ma poi si è convinto che il
bersaglio doveva probabilmente essere situato più in alto: una specie di Grande
Burattinaio, di Belzebù un po' ingobbito (leggi Andreotti - N.d.R.) con il quale
Craxi alterna carezze e legnate da almeno dieci anni sul piccolo palcoscenico
della politica italiana».
(Eugenio Scalfari, "la Repubblica", 17.3.89)
* * *
«Non vale la pena rispondere a qualche direttore da strapazzo, abituato
evidentemente a lavorare sulle versioni ufficiali. Questi non sono giornalisti:
sono dei cialtroni e basta, neppure di razza».
(Giovanni Valentini, "l'Espresso", 26.3.89)
* * *
«Prendersi del mascalzone dal bretellume di Ghino di Tacco (leggi Giuliano
Ferrara, giornalista di Canale 5, amico di Craxi - N.d.R.), è una medaglia che
non ti regalano tutti i giorni. E sono certo che, dall'al di là, il mio papà,
che era socialista, avrà applaudito felice, poiché avere un figlio che fa
incavolare pupazzi e pupazzari non è roba da poco in questi tempi di
pecoraggine»
(Giampaolo Pansa, "Panorama", 26.3.89)
* * *
«Ma la tentazione di rifarsi bandito in Ghino di Tacco (leggi Craxi - N.d.R.) è
evidentemente connaturata in lui, sicché ai primi tepori di primavera eccolo
scendere di nuovo baldanzosamente in campo assieme a tutta la sua masnada, ben
allenata e agguerrita alla guerra di foresta e di riviera, come tutte le masnade
che si rispettino. E per di più fornita di strumenti potenti: le reti di
Berlusconi, la seconda rete della RAI, nonché una catena di giornali che si
estendono molto al di là dell'area di Radicofani propriamente detta»
(Eugenio Scalfari, "la Repubblica", 17.3.89)
* * *
Nota e morale. Hanno fatto tutto da sé. Di nostro non c'è nemmeno un rigo. Si
sono descritti, a meraviglia: mentitori, burattini, pupazzi, cialtroni, nazisti,
mascalzoni, killer, banditi da strada.
Ma è proprio così? Ma perché dovremmo noi smentirli? E ora, che accadrà? Con
tutta probabilità nulla. Dopo essersi offesi vicendevolmente e sanguinosamente,
una cosa continueranno a fare: a prendere per il culo il popolo italiano.
8 aprile 1989
I conti in tasca a De Mita
SI è svolta il 31 marzo u.s. l'assemblea dei soci della Banca Popolare
dell'Irpinia, di cui è azionista, personalmente e attraverso i familiari
(minorenni compresi), Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio.
Prima dell'assemblea è corsa, con insistenza, la voce che, in quella occasione,
De Mita si sarebbe liberato, per una questione di immagine e di stile, dei
pacchetti azionari posseduti. Non va dimenticato che nella banca lavorano il
nipote della signora De Mita e il cognato di De Mita; e che della banca sono
azionisti il senatore Nicola Mancino, il deputato Giuseppe Gargani,
l'ex-ministro Salverino De Mito, tutti uomini demitiani. Non si dimentichi
ancora che i «successi» della banca (gestita dall'ex-comunista Ernesto
Valentino), illustrati nel bando di convocazione dell'assemblea, si basano, in
gran parte, su quella «rendita di posizione», rappresentata dai fondi destinati
alla ricostruzione dopo il terremoto.
* * *
Non abbiamo notizia se il gesto sia stato compiuto, o no. Certo è che la
rinunzia, come hanno scritto i giornali, all'investimento finanziario nella
Banca Popolare dell'Irpinia, è per De Mita un serio sacrificio. Si sono fatti i
conti. De Mita ha denunziato nel 1987 un reddito di 73.910.000, di cui
21.938.000 lire come reddito derivante da capitale.
Quanto paga di affitto all'Inpadai l'on. De Mita per il lussuoso appartamento,
in cui abita con la famiglia, di via dell'Arcione n. 7?
Le cifre variano.
* * *
Secondo quanto afferma l'on. Formica, ministro del Lavoro, in risposta ad una
interrogazione dell'on. Rauti, De Mita pagherebbe un canone mensile di 3 milioni
e 598 mila lire, condominio escluso. Secondo altri, tra canone e locazione,
contributo alle spese di ricostruzione e oneri vari, la cifra salirebbe ad
almeno sei milioni al mese, per un totale di 72 milioni l'anno. Se è esatta
quest'ultima cifra, e concedendo a De Mita la giustificazione che nel 1988 i
redditi finanziari suoi e della sua famiglia, provenienti dalla Banca Popolare
dell'Irpinia, siano raddoppiati per un totale di 90 milioni, gli resterebbero
disponibili, da una cifra del genere, 18 milioni annui e ciò per vivere,
svagarsi, vestirsi e altro, per Lui e la sua numerosa famiglia. Un po' pochi.
Almeno che De Mita non abbia altri introiti, certamente legittimi, ma su questo
solo la Guardia di Finanza (non siamo tutti eguali?) potrebbe dire l'ultima
parola attraverso un severo accertamento fra ciò che si è denunciato e il tenore
di vita praticato.
* * *
Direte che è antipatico fare i conti in tasca ad un uomo pubblico. Può essere,
ma dato che tutti, a cominciare da De Mita, abbiamo preso come «modello di vita»
quello americano, si sappia che là in America, i conti in tasca ai Presidenti
della Nazione più forte del mondo, sono consueti e vi collaborano non solo
giornali, riviste e tv, ma le banche stesse. E rimasto celebre l'avvertiménto
dato al Presidente Nixon: «Abbiamo fatto i conti fra ciò che denuncia e il
tenore di vita da Lei tenuto. Ci rientra, ma per poco. Stia attento a non
debordare. E non usi l'elicottero di Stato per andare a pescare!».
* * *
Comunque l'interrogativo è questo: De Mita ha rinunziato agli introiti della
Banca Popolare dell'Irpinia?
La risposta è importante. L'uomo pubblico (questa è la sua scelta) non
appartiene più a se stesso, appartiene all'intera collettività nazionale, e la
collettività nazionale deve sapere come vive e con quali risorse va avanti.
Anche per poter stimolare la Guardia di Finanza, giustamente rigorosa con il
cittadino trovato senza ricevuta fiscale per aver acquistato un etto di salame,
a fare, anche nei confronti di De Mita, tutto il suo dovere.
* * *
Direte ancora che siamo sospettosi. Con ragione, amici miei. Nella nostra
memoria frulla ancora l'intervista che lo stesso Ciriaco De Mita, come ministro
allora dell'Industria, dette il 14 febbraio 1974 al "Corriere della Sera", e
precisamente a Cesare Zappulli.
«Improvvisamente», sbottò De Mita, «si scopre che l'Enel finanzia i partiti,
come se non si sapesse che questo è fra gli obblighi, diciamo così,
sub-istituzionali dell'Enel».
Capita l'antifona? L'Enel, secondo il De Mita anno 1974, ha, fra i suoi compiti,
quello di dare soldi ai partiti! Compito istituzionale!
Con queste... idee, 15 anni fa l'attuale presidente del Consiglio ricopriva la
carica di ministro! E poi ci si meraviglia che la partitocrazia abbia mangiato
letteralmente lo Stato!
* * *
E noi, retrogradi, che pensavamo che il compito istituzionale, per cui si era
nazionalizzata l'energia elettrica, fosse quello di dare ai cittadini, che
pagano le bollette, un servizio più efficiente e meno costoso! No, afferma De
Mita, compito dell'Enel è quello di dare, sottobanco, quattrini ai partiti. Per
questo abbiamo nazionalizzato l'energia elettrica!
* * *
Davanti alla stupefacente e insolente dichiarazione di De Mita, tutti rimasero
zitti. L'ente di Stato, l'Enel, per primo. E pure amministra i denari di tutti
noi!
Ora c'è da pensare una cosa: l'onorevole De Mita, che da ministro 15 anni fa
coltivava quelle idee, le conserva pure oggi che è presidente del Consiglio dei
ministri?
Capirete, cari lettori, la ragione perché siamo così sospettosi nei riguardi di
De Mita, specie quando i conti, anche quelli familiari, non tornano proprio a
puntino.
* * *
Tognazzi, interpretando, con una battuta di sapore contemporaneo, l'Arpagone del
celebre "Avaro" di Molière, così si esprime: il sordido spilorcio, alla
disperata ricerca di una cassetta ricolma di oro, si rivolge alla platea
gridando: «Dove sono i soldi? Dove sono i ladri? Dov'è Nicolazzi?».
Nicolazzi, offeso, ha ricorso, ma i magistrati hanno dato ragione a Tognazzi.
Quella battuta è perfettamente legittima, resta nel copione. La recita continua.
* * *
«Nessun rilievo si può fare alla correttezza di Mussolini nella gestione
finanziaria dello Stato. Le sue responsabilità morali sono altrove. D'altro
canto in TV non ho fatto una domanda che faccio adesso: perché non si pubblicano
i risultati dell'inchiesta compiuta dalla Commissione incaricata di accertare i
profitti del regime fascista? La Commissione fu formata nel 1944, l'inchiesta la
condussero uomini insospettabili come l'on. Scoccimarro e il padre di
Berlinguer. Non se ne è mai saputo nulla».
(Giulio Andreotti, "il Messaggero", 22.7.1971).
* * *
Ricordate il celeberrimo disegno di Giovanni Guareschi? È raffigurato un uomo
anziano che, con il bastone, indica al nipotino che ha accanto il distributore
di benzina di Piazzale Loreto. Sotto la didascalia: «Li impiccarono per i piedi,
ma dalle loro tasche non uscì un soldo!».
15 aprile 1989
Una sentina di corruzione
Il caso Palermo. Quando scrivo è ancora bagarre. Come andrà a finire? Ascoltiamo
intanto il racconto di Claudio Martelli ("Corriere", 10.4), capolista nella
circoscrizione elettorale di Palermo: «Con le elezioni politiche del 15 giugno
1987 il PSI passa dall'11% al 17% dei voti. E subito dopo Orlando e Mattarella
ci accusano di avere preso consensi nelle zone mafiose. Accuse che vengono
proprio dai nipotini dei "consigliori" della mafia, Bernardo Mattarella e
l'avvocato Orlando Cascio. Noi rispondiamo in modo fermo, anche perché in luoghi
come Partinico e Bagheria, ad alta concentrazione malavitosa, i voti per me
erano poche centinaia, per Mattarella molte migliaia. Il motivo politico della
rottura è un altro: mentre i socialisti pongono la questione del ricambio laico
o socialista alla guida di Palermo o alla guida della Regione, la DC apre ai
comunisti con la benedizione dei gesuiti. Lì nasce l'imbroglio, ovvero un
sindaco de e un vicesindaco dell'opposizione Aldo Rizzo».
* * *
Tra i due litiganti la domanda: che farà il moderato Arnaldo Forlani, segretario
nazionale della DC? Spalancherà le porte del Comune di Palermo ai comunisti,
cioè andrà oltre i divisamenti di De Mita? Staremo a vedere.
Comunque sia, le vicende di Palermo tornano, puntualmente, a pesare nella vita
di Forlani, tutte le volte che questi assume la carica di segretario nazionale
della DC. Già negli Anni '70 a Forlani, anche allora segretario DC, capitò,
proprio a Palermo, la «grana» Ciancimino. Venne eletto Sindaco, in un clima di
polemiche accese. E il destino volle che il segretario DC si scontrasse con
Piersanti Mattarella, fratello dell'attuale ministro Sergio Mattarella, accusato
da Forlani di essere stato lui, poi assassinato dalla mafia, l'artefice della
elezione del mafioso Vito Ciancimino a Sindaco di Palermo.
* * *
Oggi le parti sembrano invertite, perlomeno confuse. Se Piersanti Mattarella,
nella elezione a Sindaco di Vito Ciancimino, dava ad addivedere, nel novembre
del 1970, secondo Forlani, di coltivare propensioni mafiose; oggi il suo giovane
fratello Sergio sembrerebbe schierato sul cosiddetto «fronte degli onesti»,
quello del Sindaco Luca Orlando che a Palermo, per dirla con il gesuita Ennio
Pintacuda, sarebbe composto da singoli cittadini, gruppi, aggregazioni che
avrebbero prodotto il superamento delle vecchie alleanze partitiche che, basate
su tipologie di governo e sistemi di potere funzionale solo a vilissimi
interessi di parte, sarebbero stati veicolo di mafia e di criminalità
organizzata. «Questione morale», dunque, che Claudio Martelli e il PSI
respingono, ribadendo, a loro volta, che la mafia sta proprio dalla parte di
Orlando, di Mattarella, dei Gesuiti.
* * *
Fra parentesi, il Governatore della Banca d'Italia Ciampi, nel corso della sua
audizione presso la Commissione Antimafia, ha denunciato come le Banche stiano
diventando lo strumento primo della circolazione del «denaro sporco», e che tale
preoccupante problema criminoso rischia, con la liberalizzazione valutaria che
si avrà in Europa, di aggravarsi ulteriormente. E tutta la stampa si è
particolarmente fermata sull'impressionante numero degli sportelli bancari
aperti in Sicilia.
* * *
«Se l'Italia avesse un numero di sportelli bancari proporzionali a quello di
alcuni centri della Sicilia, probabilmente avrebbe una potenza finanziaria
paragonabile a quella del Giappone», cosi "il Giornale", del 10.4.
* * *
Ma se le organizzazioni criminali hanno potuto darsi, con le Banche e attraverso
le Banche, una facciata di rispettabilità, se hanno potuto compiere questa
operazione cosmetica, chi si deve ringraziare se non la classe politica
nazionale e locale, la stessa che manifesta «stupore» di fronte alla
dichiarazione del Governatore della Banca d'Italia?
* * +
È noto che l'Assemblea regionale siciliana, grazie alla sua straripante
autonomia derivatagli da quello Statuto del 15 maggio del 1946, che è la prima
fonte di inquinamento mafioso, ha competenza primaria sull'apertura degli
sportelli bancari. Personalmente senza mai riuscire a sapere, pur interessando
al quesito anche amici di partito, mi sono dato da fare per conoscere quanti
sportelli bancari vennero autorizzati in Sicilia durante la lunga permanenza di
Piersanti Mattarella nell'incarico di assessore regionale al Bilancio e alle
Finanze.
La domanda resta in piedi, e già da ora il più vivo grazie a chi vorrà darmi
notizie al riguardo. Non è curiosità morbosa, ma desiderio di capire, che è la
condizione prima per informare, a sua volta, i lettori, i cittadini, tutti
coloro che, sul tema della mafia, si interrogano e soffrono, senza riuscire mai
a capire dove cominciano e finiscono le complicità politiche riguardo alla
criminalità organizzata.
* * *
Curiosa (si fa per dire) la polemica fra il Sindaco di Palermo Luca Orlando e il
deputato europeo (andreottiano della più bell'acqua) Salvo Lima. Orlando non
rinuncia alla candidatura europea. Chiede solo a Forlani e ad ogni membro della
direzione DC «con nome e cognome» di assumere la responsabilità di indicare Lui
o Salvo Lima. Il che equivale porre, da parte del Sindaco di Palermo, la
«questione morale» nei riguardi del democristiano Salvo Lima, questione morale
in cui lo spartiacque è chiaro: «Io non sono mafioso, Lima sì, questa è la
scelta che è davanti a tutta la DC».
* * *
Si ribella il ministro (andreottiano di ferro) Paolo Cirino Pomicino. Il
ministro sostiene che la richiesta di Orlando nasconde «metodi intimidatori e
mafiosi». E aggiunge: «Non siamo in questura, con la polizia che scheda e
scrive: a domanda risponde». Come risolvere allora la... concorrenza fra Orlando
e Lima? «Io, dice Pomicino, metterei in lista entrambi, cosi, come a Napoli,
prenderemmo tutto. A Napoli, infatti, abbiamo messo insieme la clientela di Gava
e le speranze rappresentate da Cirino Pomicino: una miscela esplosiva!».
Dunque: mettiamo insieme mafia e il messaggio di Orlando e si prende tutto!
* * *
Ahimè, questa è la DC! Devo, con rammarico, dare ragione, questa volta, a "la
Voce Repubblicana" che, in polemica con "il Popolo", scrive che «la DC è la
sentina di tutti i mali e le sciagure del Paese». Una sentina colma di cinismo,
corruzione, affarismo.
* * *
Torniamo alle Banche. E a Salvo Lima e alla miscela siciliana che puntualmente
mette in crisi tutta l'area nazionale che, con ogni probabilità, farà esplodere
la crisi di governo.
Nel Volume III inerente alla pubblicazione, decisa dall'Antimafia, delle famose
«schede nominative» (X legislatura. Doc. XXIII, n. 3), Salvo Lima è fra coloro
che può contare un numero di pagine, a lui dedicate, numeroso. Sono 34. Ma fra
quelle pagine invano si cercherebbero gli «omissis» che, sulla relazione n. 737
dell'allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, comandante la Legione dei
Carabinieri di Palermo, vennero posti dalla maggioranza della Commissione
antimafia nel 1976, all'atto della consegna delle relazioni conclusive al
Parlamento. In particolare l'allegato n. 5, dove si parla, appunto, di Banche;
in particolare della Banca Popolare di Palermo. Fra i cui fondatori oltre a noti
mafiosi, macchiati anche di delitti, figura anche il nostro Salvo Lima, e si
afferma che, dietro gli sportelli di quella Banca, si fa del contrabbando.
Sarebbe interessante sapere, visto che la relazione del colonnello Dalla Chiesa
è del 13 gennaio 1972, da chi quegli sportelli della Banca Popolare, tutti
aperti in zone tipicamente critiche rispetto al fenomeno mafioso, furono
autorizzati. Forse si capirebbe di più anche sull'assassinio di Piersanti
Mattarella.
* * *
In sostanza: dai casi di Palermo la DC accusa il PSI di essere cresciuto in
Sicilia grazie ai voti dei mafiosi; il PSI accusa la DC di avere dentro di sé i
«consigliori» dei mafiosi. Protagonista ancora Claudio Martelli, deputato
siciliano. Dagli spinelli alla mafia. Chi è nel vero? Entrambi?
22 aprile 1989
Una fama usurpata
In questi tempi primaverili, in circostanze diverse, sono stati ricordati da
tutta l'informazione italiana, televisiva e scritta, due personaggi di vertice
della politica italiana, scomparsi uno dieci anni fa, l'altro drammaticamente
nel maggio del 1978: Ugo La Malfa e Aldo Moro.
* * *
Al primo, ad Ugo La Malfa, Indro Montanelli ha elevato, con un suo fondo su "il
Giornale" (26.3), un inno. Significativo il titolo; «C'era una volta un uomo»;
perentorio il giudizio: «Una passionalità, quella di Ugo La Malfa, incontaminata
da qualsiasi calcolo d'interesse o di potere che riscattava e nobilitava anche i
suoi errori».
* * *
Sulla «incontaminatezza», sulla purezza spersonalizzata dei comportamenti di Ugo
La Malfa, abbiamo qualche dubbio. Non vogliamo con questo dire che Ugo La Malfa
è della stessa stazza di un Nicolazzi o giù di lì, vogliamo solo sottolineare
che anche Ugo La Malfa, quando si trattò di difendere il proprio particolare
partitico, lo fece non guardando in faccia a nessuno, nemmeno alla moralità
pubblica, politica.
* * *
Citeremo tre episodi: il primo quello del febbraio 1974, Io scandalo
petrolifero, i soldi dei petrolieri ai partiti politici. E lo stesso Ugo La
Malfa ad assumersi, con giustificazioni molto contorte e sofferte, la
responsabilità dei finanziamenti avuti, attraverso l'Italcasse, insieme agli
altri partiti politici: DC, PSI, PSDI.
Come sia andata a finire la vicenda è a tutti noto: nel dimenticatoio. Fatto sta
che in una nota della Commissione Inquirente per i procedimenti di accusa contro
i ministri (La Malfa era ministro del Tesoro) stava scritto (pagine 6 e 7)
testualmente così: «In particolare si dovrà procedere all'interrogatorio
dell'on. Ugo La Malfa che dovrà chiarire la sua posizione essendo egli stato il
percettore diretto dei 12 assegni dell'Italcasse».
Non se ne fece di nulla. L'intemeratezza di Ugo La Malfa non lo portò nemmeno a
rassegnare le dimissioni da ministro. Rimase al suo posto.
* * *
Il secondo episodio riguarda l'elezione di Vito Ciancimino a sindaco di Palermo,
avvenuta nel novembre 1970. Alla richiesta di immediate dimissioni del sindaco
«mafioso» presentate, con una mozione, all'assemblea regionale siciliana, si
registra, da parte di Ugo La Malfa, con un telegramma inviato agli amici di
Palermo e della Sicilia, una clamorosa risentita reazione: «Se fate dimettere
Vito Ciancimino io provoco la crisi su tutta l'area nazionale... Ci sono ben
altre situazioni che abbisognano di interventi moralizzatori!».
* * *
Fece scandalo quel telegramma del siciliano Ugo La Malfa a favore del mafioso
Vito Ciancimino. De Pasquale Pancrazio, deputato del PCI, responsabile regionale
del partito, più volte presidente del gruppo parlamentare comunista alla Regione
siciliana, uscì con questa dichiarazione: «L'atteggiamento di Ugo La Malfa è
ricattatorio. Il telegramma configura nel complesso uno dei più classici
atteggiamenti mafiosi che si possono adottare. Il leader repubblicano afferma
che esistono situazioni a sua conoscenza che abbisognano di un intervento
moralizzatore. Dal punto di vista politico egli non sarebbe che un cialtrone se
non dicesse all'opinione pubblica quali sono questi elementi degenerativi.
Invece invita l'assemblea regionale siciliana a coprire Ciancimino in cambio di
coperture di altre situazioni. Ebbene chi ragiona cosi non è certo degno di
rappresentare il nostro Paese».
Nella vita di Ugo La Malfa ci sono anche questi «episodi». Come può ignorarli
Indro Montanelli? Come è possibile definirli solo errori? Queste sono vere e
proprie complicità.
* * *
Il terzo episodio è del marzo 1975. 32° Congresso nazionale del PRI a Genova: i
probiviri del PRI, in una lunga dettagliata relazione, espongono le ragioni per
le quali l'onorevole Aristide Gunnella (che La Malfa farà ministro) deve essere
espulso per indegnità dal PRI.
Che fa Ugo La Malfa? Va alla tribuna del Congresso, addita al disprezzo dei
congressisti i probiviri chiamandoli «Torquemada da strapazzo», fa mettere sul
banco della presidenza tre urne, una per il sì, l'altra per il no, la terza per
l'astensione e fa sfilare, sotto i suoi occhi, i 2.000 delegati, onde annullare
la decisione dei probiviri.
«Chi è contro Gunnella è contro di me», sanziona Ugo La Malfa, e il deputato
siciliano, amico di Ciancimino, è salvato.
* * *
Giancesare Flesca, su "Panorama", commenta: «Sotto gli occhi della direzione i
congressisti hanno votato per quasi un'ora. Qualcuno, mettendo la scheda
nell'urna del sì, condiva il suo disappunto con locuzioni di chiara matrice
ateista. Altri giravano la testa per non guardare in faccia i dirigenti.
Fernanda Missiroli, famosa staffetta partigiana, piangeva in un angolo
mormorando: "In questo partito non c'è più posto per la gente perbene" ...».
* * *
Enzo Biagi ("Corriere della Sera", 6.3.75) commenterà così l'accaduto: «È strana
la concezione della morale del potere che ha Ugo La Malfa. Certi sistemi di
proselitismo, certe alleanze che sarebbero vergognose a Milano, a Caltagirone,
stante gli usi e i costumi, vanno per lui benissimo». Nella bella commedia di
Federico Zardi "E chi lo sa?", c'è una gustosa scena tra due innamorati seduti
su un sofà. Lui allunga la mano e la ragazza lascia fare; la mano si sposta e
lei zitta, ma ad un certo momento lei respinge le carezze. «Tu», dice il
protagonista meravigliato, «la virtù la concepisci a zone».
Ecco, Ugo La Malfa la morale la concepiva a zone... Come la ragazza descritta da
Federico Zardi.
* * *
Aldo Moro, la sua figura di politico, i più dicono di «statista», è ritornata
all'attenzione della pubblica opinione perché, in questi giorni, la sua consorte
Eleonora Chiavarelli vedova Moro, è stata condannata a sei mesi di reclusione
con la condizionale per falsa testimonianza.
* * *
Si tratta di una vicenda legata al maxiprocesso sul contrabbando dei petrolieri.
Dentro: ministri, politici, tutto il vertice della Guardia di Finanza, generali,
perfino prelati. Interrogando il petroliere Bruno Musselli, amico strettissimo
di Aldo Moro, il giudice istruttore Mario Vaudano di Torino, si senti
rispondere: «Ero socio occulto, nei traffici della mia raffineria, con Sereno
Freato, segretario particolare di Aldo Moro. Gli versavo assegni periodici».
Questa, invece, la replica del segretario di Aldo Moro: «No, erano soldi
provenienti da un conto svizzero della corrente morotea, costituito da Aldo Moro
all'estero per paura di un golpe. Poi, dopo la legge contro l'esportazione di
capitali, decidemmo di farli rientrare, affidandone il compito a Bruno Musselli
...».
* * *
La storia del misterioso conto svizzero coinvolge la vedova Moro. Sentita dal
giudice nella primavera dell'86 sostiene di non saperne nulla, ma poche
settimane più tardi ne parla per telefono con Massimo Felici, genero di Freato.
In quel colloquio, intercettato dalla Guardia di Finanza, Eleonora Moro dice:
«Allora mi è venuta un'idea che può servire a qualche cosa. Sono rientrati i
soldi dalla Svizzera, diciamo il 20 maggio, pochissimo dopo la morte di mio
marito». Da qui la condanna. Eleonora Moro sapeva.
* * *
Ci sono state proteste. Vibratissime. In particolare da parte della senatrice
Maria Fida Moro, figlia dello statista: «Voi ammazzate, per la seconda volta,
Aldo Moro ...» ha detto, rivolgendosi ai giudici...
Con tutto il rispetto che si deve ad Aldo Moro e alla sua famiglia, i fatti non
possono essere smentiti, e i fatti, in breve, sono questi: che la corrente
politica dello statista Aldo Moro si finanziava attraverso il contrabbando dei
petroli, uno scandalo fiscale questi, il più grande che la storia d'Italia
ricordi.
Giudicate voi.
6 maggio 1989
L'ennesima «Gelli connection»
Quindici aprile 1944: a Firenze viene assassinato Giovanni Gentile. Maggio 1981:
parla Luciano Suiscola, rigattiere di Firenze: «Non capisco come mai siano
venuti fuori i nomi dì coloro che uccisero il filosofo Giovanni Gentile.
Qualcuno ha parlato, venendo meno all'impegno di non rivelare i nomi dei
componenti del commando finché fossero vivi. Comunque ormai è fatta e tengo a
dire che se mi trovassi nelle stesse condizioni di allora, tenuto conto che il
Gentile era il personaggio più in vista del fascismo, rifarei quello che mi fu
ordinato».
* * *
Vengono fuori i particolari. Il GAP era diviso in due gruppi, quello di Bruno
Fanciullacci, morto durante la Resistenza, e di Giuseppe Martini tuttora vivo;
l'altro del Suiscola e di un gappista, noto con il soprannome «il capitano» e di
cui lo stesso Suiscola non sa fornire altri dati anagrafici.
L'ordine di uccidere venne dal Comandante delle formazioni gappiste di Firenze,
Cesare Massai che lo ricevette da Luigi Gaiani, ex-senatore, responsabile allora
del PCI nel CLN della Toscana. A sua volta il Gaiani aveva ricevuto l'ordine con
un messaggio in cifra via radio dal Comando alleato delle Forze Armate.
* * *
Sono notizie, come abbiamo scritto, venute fuori nel maggio del 1981 e che fanno
piena luce sugli esecutori morali e materiali dell'assassinio di Gentile.
Domanderete perché ci torno su.
E che, sfogliando in questi giorni il libro di Luciano Canfora, "La Sentenza.
Concetto Marchesi e Giovanni Gentile", Editore Sellerio, a pagina 290, trovo
scritto (che sbadato alla prima lettura!) che, in contemporanea al ritrovamento
nel maggio 1981 delle liste degli adepti di Licio Gelli, il Gran Maestro della
Loggia P2, sequestrate ad Arezzo, con le prime indiscrezioni, viene fuori la
rivelazione dei nomi e dei particolari circa il Commando che assassinò Gentile.
E, insieme, una meticolosa indicazione sulla provenienza dell'ordine di uccidere
il filosofo; cioè una versione dei fatti che butta all'aria tutte le precedenti,
quella, soprattutto «essere stato l'assassinio di Gentile non altro che un gesto
giustiziere di semplici patrioti di un gruppo di base comunista, senza alcun
collegamento, né con i vertici della Resistenza, né con il CLN, né con le Forze
Armate alleate».
* * *
«Le due rivelazioni», scrive il Canfora, «per così dire gemelle si hanno con
inizio l'11 maggio 1981», e ruotano subito «intorno al multiplo gioco svolto dal
Gelli nel 1944, tra Pistoia e Firenze, quale ufficiale di collegamento tra
repubblichini e tedeschi, nei confronti dei partigiani, dei nazifascisti, degli
alleati e affiorano le tracce del nesso accortamente da lui stabilito
soprattutto con la componente comunista del CLN».
* * *
La serietà degli studi, e quindi del libro, di Luciano Canfora è universalmente
riconosciuta, in tutti gli ambienti culturali e politici. È una ricostruzione
paziente e scrupolosa del cosiddetto «caso Gentile», un palinsesto di difficile
lettura, come lo sono tante vicende italiane, tragiche e sanguinose, in cui
tutti, penosamente, annaspiamo. Canfora porta la verità su uno dei tanti misteri
italiani; ed è una verità che riconferma la tesi da noi sempre sostenuta: essere
l'Italia, dal 1945 in poi, governata da quelle «forze occulte» che furono le
vere protagoniste e della caduta del fascismo e della restaurazione cosiddetta
democratica.
* * *
Nessuno, fino ad oggi, aveva evidenziato che dal libro del Canfora era emerso
che la verità sul caso Gentile si trovava fra le carte del Gran Maestro della P2
Licio Gelli.
Non solo, ma è proprio questa rivelazione a spiegarci tutti i successivi
«perché» della stessa vicenda del Gran Maestro: le protezioni avute, non ultima
quella di essere uscito comodamente dalla prigione svizzera, di avere trovato
l'elicottero e, successivamente, una barca di alto bordo, onde portarlo al
sicuro. Per vedercelo restituito, a girare l'Italia, lui accusato di tutto, con
tanto di protezione, fra alberghi e ristoranti di grido.
* * *
«Eliminate il cervello del fascismo», questo il messaggio cifrato che, dalle
Forze Alleate, giunse al radiotelegrafista che operava in Firenze per conto dei
GAP del PCI», cosi "il Giornale" di Indro Montanelli il 12 maggio del 1981;
edizione nella quale, fra l'altro, si racconta, sotto il titolo: «Resi noti i
nomi dei componenti del Commando, fummo noi ad uccidere», come venne assassinato
il filosofo dell'idealismo. Non si dice però che la rivelazione viene dalle
carte di Gelli.
* * *
Dedichiamo il tutto a coloro che ancora si cullano nella credenza che, se gli
Alleati avessero messo le mani su Mussolini, l'avrebbero salvato. Lo dedichiamo
a coloro che ritengono che si possa, in tutta tranquillità, con Licio Gelli,
sedersi a tavola a mangiare le pappardelle.
* * *
Nella prima appendice postfascista dell'Enciclopedia Italiana del 1948 sta
scritto: «La sopravvivenza della massoneria e la sua importanza furono
riconosciute in una radiotrasmissione fascista dalla Germania il 4 settembre
1943, in cui essa massoneria veniva accusata di aver tramato quel colpo sfociato
poi nel 25 luglio con l'arresto di Mussolini».
* * *
Su 19 firmatari dell'ordine del giorno Grandi contro Mussolini, ben tredici
erano collegati con la massoneria. È un altro capitolo che dovremo
coraggiosamente aprire, e che riguarda responsabilità dirette del fascismo
stesso.
* * *
Licio Gelli nel 1945, con un lasciapassare del PCI, e grazie ai servigi resi
agli Alleati, da Pistoia, passando per Roma e Napoli, avendo per guardaspalle
due partigiani armati fornitigli dal PCI, finisce alla Maddalena, in Sardegna.
Qui consegna ai Servizi segreti italiani una lista di «fascisti collaboratori
dei tedeschi». E un delatore che farà carriera. Una straordinaria carriera che
lo vedrà eleggere anche Presidenti di questa Repubblica.
* * *
Venticinque aprile 1989, 44 anni dalla liberazione. Davanti a me i quattro
quotidiani più importanti: "Corriere della Sera", "la Repubblica", "la Stampa",
"il Giornale". Non c'è un rigo sul 25 aprile. Ma allora che accadde 44 anni fa?
Quello che le povere note, che sopra ho cercato di stendere, vogliano
dimostrare, e cioè che in Italia hanno vinto, 44 anni fa, le forze occulte: la
mafia e la massoneria. E continuano, su tutta la linea, a vincere.
Territorialmente la mafia amministra già tre regioni: la Sicilia, la Calabria,
la Campania. Il resto, come mentalità, come costume, l'Italia è, al tempo
stesso, mafiosa e massonica. Perché se la mafia fu istituzionalizzata con lo
sbarco alleato del luglio 1943 in Sicilia; la massoneria, con Licio Gelli,
protetto al contempo dai lasciapassare del PCI e del Comando alleato, fa il
bello e il cattivo tempo. Magari continuando ad esercitare il delatore, che è un
mestiere simile a quello del pentito, arti proprie del potere occulto.
Questa Italia appartiene a Licio Gelli. Le sue carte, che conservavano la verità
sull'assassinio di Giovanni Gentile, sono espressione di questa Italia.
L'interpretano, le danno significanza e spessore. Nulla è cambiato da quel 25
aprile di 44 anni fa.
13 maggio 1989
P2: verità dimezzate, indagini affossate
Vi prego di fare attenzione. È di scena il Consiglio Superiore della
Magistratura. Può dirsi un Paese «civile» se quel Paese non è in grado di
rendere Giustizia?
Toga contro Toga. Su tutto i giudici si spaccano. Lottizzati. Selvaggiamente.
L'autonomia della Magistratura? Un privilegio, non uno strumento di servizio per
i cittadini. I magistrati Giovanni Palombarini e Franco Ippolito dichiarano:
«Confessiamo che in tanti anni di magistratura non abbiamo mai visto tanti
episodi e tutti cosi decisamente intollerabili in un unico palazzo di Giustizia,
quello del Consiglio Superiore della Magistratura».
* * *
Nel Consiglio Superiore della Magistratura si è visto di peggio. Infatti doveva
essere «tutto» mandato a casa quando i Giudici di Milano Giuliano Turone, Guido
Viola, Gherardo Colombo, indagando sul falso rapimento di Michele Sindona, via
Sicilia, misero le mani il 17 marzo 1981 sulle carte di Lido Gelli, prima nella
casa di Villa Wanda e poi nell'Ufficio La Gio-Le di Castel Fibocchi.
* * *
La storia della P2 deve essere ancora scritta. Il Palazzo ha dato la sua
versione, ma è una verità dimezzata. Cominciamo per ordine. E domandiamoci i
motivi per i quali i Giudici di Milano, dopo avere sequestrato le carte di
Gelli, dovettero passare l'inchiesta ai giudici di Brescia, e questi, a loro
volta, ai giudici di Roma su decisione della Cassazione. È che nelle carte di
Licio Gelli spunta fuori un plico che lascia di stucco gli inquirenti. È
intestato: Roberto Calvi, vertenza con la Banca d'Italia. Dentro una ricevuta
bancaria dell'Unione Banche Svizzere di Ginevra, con l'indicazione che il
14.10.1980, guarda caso 18 giorni dopo che a Calvi era stato restituito il
passaporto, un anonimo conto aperto presso quella Banca, ha ricevuto un
accredito di 800 mila dollari. Accanto all'importo il nome di Ugo Zilletti, il
Vice -Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.
* * *
Che accade? Dato che ad interessarsi del caso giudiziario, relativo al
passaporto tolto e poi restituito a Calvi è stata l'intera Procura del Tribunale
di Milano, i giudici Viola, Turone e Colombo, si precipitano dal Procuratore
Generale Carlo Marini e gli sottopongono il materiale sequestrato. Marini decide
subito: il procedimento non può più rimanere a Milano, il tutto sia passato ai
giudici di Brescia, sede competente ad esaminare le eventuali responsabilità dei
giudici di Milano. E Marini vola a Roma a informare Pertini, allora Presidente
della Repubblica.
Tre giorni dopo (16.4.81) un drappello di militi delle Fiamme Gialle piomba
nella sede del Consiglio Superiore della Magistratura e perquisisce l'ufficio di
Ugo Zilletti. Nelle stesse ore un'altra perquisizione viene compiuta a Firenze
nell'abitazione del Vice presidente del CSM.
* * *
Il lettore si fermi un momento sull'episodio: il Consiglio Superiore della
Magistratura, il massimo organo della Giustizia in Italia, subisce la vergogna,
senza fiatare, di veder perquisita la sua Sede, l'ufficio del suo Presidente di
fatto, il Vice Pertini!
Ma la cosa più sconcertante è che la vicenda, da tutti gli organi di
informazione, dai politici, dalle alte autorità dello Stato, viene, se non
soffocata, addomesticata fino a sparire, nella vicenda Gelli, come un fatto
secondario, ed invece ne era l'asse portante. Così come, correttamente, ha
rilevato l'on. Matteoli nella sua «solitaria» relazione di minoranza sulla P2.
* * *
Ma c'è di peggio. Mentre vengono a Milano perquisiti gli Uffici della Procura
del Tribunale e le abitazioni dei magistrati interessati alla vicenda del
rilascio del passaporto a Calvi, nei cassetti dello stesso Zilletti a Palazzo
dei Marescialli, sede del CSM che cosa si trova?
Un dattiloscritto riguardante la vita privata del dott. Mauro Gresti,
Procuratore della Repubblica di Milano, della sua moglie, della figlia e perfino
della suocera! Il che fa scrivere al dott. Mauro Gresti, in una memoria diretta
ai giudici romani subentrati per competenza, che quelle riservate notizie
raccolte da Gelli, ad altro non potevano servire che a ricattarlo, qualora si
fosse opposto al rilascio del passaporto a Calvi!!!
* * *
C'è di più. Il Vice Pertini, il Vice Presidente del CSM Zilletti non si limita
ad attivizzare i Magistrati, di cui lui dovrebbe essere il garante massimo, onde
commettano «atti impuri», ma mobilita anche il Governatore della Banca d'Italia,
se è vero come è vero che gli Uffici della Commissione di inchiesta sulla P2, in
previsione che questa si decidesse ad ascoltare Ugo Zilletti (cosa che poi si
guardò bene dal fare!) avevano preparato un capitolato di domande da fare al
Vice Presidente del CSM, alcune delle quali suonavano cosi:
a) nel quadro della «problematica» riguardante il rilascio del passaporto a
Calvi, fu Lei, o fu il Governatore della Banca d'Italia, a prendere l'iniziativa
dell'interessamento?
b) Sapeva che anche il dr. Domenico Pone, allora segretario del CSM, poi
inquisito per l'appartenenza alla P2, si era interessato presso il Procuratore
Gresti per il rilascio del passaporto a Calvi?
e) Vuole spiegare il prof. Zilletti per quali ragioni, pur dopo il rilascio del
passaporto a Calvi e l'avocazione del processo a suo carico da parte del
Procuratore Generale, ella non cessò di interessarsi di tale vicenda
giudiziaria? È vero -come riferisce il Procuratore Generale dr. Marini ai
giudici di Brescia- che lei gli raccomandò telefonicamente di adottare la
massima cautela perché il procedimento interessava al Quirinale, affermando che
a tale proposito gli aveva telefonato il Segretario Generale della Presidenza
della Repubblica, dott. Antonio Maccanico?
d) È vero come dichiara il dott. Marini, Procuratore Generale di Milano, che lei
gli raccomandò di non affidare l'istruttoria né al sostituto Urbisci né al
sostituto D'Ambrosio? Quali furono le ragioni che la indussero a così pesante
interferenza nel corso di un delicato processo penale?
e) È vero che, subito dopo il sequestro avvenuto ad Arezzo a danno di Gelli, lei
telefonò al Procuratore della Repubblica del Tribunale di Milano, raccomandando
al suo interlocutore la massima discrezione, anche perché la cosa interessava il
Quirinale?
* * *
Domande rimaste senza risposta. Insieme alla cancellazione per volontà
superiore, dei molti reati che in quei giorni di turbolenza gelliana, furono
commessi nel Tempio della Giustizia, il Consiglio Superiore della Magistratura!
Così va il mondo. Ed è questo il perché non ci meraviglia affatto che cosa
accada oggi in quel Palazzo!
* * *
«Resta sconcertante», scrive il deputato Matteoli nella sua relazione di
minoranza sulla P2 (Doc. XXIII, n. 2-bis/3,1984), «che il Presidente della
Repubblica e, al tempo, Presidente del CSM, Sandro Pettini, la cui notorietà e
popolarità si è materiata in difesa della pubblica moralità in gesti anche al di
fuori del protocollo, abbia, in silenzio, acconsentito che il caso Zilletti e
soci venisse soffocato attraverso procedure vergognose e, ahimé, sancite dal
bollo della Giustizia nei suoi vari gradi.
«L'indagine andava rifatta. Da capo a piedi. Là dove era stata affossata andava
ripresa, svolta, spiegata. Era l'occasione che la Commissione di inchiesta sulla
P2, per la sua credibilità, doveva raccogliere. Invece no. E si è affossata. Con
le sue stesse mani».
Ci pare che basti.
20 maggio 1989
Un antisemita alla corte del PCI
Compare nelle liste europee del PCI Maurice Duverger, celebre professore della
Sorbona, uno dei più noti costituzionalisti europei, scienziato della politica e
autorevole editorialista de "Le Monde", di "El Pais" e del "Corriere della
Sera".
Un'ombra nella sua vita: l'aver scritto nel 1941, sotto il governo di Vichy del
Maresciallo Petain, durante l'occupazione tedesca della Francia, un testo dal
titolo "La situazione dei funzionari dopo la Rivoluzione del 1940" (quella di
Vichy - N.d.R.) nella "Revue de droit public e de Science politique". Le pagine
306-319 sono dedicate all'incapacità di accesso degli Ebrei alle cariche
pubbliche.
* * *
"la Repubblica" (13.5.89) ci fa sapere che da questa accusa Maurice Duverger
che, fra l'altro è consigliere di Mitterrand, ci è sempre uscito bene; anche con
verdetti giudiziari, i quali gli hanno riconosciuto di aver scritto un'opera,
grazie alla quale gli Ebrei poterono veder attenuate le proprie pene dai
provvedimenti razziali emanati dal governo di Vichy, in quanto quella
interpretazione del grande costituzionalista ne ridusse il campo di
applicazione.
Sarà; resta comunque il fatto significativo che nella stessa Francia l'aver
redatto quel Testo ha impedito al «grande» Maurice Duverger di entrare
nell'Accademia di Francia e nel Consiglio costituzionale.
* * *
Ma che cosa scrisse, in quel Testo, Maurice Duverger? Orbene, in quel testo sta
scritto testualmente che «la misura che colpisce gli Ebrei ha carattere di una
misura di pubblica necessità». E, a conclusione del suo lungo argomentare,
Duverger si ferma, testuale, «sulle importanti riforme realizzate dopo il giugno
1940 dal governo Petain: espulsione degli Ebrei e dei naturalizzati,
rafforzamento della disciplina, epurazione politica attraverso il sollevamento
delle funzioni, il nuovo regime delle associazioni».
* * *
Scrive lo storico israelita Zeev Stemhell, professore di Scienze politiche
all'Università di Gerusalemme ("Né destra, né sinistra, la nascita
dell'ideologia fascista"): «Questo studio analitico scientifico della legge 3
ottobre 1940 dal titolo "Statuto degli Ebrei", lascia incredulo persino il
lettore meno intransigente. La trattazione in questo tono neutro di un argomento
che cambia profondamente il carattere della comunità francese esige un distacco
fuori dal comune nei confronti della realtà di questo periodo. Da parte di un
animale politico come Duverger, politologo e giornalista d'assalto, che passerà
il resto della vita a dare lezione di morale, un distacco del genere sembra
piuttosto costituire una certa legittimazione degli aspetti più sordidi del
regime nato dalla "Rivoluzione del 1940"».
* * *
Non si dimentichi, infine, che Duverger viene a scrivere su una rivista il cui
direttore, Roger Bonnard, preside della facoltà di Legge dell'Università di
Bordeaux, fissa saldamente la linea politica. Infatti, fin dal primo numero,
uscito dopo la sconfitta della Francia, sottolinea che essa linea si terrà sì
sul terreno scientifico, ma «la sua scienza non dovrà essere neutra. Perché nel
momento attuale bisogna prendere posizione e schierarsi. D'altronde, con il
nostro Capo, il Maresciallo Petain, la Francia ha ora una guida di una saggezza
e di una padronanza di idee incomparabili e quasi sovrumane, che gli impediranno
di commettere errori e lo condurranno sul cammino della verità». Il resto,
commenta Stemhell, è dei medesimo inchiostro.
* * *
Piero Fassino, responsabile del settore organizzazione del PCI, e che ha
coordinato la formazione delle liste comuniste per le europee, afferma che la
speculazione sul passato di Maurice Duverger è meschina, che il PCI non ha
l'abitudine di fare l'investigatore sul passato delle persone (sic! N.d.R.).
È una bella faccia tosta! Hanno infierito perfino sul capo-fabbricato, sul
bidello, sull'ultimo dei lavoratori se, per caso, si fossero schierati con
Mussolini (salvando, al contempo, il Maresciallo Badoglio!), e ora, nell'anno di
grazia 1989, avendo nelle proprie fila il politologo Duverger che trovò normale
che gli Ebrei fossero messi fuori nel 1940 dagli uffici pubblici della Francia,
il comunista Fassino ci fa la morale: noi, dice, non siamo usi investigare sul
passato delle persone!
E, intanto per cambiare, i comunisti (sia pure molto fievolmente) se la prendono
con Craxi perché al Congresso del PSI ha invitato Fini!
Torna la parabola evangelica della trave e della pagliuzza.
* * *
La Francia e il Fascismo. Viene spontanea la domanda: come mai in Francia il
Fascismo ha avuto una cultura così ricca, così rigogliosa? Sono sufficienti
alcuni nomi: il cattolico del personalismo cristiano Emanuel Mounier, con la
prestigiosa testata de "l'Esprit"; il socialista, intellettuale di primo piano,
Marcel Deat, discepolo di Leon Blum; l'esponente di rilievo del Partito
comunista francese Jacques Doriot; il leader del socialismo belga Henry de Man;
Thierry Maulnier, direttore di "Combat", che approderà all'Accademia francese;
Bertrand de Jouvenel eroe poi del liberalismo, tutti esaltati, affascinati.
Perché tutto questo rigoglio intellettuale intorno al fascismo degli anni, in
particolare, che vanno dal 1930 al 1940?
Come mai un Angelo Tasca, che è fra i fondatori del PCI a Livorno nel 1921,
approda nel 1940 alla «Rivoluzione di Vichy» del Maresciallo Petain? Come mai il
cattolico Monnier giungeva nel 1940 ad accettare il principio della Rivoluzione
nazionale del Maresciallo Petain, in odio non solo a socialisti e comunisti, ma
a tutto l'Occidente liberale e democratico?
* * *
Nelle viscere della storia francese si trovano anche queste parole: sono della
metà dell'Ottocento.
«Ebrei. Fare un articolo contro questa razza che avvelena tutto, ficcandosi
dappertutto senza confondersi mai con nessun popolo. Chiederne l'espulsione
dalla Francia, eccettuati gli individui sposati con donne francesi. Togliere di
mezzo le sinagoghe, non ammetterli a nessun lavoro, perseguire infine
l'abolizione di questo culto. Non per niente i cristiani li hanno chiamati
deicidi. L'ebreo è il nemico del genere umano. Bisogna rispedire questa razza in
Asia oppure sterminarla» (Dal secondo volume dei "Carnets" di Pierre-Joseph
Proudhon, Parigi 1961).
* * *
E ancora Drieu La Rochelle: «Senza dubbio, quando ci si riferisce a questa
epoca, ci si rende conto che alcuni elementi dell'atmosfera fascista erano
riuniti in Francia verso il 1913, prima che Io fossero altrove. C'erano dei
giovani di diverse classi sodali che erano animati dall'amore dell'eroismo e
della violenza e che sognavano di combattere ciò che essi chiamavano il male su
due fronti: capitalismo e socialismo parlamentare, e di trarre il bene dai due
lati. C'erano, credo, a Lione delle persone che si definivano
socialisti-monarchici o qualcosa di simile. Già il legame fra nazionalismo e
socialismo era progettato. Sì, in Francia, intorno all'Action Francaise ed a
Peguy, c'era la nebulosa di una sorta di Fascismo».
* * *
La Francia: culla culturale del Fascismo? E chi l'avrebbe mai detto?
27 maggio 1989
Le amnesie dì Craxi
Bettino Craxi, aprendo i lavori, non di questo ma dell'altro Congresso nazionale
del PSI (aprile 1987), ebbe a dire: «Sapeva bene Carlo Rosselli che l'errore più
grande del PSI, per quanto nato dai moti e dai fermenti risorgimentali, era
stato proprio quello di non aver saputo fare i conti, né con il Risorgimento né
con la Nazione. Invece di farsi popolo i socialisti si restrinsero sempre più
nella classe, rinunciando al patrimonio risorgimentale in cui affondavano le
proprie ragioni, dimenticando le parole e gli insegnamenti degli Eroi che
avrebbero dovuto essere loro».
* * *
Non ci sono dubbi. L'errore, di cui Craxi parla aprendo i lavori del 44°
congresso socialista, è quello del 1914 che vide il PSI schierarsi contro la
Nazione, da cui ebbe vita la scissione mussoliniana del novembre 1914, l'eresia
nazionale del socialismo, la piazza che ha ragione del Parlamento, la guerra per
Trento e Trieste, che non è solo il coronamento del sogno risorgimentale di
Mazzini e di Garibaldi, ma è guerra rivoluzionaria. Infatti Mussolini comprende
che soltanto una vittoriosa prova bellica ottenuta dal proletariato, proprio nei
confronti degli Asburgo che l'avevano per secoli tenuto soggetto e,
indirettamente, nei confronti della Curia Romana che, allora, non vedeva certo
sfavorevolmente la Casa d'Austria erede della Spagna «cattolicissima» nel gioco
delle potenze, avrebbe dato al proletariato italiano quella fiducia nelle
proprie forze, che in Italia era sempre mancata a causa delle vicende
risorgimentali che, derivate dall'azione di piccole minoranze e coronato da una
serie di compromessi, avevano impedito quella grande prova di popolo, vaticinata
da Mazzini, la quale sola avrebbe potuto, se non realizzare immediatamente,
certo gettare le premesse per una rivoluzione italiana.
* * *
L'analisi di Bettino Crasi è esatta, ma si ferma a metà, perché quell'errore del
1914, che vide il socialismo italiano sconfitto lungo la linea turatiana del «né
aderire né sabotare», estraniando così il socialismo dalle vicende nazionali e
internazionali («se non siete capaci di fare la guerra contro gli Asburgo
"reazionari", buttatevi allora nelle piazze a fare la rivoluzione», disse
Mussolini, ma nemmeno questo accadde), fu opera del «riformismo» dei Turati e
dei Treves. La loro staticità dottrinaria, il loro attendismo paralizzante,
l'indecisione permanente. Il PSI fece la fine dell'asino di Buridano: non
sapendo scegliere, per mancanza di determinazione, fra un secchio di avena e uno
d'acqua, si privò di tutte e due, e morì d'inedia.
* * *
Bettino Craxi, in questi giorni, durante il 45° Congresso del PSI, ha più volte
fatto cenno, rendendole omaggio, ad una donna: Anna Kuliscioff, «la russa dai
capelli d'oro». Riformista come Turati, ma è da lei, donna, che nei giorni bui
di Caporetto, quando gli attendisti del socialismo imperversavano ancora, che
arriva a Turati questa lettera irata e carica di dignità: «Verrà il momento che
discuterete tutte le responsabilità della guerra. Ma in questo doloroso
frangente, colpita tutta l'Italia dalla sorte avversa, il vostro dovere di
socialisti e di Italiani è di combattere per la liberazione del proprio Paese.
Tanto e tanto tutte le recriminazioni non solo non giovano né alla guerra né
alla pace, ma servono soltanto a sabotare la resistenza al nemico»
(A. Kuliscioff a Turati, 10.XI.1917, Archivio Schiavi).
* * *
Craxi questo non lo ha ricordato. Avrebbe fatto bene a farlo. Per ribadire quel
«concetto» che la storia, nelle sue vicende, ha più volte confermato e cioè che
il Socialismo è nazionale, o non è.
* * *
Dalla Kuliscioff, Bettino Craxi è passato, parlando delle radici storiche del
PSI, a Carla Voltolina, «la compagna di Sandro Pertini che la mattina del 25
aprile, partì da questo vecchio stabilimento dell'Ansaldo, sventolando una
bandiera rossa, alla volta di Piazza del Duomo, dove Pertini teneva in quello
stesso storico giorno un suo famoso comizio insurrezionale».
* * *
Nella vita di Donna Carla Voltolina (raccontiamo queste cose senza alcuna
acrimonia, così come del resto ha fatto Craxi, parlando, con civiltà, delle
vicende del 25 aprile 1945) c'è, lei inconsapevole di quei fatti storici perché
era una bambina, un'altra celebre partenza: quella per la marcia su Roma,
quando, sulle spalle del padre, lo squadrista Nino Voltolina, fondatore del
Fascio di Torino, e Lei mascotte della squadra d'azione "Cesare Battisti", si
avvia a partire appunto per Roma, il 28 ottobre 1922. Il tutto in una fotografia
pubblicata a pagina 281 del libro "Quattro anni di passione" (Enrico Portino,
Torino, 1935, Tipografia Silvestrelli e Cappelletti).
* * *
Bettino Craxi, rivolgendosi proprio a noi, ha parlato di pacificazione, un
sentimento, ha detto, che non è estraneo a noi socialisti, purché a misura di
tutto restino sempre i valori della libertà nella pienezza della loro
autenticità e validità.
* * *
D'accordo, ma che quei sentimenti, a 40 anni dalla fine della guerra e della
guerra civile, siano accompagnati da quel senso della pietà (intesa come la
intendevano i latini, la pietas verso i morti, le memorie, il passato) che si
deve nei riguardi di vicende storiche che, appartenenti al Secolo delle
«passioni» (il Secolo delle Rivoluzioni), videro gli Italiani «sbudellarsi» a
vicenda, onde affermare la propria concezione della vita. In una lotta che fu
fratricida, che attraversò città, paesi, famiglie, in un intrecciarsi di episodi
impietosi, crudeli e sublimi davanti ai quali, più che andare a vedere chi ha
avuto torto e chi ragione, occorre mettersi in ginocchio, religiosamente, onde
ricucire la propria storia lacerata, condizione fondamentale per un Popolo, se
vuole vivere, affermarsi, esistere.
Lincoln, il Presidente degli Stati Uniti d'America, davanti alla resa del
sudista Generale Lee, dopo una guerra fratricida costata 700 mila morti, ebbe a
dire: «Le guerre civili si dimenticano e se io potessi ne strapperei le pagine
dai libri della Storia».
* * *
Per carità, nessuno vuole strappare quelle pagine. Anzi. Direi che vanno lette,
ma con amore infinito. Componendo quell'immenso doloroso calvario nell'amore
della Patria.
Per tutto, un episodio. Nel libro di Gaetano Tumiati "Prigionieri nel Texas" (da
leggere) è raccontata la storia del di lui fratello «Francino», fascista
entusiasta, amico di Mieville, che si imbarca giovanissimo quasi ragazzo e va a
combattere in Africa Settentrionale con le Batterie Volanti. È decorato, ferito,
rimpatriato.
L'8 settembre è dall'altra parte. E per non rivelare i nomi dei partigiani suoi
amici, viene fucilato dalle Camicie Nere il 17 maggio 1944 a Cantiano, vicino
Pesaro. Gaetano Tumiati che è, insieme a chi scrive, a Mieville, a De Torto, a
Cecchini e altri nel Campo non collaborazionista di Hereford in America, riceve
una lettera in cui è detto: «Tuo fratello, il nostro Francino, è morto caduto
sotto il fucile dei fascisti».
Un mondo che crolla addosso.
* * *
«Fucilato dai fascisti», scrive Turnisti, «cioè da quelli della mia parte. Sì,
anche se non volevo ammetterlo, anche se gridavo no, no, non poteva essere vero,
eravamo finiti sui lati opposti della barricata, lui di là, con gli Alleati, con
gli Americani, con quelli che non avevano voluto restare nel nostro Campo; io di
qua, con quelli della vecchia via: con i tedeschi, con i fascisti, con i
prigionieri rimasti ad Hereford, con quelli che lo avevano fucilato.
«Come era stata possibile questa atroce, impensata divisione? Fulmineamente, con
la incredibile rapidità di certi sogni, riandavo a tutto l'itinerario percorso
insieme — l'Italia, i Littoriali, la partenza per l'Africa, le discussioni al
Villaggio Crispi. Niente. La mia strada pareva di una linearità disarmante. Ed
allora? Cosa era successo? A quali tragedie aveva assistito? Quale scintilla lo
aveva fatto ribellare? ... Non so quanto tempo sono rimasto sotto il sole con
quella lettera in mano... Poi, a gran fatica, sono riuscito a muovermi, ho fatto
pochi passi, sono arrivato fino alla prima baracca, mi sono accasciato
sull'erba, le spalle appoggiate alla parete, e ho cominciato a piangere...
«E ora? Sta per spuntare l'alba di un altro giorno, qui nel Texas. Già alla
finestra si intravedono i primi chiarori. Un altro giorno di prigionia in questo
Campo di Hereford, riservato ai "non collaboratori". Ci siamo rimasti in pochi
ormai. Ogni tanto qualcuno non ce la fa più a resistere e chiede di passare
dall'altra parte, dalla tua parte. Tu sai che non posso venirci, Francino.
Esperienze diverse dalle tue mi hanno portato qui e qui debbo resistere. L'unico
modo per essere degno di te è resistere fino in fondo tra questi reticolati. Mi
capisci, vero, Francino?».
* * *
Così Gaetano Tumiati. La mia parte, la tua parte. I fucili che crepitano.
Bisogna comprende tutto ciò. Bisogna aver la forza e la capacità di mettersi, in
ginocchio, davanti a questa Italia, che non è stata alla finestra. E pregare.
Solo così la pace sarà. Fra Italiani.
3 giugno 1989
Il sistema di potere DC
Non riuscivo a stabilire di che tipo fosse la solidarietà subito dimostrata dal
Ministro dell'Interno Antonio Gava a Ciriaco De Mita, appena questi si è dimesso
da Presidente del Consiglio dei ministri. Perché, mi sono chiesto, se al
Congresso DC, proprio Antonio Gava è stato uno dei promotori perché De Mita
lasciasse la carica di Segretario della DC?
Poi mi sono ricordato. E una solidarietà che nasce dal fatto che anche Gava, e
la sua famiglia, è stato anni fa, come Ciriaco De Mita, definito, in pubblico,
padrino, anzi «superpadrino». Qualifica che, a proposito dell'immagine, è
costata cara a De Mita, anche se la sua querela nei confronti di Montanelli,
formalmente, è andata a buon fine.
* * *
7 ottobre 1973: il "Corriere della Sera", a firma di Leonardo Vergani, titola:
«Il super-padrino di Napoli». Nell'obiettivo: Antonio Gava, figlio allora del
Ministro DC Silvio Gava, doroteo potentissimo.
Nessuna querela da parte di Antonio Gava. Solo che, anziché Antonio, è Silvio
Gava a fornire al "Corriere della Sera" alcune precisazioni e che il quotidiano
di Milano così titola: «La polemica sul superpadrino, una lettera del Ministro
Silvio Gava».
Non finisce qui. Il "Corriere" replica (13 ottobre 1973) e titola: «La polemica
sul superpadrino di Napoli, risposta al Ministro Gava».
Leonardo Vergani, fra l'altro, scrive: «Scrivo sul figlio Antonio, e risponde il
Padre Silvio Gava, paternamente preoccupato di quanto sta succedendo a Napoli.
Così ha fatto anche con Andrea Barbato de "la Stampa"... Insomma replica sempre
lui, come se avesse detto al figlio: sta buono, a questi ci penso io. Antonio
obbedisce e tace».
E, aggiungo io, si prende del «padrino». Senza fiatare.
* * *
La cosa dilaga. "il Messaggero": «Antonio Gava l'uomo del potere DC a Napoli.
Parla il superpadrino: la mia forza è il partito».
"l'Espresso", a tutta pagina (21.X.73): «Il Padrino e i suoi padroni».
Quindi, per riassumere, quello che Montanelli, da solo, ha scritto nei riguardi
di Ciriaco De Mita, è nulla in confronto a ciò che la stampa nazionale scrisse,
16 anni fa, di Antonio Gava, il «padrino». Ed ecco spiegata la solidarietà che
si è stabilita fra Gava e De Mita, quando quest'ultimo ha dovuto abbandonare la
scena... Quella parola: «Padrino»...
Domanderete perché, davanti ad una crisi di governo che sarà una fra le più
difficili, mi vada... perdendo dietro il «padrino» Gava. Che senso ha? Un senso
c'è, cari amici, ed è che quel governo che è caduto aveva, non per caso, come
Ministro dell'Interno, Antonio Gava, il padrino... Come può -ecco la domanda di
fondo- un «sistema di governo» selezionare un Gava, portandolo in cima alla
piramide dello Stato, un uomo universalmente riconosciuto «padrino», senza
essere detto «sistema» marcio nei suoi meccanismi?
Le colpe non sono di Gava, ma del sistema di potere DC che Gava esprime. E il
sistema di potere DC che designa al settore più delicato della manovra
governativa, quello dell'ordine pubblico, e nel momento in cui tre regioni
italiane, fra le più popolate, la Sicilia, la Calabria e la Campania, non sono
più controllate dallo Stato, Antonio Gava, doroteo. Il territorio di quelle tre
regioni è in mano della criminalità organizzata. Ebbene a sovrintendere
all'ordine pubblico ci va, per volontà DC, un uomo che è immerso fino al collo
in quella foresta di faide in cui camorra, servizi segreti, terrorismo (parlo
del caso Cirillo) si mescolano in un viluppo di circostanze incredibili e di
significato terribile.
* * *
E nel bel mezzo di questa storia, il Ministro dell'Interno che lancia la sua
proposta di coinvolgere nell'azione di governo contro la mafia il PCI, così come
si è fatto, precisa, con il terrorismo. L'idea può apparire percorribile se non
fosse in Gava strumentale. È che il Ministro dell'Interno, in difficoltà sul
caso Cirillo, con questa proposta, altro non mira che ad ingraziarsi il PCI. Non
pensa allo Stato, all'interesse generale, pensa a se stesso, alle sue vicende
personali, ai suoi affari. Che vada pure allo sfascio lo Stato, ma si salvi la
dinastia Gava!
* * *
Una testimonianza. E di un Ministro in carica, Paolo Cirino Pomicino, vicino ad
Andreotti, risale all'aprile 1982, cioè proprio nel caldo della vicenda Cirillo.
Intervistato da Massimo Caprara del settimanale "Pagina", Paolo Cirino Pomicino
dice: «Gli sviluppi dell'ultimo periodo a Napoli, presentano un dato di
continuità: quello del rapporto tra il gruppo doroteo della DC ed amministratori
comunali del PCI. Per essere più precisi, tra Andrea Geremicca, deputato ed
assessore di punta comunista e Raffaele Russo, gaviano, precisa Pomicino. La
gestione dei 20 mila alloggi da costruire e distribuire in base alla legge
Andreatta è stata manipolata (sic! N.d.R.) nel quadro di un cosiddetto comitato
politico che è la sede della spartizione fra PCI e dorotei. Una volta, quando,
inopinatamente per loro, mi presentai ad una riunione di quell'organismo,
accadde che da parte comunista si telefonasse alla DC per chiedere ragguagli e
sconsigliare la mia presenza scomoda. Tutte le scelte urbanistiche con questi
insediamenti sono state giocate all'interno di una combinazione, all'esterno
conflittuale, in concreto convergente. II terreno? La legge numero 219 del
maggio dell'81. In pratica questo binomio imperfetto fra certa DC e certo PCI ha
cominciato con il distribuire 40 miliardi di lavori a consorzi di imprese
private ...».
Cosa significano, in termini concreti, queste parole di Paolo Cirino Pomicino,
non ultimo arrivato, ma Ministro in carica?
Presto detto. Che i fondi per i terremotati, soldi nostri, soldi di tutti, la DC
e il PCI, o meglio una certa DC (quella di Gava) e un certo PCI (quello di
Geremicca), se li giocano fra loro in Comitati speciali e fasulli; cioè con una
cultura partitocratica tutta mafiosa, con metodi partitocratici tutti mafiosi,
con risultati partitocratici tutti mafiosi. Forse è davvero impossibile
immaginare a quali imprese quei miliardi sono finiti? E quelle imprese come
potranno ricambiare? Ringraziando solamente? Ma come si fa a pensarlo appena si
rifletta che oggi, per tentare di essere «eletti» non bastano, come partenza,
800 milioni o giù di lì?
* * *
Altra domanda: attraverso questo sistema vengono davvero eletti gli uomini
migliori?
Non certo. Ma se è cosi, e così è, il sistema di governo che abbiamo, non è lui
stesso generatore primo di malavita, non è il terreno ideale perché la mafia
viva e prosperi?
La domanda ora la pone Giorgio Bocca ("l'Espresso", 15.1.89): come può un
politico nato e cresciuto in una società mafiosa, che si è fatto strada
negoziando voti e finanziamenti con la dominante economia mafiosa, che è
imbevuto di riflessi condizionati malavitosi, diventare un uomo di governo,
adatto all'Italia legale e europea?
Se i politici utilizzano i soldi di tutti per fare della malavita organizzata il
loro apparato elettorale, in che mani siamo finiti?
10 giugno 1989
Un'altra Italia
Spigolature, curiosità, sempre di costume. Piero Ottone ("Epoca", 16.4)
racconta, come inviato del "Camere della Sera", il suo incontro a Mosca con
Nikita Krusciov.
«Lei è italiano», mi disse Krusciov, «ho visto gli Italiani durante la guerra in
Ucraina, brava gente, non avevano nessuna voglia di combattere e si lasciavano
prendere prigionieri, erano veramente bravi figlioli!».
* * *
L'on. Giuseppe Codacci Pisanelli, democristiano, professore universitario,
Rettore di Università, più volte ministro, incontra Nikita Krusciov il 3
novembre 1961 al Cremlino, in qualità di presidente dell'Unione
Interparlamentare. «Mi ha guardato», scrive Codacci Pisanelli ("Concretezza",
quindicinale diretto da Giulio Andreotti, 16 novembre 1961, n. 22, pagina 5), «e
con uno strano sorriso mi ha detto: "Voi Italiani non siete cattivi. Ho
combattuto contro gli Italiani nel bacino del Donetz ed avevo di fronte proprio
le Camicie Nere, che ritenevo i più malvagi fra gli Italiani. Avevano combattuto
bene e pensavo che fossero accaniti contro di noi. Dopo avere interrogato
numerosi prigionieri ho dovuto constatare invece che non avevano odio nei nostri
riguardi"».
E Codacci Pisanelli aggiunge: «Ho voluto che la notizia di simile riconoscimento
fosse resa nota attraverso la rivista del ministro della Difesa (quello del
tempo: Giulio Andreotti - N.d.R.), al quale spetta, fra gli altri compiti,
quello di tutelare il buon nome dei combattenti italiani, divulgando le
testimonianze a loro favore, specialmente quando provengano da fonti non
sospette!».
* * *
Su Piero Ottone questo giudizio di Indro Montanelli: «Quali siano le opinioni di
Piero Ottone non si è mai capito: qualcuno dubita che ne abbia... E un consumato
trapezista. E un animale a sangue freddo, anzi gelido, il cui self control si
distingue male dalla simulazione. Mai abbiamo visto in lui uno slancio, un
guizzo, un palpito, nemmeno uno scatto d'umore... Nella politica di corridoio,
nell'arte di navigare in acque torbide -quelle chiare non gli si addicono- è da
ammirare. Ma solo in questo» ("il Giornale", 23.10.1977).
Pace all'anima sua.
* * *
Nel cimitero americano di Nettuno, davanti alle file silenziose di lapidi
bianche, George Bush ha ricordato che la NATO venne creata «quando era fresca in
mente la memoria dei sacrifici di soldati americani, inglesi e francesi caduti
durante la campagna per liberare l'Italia, e i sacrifici di milioni di altri
Europei e Americani, caduti per la causa della libertà».
Un monito, dunque, quello di Bush, rivolto a quegli Europei che, nel momento
attuale, vorrebbero, nei riguardi della Russia sovietica, abbassare la guardia
militare, con ciò mettendo in pericolo la libertà e la democrazia. La risposta,
ha detto Bush, è qui, «nel silenzio di queste tombe».
* * *
Fermiamoci un attimo. La memoria ci suggerisce che, nel momento in cui migliaia
di Americani, Inglesi, Francesi cadevano, più di 40 anni fa, in difesa della
libertà e della democrazia, avevano al loro fianco le Armate sovietiche che,
alla causa della libertà e della democrazia esaltate dal Presidente americano,
contribuivano con venti milioni di morti.
La commemorazione di Nettuno ha un senso se il sacrificio di Americani, Inglesi
e Francesi, si accompagna nel ricordo al sacrificio dei soldati sovietici. Se
così non è, anzi se quella «commemorazione» assume, come assume, un significato
anti-sovietico, non ha più senso. Infatti è Bush stesso a ricordare agli Europei
immemori che c'è da difendere quella «libertà» e quella «democrazia» che gli
Americani, improvvidamente, ci portarono, insieme ai Russi, 40 anni e più fa.
Come esaltare una guerra «liberatrice» se, alla sua fine, gli alleati di un
tempo, vincitori contro l'Europa, si dividono e si affrontano a suon di cannoni,
aerei, carri armati, missili e testate nucleari?
* * *
A Nettuno e ad Anzio, in difesa di Roma, caddero, davanti ad Americani, Inglesi,
Francesi, Marocchini e Senegalesi (che ci portavano la democrazia e la libertà),
ragazzi italiani del Folgore, del Nembo, dell'Azzurro, del Barbarigo. In nome
anche di una idea-bandiera, quella antibolscevica, che l'Italia, negli anni
Venti, aveva innalzato per prima nel mondo, quando i liberaldemocratici se la
intendevano con Beppino Stalin.
Oh! quanto sarebbe stato fiero e virile, e pieno di significato, se George Bush,
nel momento in cui rendeva il dovuto omaggio alle croci bianche dei Caduti
americani, avesse portato un fiore a quelle altre tombe, ai ragazzi caduti
dall'altra patte, ai ragazzi del Folgore e del Barbarigo!
* * *
Al fronte di Nettuno è legato un episodio particolare, di penetrante
significanza, quasi ignoto. Ce lo racconta Giovanni Dolfin nel libro "Con
Mussolini nella tragedia. Diario del capo della Segreteria particolare del Duce
1943-1944", ed. Garzanti.
Si tratta del maggiore dei paracadutisti Rizzatti. Questo valoroso ufficiale,
volontario di guerra più volte, comandante a Nettuno del Battaglione "Nembo",
scrive dal fronte una lettera ad una ragazza del Friuli. In essa è detto, fra
l'altro, che «combatte per l'onore della Bandiera e della Patria e non certo per
il governo di Salò»; ha parole feroci contro il fascismo, i suoi uomini, lo
stesso Mussolini.
La lettera è censurata e perviene a Mussolini. Questi chiede a Kesselring, da
cui il Battaglione "Nembo" dipende, di inviargli il Rizzati perché gli vuole
parlare.
* * *
Rizzatti giunge a Gargnano, dopo un viaggio fortunoso, accompagnato da un gruppo
di ufficiali. Dolfin gli contesta la lettera. Imperturbabile, scrive Dolfin,
prese il foglio, lo rilesse, e con la massima tranquillità, disse: «Questo
scritto è mio. Non ho nulla da ritoccare. Se ho compiuto un reato, per aver
manifestato quello che penso, sono qui per scontarlo. Non ritratto una virgola».
E specificò: «Il mio battaglione combatte da anni. I morti sono assai più
numerosi dei vivi, e i vivi continuano a morire. Siamo nel fango, privi di
tutto. Spariamo perché non vogliamo che nessuno abbia il diritto di dire che gli
Italiani sono vigliacchi. Conosciamo solo l'Italia e credo che questo possa
bastare!».
* * *
Mussolini non lo ricevette. Pretese una lettera di scuse che il Rizzatti rifiutò
di scrivere nei termini richiesti. «Questo Rizzatti cocciuto, testardo, è un
Italiano! Uno di quegli Italiani che sanno ancora scrivere storia! Assicuri il
maggiore che il suo battaglione avrà d'ora innanzi tutto quello che necessita.
Dica a lui e ai suoi ufficiali che li considero i primi Italiani».
Rizzatti: «Riferisca a Mussolini che noi continueremo a fare quello che abbiamo
sempre fatto, cioè il nostro dovere!».
Rizzatti torna a Nettuno. Per morire alla testa del suo battaglione. Alla sua
memoria la Medaglia d'Oro al V.M.
Così moriva a Nettuno contro gli Americani un non-fascista.
In Italia non ci sono solo i Piero Ottone.
17 giugno 1989
Occhetto, sedotto e abbandonato
Caro Occhetto, che effetto le fa essere «linciato» da quegli stessi personaggi
che, pochi giorni fa, come Forlani, tenevano a far notare la propria presenza al
Congresso del PCI dove si discuteva di comunismo dal volto umano?
Che effetto le fa constatare la fuga degli Agnelli, dei De Benedetti, dei
Pesenti, dei Cardini, di quel capitalismo italiano che appena «ieri» si era
precipitato a fare «affari» con la Cina di Deng e la Russia di Gorbaciov?
Che effetto le fa «ricordare» che le liberal-democrazie dell'Occidente che,
senza Stalin, non avrebbero certo vinto la guerra, rimasero immobili quando
Mussolini, per aver anticipato fin dal 1918 quello che sarebbe stato il
comunismo, venne appeso ai ganci di Piazzale Loreto?
Ricorda? Anche il Cardinale Schuster fu della partita e applaudì i liberatori
sovietici, portatori di una dottrina che, secondo il cattolico De Gasperi,
equiparava Marx a Cristo.
Ora gli si rivoltano tutti contro, caro Occhetto. È facile «picchiare» nella
disgrazia. Anche noi siamo passati da quella esperienza, ma senza rinnegare. Lei
prende botte e rinnega. È brutto, caro Occhetto, rimanere a terra. Senza più
bandiere, senza memoria, senza storia. Noi la nostra Storia ce la siamo tenuta.
E non ci da torto nel 2000, tanto che possiamo dire a chi le fa oggi la morale e
che ieri fu alleato del comunismo, che ci fa altrettanto pena (e un tantino
schifo).
* * *
Ma non è di questo che volevo oggi parlare con Occhetto, ma della sua recente
affermazione: «Su questo voto amministrativo c'è il segno di clientele e di
malavita» ("l'Unità", 31.V).
Non posso dargli torto, è così. Il sistema è malavitoso, ma non solo a Palermo,
anche a Torino, che ha più cosche di Bagheria.
Ma può, ecco il punto, caro Occhetto, il PCI fare una simile denuncia? Può farla
il suo Segretario che, a lungo. ha governato, per conto del PCI, la Sicilia come
proconsole regionale e proprio nel periodo (gli Anni '70) in cui il PCI tesseva
la sua politica di compromesso storico con il partito che della malavita
siciliana era, ed è, il più imbevuto?
Possibile, caro Occhetto, che lei dimentichi quanto ha scritto Nando Dalla
Chiesa, il figlio del generale assassinato, iscritto al PCI, e da questi portato
in processione, come un Santo, tutte le volte che, in Sicilia o altrove, c'è in
discussione l'argomento mafia?
Su "la Repubblica" del 19.XII.1982, sotto il titolo «Pax mafiosa», Nando Dalla
Chiesa pone una riflessione e due interrogativi. La riflessione è questa: «La
mafia, è bene ricordarlo, diventa più potente nel decennio (è il decennio in cui
Occhetto regge a Palermo le sorti del PCI - N.d.R.) in cui cresce, e non di
poco, la sinistra». Gli interrogativi sono questi: «Quali sono i princìpi che
regolano tattiche, strategie, formule, e soprattutto alleanze della sinistra in
quel periodo? Forse le leggi della politica che essa sinistra pratica sono le
stesse leggi in cui può navigare il potere mafioso?».
«Il fatto è», scrive Nando Dalla Chiesa, «che è cresciuta la compenetrazione
della mafia col potere e per questo si possono colpire le Istituzioni. Non ci
sono cadaveri eccellenti senza assassini eccellenti. Se ciò è vero, ed è vero,
che il salto qualitativo si realizza nel decennio, c'è a sinistra un approccio
del potere alla politica che va criticato impietosamente. Senza di che -conclude
Nando Dalla Chiesa- la denuncia delle responsabilità democristiane resterà
sacrosanta quanto inefficace».
Caro Segretario del PCI, Nando Dalla Chiesa ha ragione da vendere, anche perché
la critica «all'approccio del potere del PCI», con metodi in cui la malavita
mafiosa può tranquillamente navigare, il PCI l'ha fatta, un anno dopo, nel
marzo-aprile del 1983, quando lo stesso PCI venne duramente colpito nella sua
immagine di partito dalle mani pulite, con lo scandalo delle tangenti di Torino,
dove al governo di quella città c'era proprio il PCI, e con uno dei suoi uomini
più prestigiosi, Diego Novelli.
* * *
Caro Occhetto, si faccia portare, la prego, i verbali del Comitato centrale del
PCI che si svolse nei giorni 7-8-9 aprile 1983, proprio sul tema dello scandalo
di Torino. Non trovo tracce di un suo intervento in quella occasione, ma ho
conservato, fra le mie carte, quelli di Diego Novelli e di Piero Fassino,
quest'ultimo allora segretario della Federazione comunista di Torino, e quello
della Nilde lotti che ai due, che avevano messo le carte in tavola sullo
scandalo con rigore fermo (non è un incidente di percorso, disse Novelli, la
colpa è del «sistema» che va tutto emendato), rispose, filosoficamente
distaccata, «che quando si governa bisogna essere pronti a portare la gloria ma
anche la Croce, altrimenti si va ad un arroccamento che precluderebbe ogni
capacità di azione e di presenza politica»; il che, in parole povere, voleva
significare che, agguantato il potere, si deve stare anche con i ladri e i
furfanti, perché «con la morale» non si reggono i Comuni, tantomeno gli Stati.
Se lo ricorda, onorevole Segretario, quel dibattito presieduto da Enrico
Berlinguer? È importante che se lo rilegga tutto. Perché la crisi di identità
del PCI comincia proprio da quei giorni quando gli Italiani appresero che anche
il PCI aveva le mani non pulite, cioè «era un partito eguale agli altri».
* * *
«Non basta punire i colpevoli, occorre rifondare tutto se si vuole uscire dalla
corruzione alleata della politica».
Queste parole sono risuonate, vivo Berlinguer, sei anni fa nella massima assise
del PCI, al suo più vivo fulgore elettorale.
Rifondare tutto, caro Occhetto, non c'è altro da fare. Ha ragione Diego Novelli.
Noi lo diciamo da tempo. Le denunce sul tipo «quelli sono voti malavitosi» non
servono, se poi si è i più tenaci difensori di questa Costituzione i cui
perversi meccanismi ci regalano inefficienza, impotenza, corruzione e
criminalità.
* * *
E, per ultimo, caro Occhetto, si faccia consegnare la dichiarazione di voto con
la quale l'on. Alberto Malagugini, poi Giudice costituzionale, accompagnò la
relazione di minoranza del PCI contro la mafia, primo firmatario Pio La Torre,
il 15 gennaio 1976. La vogliamo leggere insieme nel suo interrogativo di fondo?
Eccola: «La Commissione antimafia doveva offrire una risposta alla seguente
domanda: come mai la riconquista della libertà e della democrazia nel nostro
Paese ha consentito, e secondo taluni giudizi agevolato, la rinascita
dell'attività palese della mafia? Come, perché, ad opera di quali forze
politiche e sociali è stato possibile un fatto di questo genere?».
* * *
Già, perché onorevole Occhetto?.
Sui muri un manifesto elettorale per le Elezioni europee. E firmato dal Comitato
delle Vittime della mafia. Dice:
Gennaio 1983 - Settembre 1988
3.534 morti di mafia
La guerra italiana continua
24 giugno 1989
«Riabilitati 93.000 ungheresi arrestati negli
anni dello stalinismo»
"l’Unità", 7.6.1989
Loro, i vivi
Correva l'anno 1952, mese di novembre. "l'Unità" invia a Praga, per assistere al
processo contro Rudolf Slansky, segretario generale del partito comunista, e i
suoi complici, tutti accusati di tradimento (per cui saranno condannati alla
impiccagione), il senatore Ottavio Pastore, il quale inizia così la propria
corrispondenza:
«Quattordici imputati: dirigenti del Partito comunista e della Repubblica
cecoslovacca, uomini i cui nomi avevamo sentito risuonare nelle lotte politiche,
proletarie e nelle battaglie per la liberazione dei popoli dalla barbarie
hitleriana. Oggi udiamo testimoni che ne denunciano i delitti, sentiamo leggere
documenti di ogni genere che li annientano, udiamo loro stessi confessare
complotti, accordi con gli imperialisti anglo-americani, atti di spionaggio e di
sabotaggio contro il loro Paese, preparativi di assassinio. Ancora una volta si
pone la domanda angosciosa: come è stato possibile?».
* * *
L'inviato speciale de "l'Unità" non si ferma a queste considerazioni; va oltre.
Le sue corrispondenze trasudano sdegno. Come quella del 28 novembre 1952 quando,
condannati a morte Slansky e compagni, fra il plauso delle mogli e dei figli dei
condannati alla impiccagione, tratta da «gesuiti» coloro che, in Italia, davanti
a queste mostruosità, muovono obiezioni. «La madre che incita i figli ad odiare
il padre, hanno esclamato questi gesuiti», scrive il senatore (appoggiato, fra
l'altro, dall'altro inviato, il deputato Sergio Segre), «tragica situazione,
certo, quella di tante famiglie, il cui capo si rivela indegno anche di essere
padre, ma nobile condotta quella della compagna Josefa che dice l'angosciosa
verità ai suoi figli e, attraverso la forza del dolore, vuole farne uomini
onesti e combattenti per la grande causa tradita dal padre».
* * *
Siamo arrivati anche a questo: l'esaltazione, da parte de «l'Unità», per la
penna di un senatore (Ottavio Pastore) e di un deputato (Sergio Segre,
quest'ultimo ancora in servizio) del comportamento della consorte di Slansky (la
Iotti cecoslovacca) che, «eroina popolare», davanti al marito condannato
all'impiccagione, incita i figli a odiare il padre che sta per salire il
patibolo, e a ritenere giusta la condanna a morte del proprio genitore!!!
Lo stalinismo è arrivato a questo. Ed è arrivato, checché ne dica Achille
Occhetto, anche nel sangue del comunismo italiano!
* * *
Io non so se nel 1952 il senatore Pastore avesse dei figli, so però che
Togliatti, Paietta, Ingrao, che con tanta convinzione plaudivano allora
all'atteggiamento delle virago ceche e dei loro ragazzi, avevano figli. Ed
erano, allora, nelle medesime «posizioni» in cui si trovavano gli Slansky ed i
Clementis, mandati a morte.
La domanda è d'obbligo: che sarebbe accaduto se il regime che ... allietava ed
allieta la Cecoslovacchia e altri Paesi, fosse giunto anche in Italia? Che ne
sarebbe stato di tutti loro?
E non si dica che se a Togliatti e compagni ciò che capitò a Slansky non
accadde, lo si deve esclusivamente alla vittoria degli americani. Questi ultimi
alleati del comunismo fin dai tempi remoti, quando tifavano per la Spagna rossa,
il comunismo lo hanno portato fin nel cuore dell'Europa, e senza Stalin la 2ª
guerra mondiale non l'avrebbero certo vinta!
* * *
In sostanza, se nel 1922 non fosse salito al potere l'odiatissimo Mussolini, con
ogni probabilità, i bolscevichi nostrani, prima o poi, avrebbero sovvertito le
forze in campo e sarebbero arrivati alla conquista del potere. In questo campo
quanti Togliatti, Terracini, Secchia, Longo, Paietta, sarebbero sopravvissuti
alle purghe che eliminarono i Rajk, i Kostov, i Bela Kun e poi tutti gli altri
fino ad arrivare agli Slansky, ai Clementis, ai Nagy?
* * *
E se il comunismo nel 1922 avesse trionfato in Italia, quali sarebbero stati i
termini del dibattito? Chi avrebbe riabilitato la memoria di Togliatti? Forse
Terracini? O sarebbe accaduto l'inverso? A chi sarebbe spettata l'autocritica
post-mortem di Paietta e Amendola, riesumati come «degni» dopo essere stati
impiccati come spie, traditori, sabotatori, fascisti?
E pensare che sono stati davvero sull'orlo della conquista del potere, e se non
vi fosse stato l'Uomo della Provvidenza, vi sarebbero riusciti, ma quanti di
loro sarebbero sopravvissuti?
* * *
E loro, ingrati, se la prendono ancora con i «fascisti» che li hanno tutti
salvati! È vero: non è tanto l'offesa delle insolenze che ci buttano addosso che
addolora, quanto l'ingratitudine!
Occhetto ha ricordato alla TV che i primi comunisti che suo padre gli fece
conoscere «venivano dalle prigioni e dal confino fascista». Questi per me, ha
detto, sono i comunisti italiani!
Sì, è senz'altro così, è commovente; ma se quei comunisti, che si battevano
contro il fascismo, avessero vinto, e nel 1922, e nel 1946, e nel 1948, che ne
sarebbe oggi di Occhetto? Il nostro Alberto Giovannini era solito dire che, fra
le tante opere buone che abbiamo compiute nella nostra esistenza, quella
dell'anticomunismo è certamente la più lunga, se non la più difficile, ma è
quella che è stata coronata da maggior successo.
Fateci caso: ci hanno insolentito (e continuano) e ghettizzato per oltre 40
anni. Eppure Togliatti, Longo, Secchia, Terracini, Amendola sono morti,
tranquilli, nei loro letti. Non hanno avuto la sorte di avere come i Rajk, i
Kostov, i Bela Kun, i Nagy, i «conforti democratici» dopo morti (impiccati o
fucilati).
* * *
E quelli, ingrati, se la sono presa, e se la prendono ancora con noi «fascisti»
che li abbiamo preservati a miglior vita, consentendo loro di vivere agiatamente
e con la medaglietta parlamentare, salvandoli dagli Stalin e dai Deng!
* * *
La vita è davvero... complessa. Nessuno ha riflettuto che le pallottole che
assassinarono, sul Lago di Como, Mussolini, sono state fuse nel piombo dei
«princìpi» del comunismo, alleato delle liberal-democrazie d'Occidente. E che
quel medesimo piombo, dopo essere stato adoperato in abbondanza nel 1956 in
Ungheria, ha fatto la sua comparsa in questi giorni su una celebre Piazza,
quella della Pace Celeste. A Pechino.
1 luglio 1989
L'Europa degli affari loro
Alcune riflessioni sul voto europeo. Ascoltiamo che cosa pensano dell'Europa
alcuni uomini politici di vertice, già deputati europei, e alcuni che si
accingono ad esserlo di nuovo.
* * *
Giancarlo Paietta, già deputato europeo del PCI, per tutta la passata
legislatura durata cinque anni, è andato a Strasburgo solo due volte. Dichiara:
«Il Parlamento europeo non ha poteri, persino nell'eliminazione del piombo dalla
benzina si limita ad emettere raccomandazioni. Non conta nulla e noi come
deputati non contiamo nulla».
* * *
Alberto Michelini, già deputato europeo della DC, rieletto ora, dice: «È colpa
dei partiti se il Parlamento europeo si è trasformato in un cimitero degli
elefanti. Pur di prendere voti alle elezioni sono disposti a mandare chiunque,
usando specchietti per allodole come Moravia, Strehler, o anche come il
sottoscritto».
Ma allora se è così, perché ci torna? È uno specchietto per allodole?
* * *
Castellina Luciana, deputato europeo del PCI, rieletta ora, è lapidaria: «Questo
Parlamento europeo non serve a nulla». Ma, allora, perché anche lei ci ritorna?
* * *
Carlo Casini, deputato europeo per la DC, torna a Strasburgo. Cosa ne pensa?
Ecco: «Quello di Parlamento europeo è un nome usurpato, visto che a Strasburgo
non si fanno leggi, ma solo discussioni. Spesso si ha l'impressione che si
tratti più che altro di un prestigioso luogo espositivo: mostre, degustazioni di
vini e grappe, gruppi folcloristici, parlamentari che vengono solo per mettere
la firma al verbale e poi fanno del turismo politico».
Anche Casini, malgrado queste dichiarazioni, torna a Strasburgo. A cosa fare? A
mettere la firma e ad intascare più di venti milioni al mese? Mamma mia, che
fatica!
* * *
Di Bartolomei Mario, già deputato europeo per il PRI, ora trombato, afferma: «La
colpa è dei partiti che inseriscono in lista vecchi tromboni».
Ma lui come si considera? Un trombino?
* * *
«Un grande Circo Barnum», così l'onorevole Margherita Boniver del PSI.
* * *
«Il patto tacito che si stabilisce tra il Parlamento europeo e il singolo
parlamentare è il seguente: tu ti diverti, viaggi, giri il mondo, e in cambio
non conti nulla».
Così Giovanni Negri, eurodeputato del Partito radicale, ora risultato trombato
nelle liste del PSDI. Ahimè per lui, non torna a divertirsi!
* * *
Queste opinioni, gli interessati si sono ben guardati dal ribadirle durante la
campagna elettorale europea. Hanno parlato d'altro, e hanno chiesto voti per sé.
Come definirli? Pensateci voi, cari lettori. Quello che meraviglia è che, 88
italiani su 100, siano stati al gioco (al gioco loro) e per questi «sfaticati
signori della politica» abbiamo sacrificato una bella giornata al mare per
andare a votarli.
* * *
Si sono, fra l'altro, lamentati: «Poco o niente si è parlato di Europa. E una
vergogna», hanno sentenziato.
La vergogna vera era parlarne.
* * *
Innanzi tutto questa domanda: se gli onorevoli Goria e Formigoni hanno speso
cinque miliardi a testa per farsi eleggere, diconsi cinque miliardi ("il
Giornale", 18.VI), quale è il costo complessivo per eleggere a Strasburgo 81
deputati? E di dove viene questo fiume di denaro? Chi è che paga? Perché, se c'è
qualcuno che paga, quale è il corrispettivo che l'eletto deve dare? A chi sborsa
i quattrini? Se non è così, sono soldi che il deputato si leva dalla tasca sua?
Cioè vi sono personaggi che, tranquillamente, dal proprio patrimonio possono
distogliere cinque miliardi per andare a divertirsi a Strasburgo?
Indubbiamente tutto denaro pulito, non ci sono dubbi, ma non potrebbero questi
«fortunati miliardari» dirci come hanno fatto a fare tanti quattrini con la
politica? Perché non dare anche al povero elettore la ricetta per diventare
plurimiliardari?
* * *
«Ha fondi inesauribili, dicono in Piemonte. Ora Goria, che di elicotteri per
spostarsi ne ha addirittura due, per annullare il rischio di guasti, passa a
raccogliere i frutti del seminato, se fin dal gennaio 1988 ha battuto la
penisola presentando a tutte le categorie produttive un suo personalissimo
programma Europa '92 che assomiglia ad una Enciclopedia, tanto è onnicomprensivo
...». (Dal quotidiano "il Giornale" del 18-VI)
* * *
E Martinazzoli Mino, presidente del Gruppo parlamentare DC, non è da meno se, da
capolista nel Collegio Nord-Ovest, per coprire le spese ridotte all'osso
(materiale propagandistico, inserzioni pubblicitarie su cinque quotidiani e sui
pochi periodici a larga tiratura), come ci attesta "il Giornale", spende due
miliardi e mezzo, «come soglia minima», tende a specificare il quotidiano di
Montanelli.
* * *
Una valanga di quattrini per andare, dopo tutto, in un Parlamento dove i singoli
deputati, a detta loro, non contano nulla. Ma allora perché questo giro
vorticoso di miliardi? Per caso, fra i deputati europei che non contano nulla,
ve ne è qualcuno che conta di più al punto che per arrivare alla meta ci investe
cinque miliardi? A quale fine? Solo per divertirsi? O c'è uno scopo recondito e
che non viene raccontato?
* * *
Sono interrogativi pesanti, pesantissimi, e che pongono l'inquietante
riflessione: essere questa Europa niente altro che un'Europa degli Affari Loro,
visto che l'Europa della partecipazione popolare, della informazione,
dell'ecologia, della solidarietà, delle memorie storiche non esiste, non c'è, e
non ci sarà mai fino a quando a decidere dell'Europa sarà il Dio quattrino.
* * *
Io non ho nessuna remora a dichiarare che, viste le cose come sono, ho messo,
per quanto riguardava il cosiddetto Referendum propositivo per l'Europa, il
segno «no» sulla scheda. Vado a far parte di quei quattro milioni di italiani
che, contro 29 milioni di altrettanti italiani, hanno scritto no. E la domanda
sulla scheda, non ci sono dubbi, l'ho letta bene.
Questa Europa, perdonatemi, mi fa un tantino schifo.
È grassa, falsa, bolsa, bugiarda, ingiusta. Forte con i deboli, debole con i
forti. Non ha sangue nelle vene, ma soldi e trippa pronunciata. Si va in questa
Europa ad una condizione: che si facciano gli Affari Loro. Coloro che ci
arrivano senza il viatico degli Affari Loro, non contano nulla. Si divertono. A
nostre spese. Con venti e più milioni al mese.
* * *
Questa riflessione è di Giorgio Bocca ("l'Espresso", 15-1-89): «Come può un
politico, nato e cresciuto in una società mafiosa (e per questo Torino non è
meno palermitana di Palermo - N.d.R.), che si è fatto strada negoziando voti e i
finanziamenti con la dominante economia mafiosa, che si è imbevuto di cultura,
di metodi malavitosi, diventare Uomo di Governo, adatto all'Italia europea?».
Già, come può?
8 luglio 1989
Ricordando Fortebraccio
Il giornalista Mario Melloni, più noto con lo pseudonimo "Fortebraccio", con cui
ha firmato per anni i suoi corsivi su "l'Unità", è morto a Milano. Prima di
prendere la tessera del PCI, Melloni era stato direttore de "il Popolo" e
deputato democristiano.
Nel trafiletto rapido e tagliente, come ha scritto Montanelli, non ebbe uguali.
Spadolini, che fu il suo bersaglio fisso, delle sue stoccate porta ancora le
ferite.
* * *
Con "Fortebraccio" ho avuto, nel 1978, uno scambio di lettere che pubblico oggi,
alla sua dipartita.
L'iniziativa partì da me. In data 6 dicembre 1978, così scrivevo a Fortebraccio:
«Gentile Signore, ho davanti a me il suo libro "Partita aperta, corsivi 1978".
Possiedo tutta la collezione che, credo, dati dal 1973. Leggo, a pagina 82, il
corsivo su Indro Montanelli, apologeta di Mussolini. Davvero gustoso! Però, in
fatto di "adulatori" di Mussolini, non c'è solo il Direttore de "il Giornale".
Allego alla presente le ultime pagine (a Lei senz'altro sconosciute) del libro
"Bocche di Donne e di Fucili" di Davide Lajolo. Le sarei tanto grato se su
"l'Unità", cioè davanti alla platea dei proletari, stabilisse, in tema di
"buffoni retori di Mussolini", una classifica. A chi la palma? A Montanelli o a
Lajolo? Non si faccia serrare la gola, come scrive Lajolo, dalla commozione.
Scriva e dica la sua. Grazie e distinti saluti».
* * *
Montanelli, così si esprimeva su Mussolini: «Quando Mussolini ti guarda è
inutile tentare di recitare e di ricorrere alla suggestione di una messinscena
qualunque. Quando Mussolini ti guarda non puoi che essere nudo dinanzi a lui. Ma
anche lui sta, nudo, dinanzi a noi. Che importanza possono avere il fez di
caporale d'onore o la feluca di ministro? C'è chi per essere qualcuno ha bisogno
di ricorrere a una divisa o a un distintivo. Mussolini no. Il suo volto e il suo
torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti
noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile
essenzialità di questo Uomo che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. E
il resto non conta».
* * *
David Lajolo, detto "Ulisse", già direttore de "l'Unità", deputato del PCI,
letterato, Mussolini lo vedeva così: «Un attenti urlato nel silenzio di Palazzo
Venezia ci fa irrigidire. E nella sala. La sala è piena di lui. Non esistiamo
che in Lui, Legionari di Spagna. Passa davanti ad ognuno. Lentamente. Ma quei
suoi occhi paiono più grandi della sala stessa... Ecco il Duce è davanti a me.
Guarda me. Voglio urlare il suo nome, forte come una cannonata. Ma un'onda di
commozione mi assale, mi serra la gola. Duce! Duce! L'urlo tremendo scuote la
sala, ripete gli echi di tutto il Palazzo, su Roma. Duce! Duce! L'urlo fermava
il nemico, gridava la nostra intransigenza di fascisti. Ora lo urliamo a lui. È
ancora là, sotto la gran porta. E Cesare, davanti ai capi delle Legioni che ha
mandato per il mondo nel nome di Roma... Duce, un tuo cenno, e i Legionari di
Spagna balzeranno ancora coi garretti induriti da due anni di guerra. Essi
dormono con la testa sullo zaino per essere ancora i volontari mistici, i
guerrieri d'acciaio, i Legionari di Roma!».
* * *
Alla lettera su riportata, "Fortebraccio", con carta de "l'Unità", in data 12
dicembre 1978, così rispondeva: «Egregio signor Niccolai, alla Sua lettera del 6
dicembre desidero rispondere personalmente e Lei abbia la bontà di scusare la
mia pessima dattilografia. Le scrivo da Milano, dove sono venuto per qualche
giorno a passare le ferie. Ho l'impressione che Lei voglia mettermi in imbarazzo
(cortesemente si intende) ma spero di persuaderla che davanti ai due testi, cui
Lei mi richiama, non provo disagio alcuno ad esprimere un giudizio, anche se uno
è di un ostinato avversario, l'altro di un compagno. Qui non ho sott'occhio il
corsivo dedicato a Montanelli (non conservo i miei scritti, se Dio vuole), ma
ricordo che anche quella volta dissi che non amo rivangare i trascorsi fascisti
di nessuno. Il passato è passato (lo dico non avendo nulla, ma proprio nulla da
rimproverarmi al riguardo, neppure la tessera del Dopolavoro) e non ne parliamo
più. Feci eccezione per Montanelli in ragione della inaudita ridicolaggine della
sua adulazione, ma sia quella che questa di Lajolo sono parimenti vergognose e
soltanto due sfacciati di quella forza possono dimenticare di averle scritte.
Lei avrà capito che io non apprezzo Lajolo, a proposito del quale bisogna però
tener presente che in piena lotta per la Liberazione, passo dalla parte della
Resistenza e vi militò degnamente. Successivamente, non ha mai abbandonato la
causa democratica e tuttora milita nelle sue file con lealtà, anche se io
deploro certi suoi atteggiamenti, diciamo cosi liberali, certi suoi facili pappa
e ciccia che non mi garbano. Ma non ho nulla, politicamente, da rimproverargli,
mentre Montanelli è quell'avversario che Lei sa bene. Dovrei forse riservare ai
due lo stesso trattamento? Sarebbe giusto? Me lo dica Lei sul piano della pura
ragione. Ma poi io sono (e me ne vanto) uomo di parte. Ammettiamo per un momento
che i due, Montanelli e Lajolo, siano egualmente riprovevoli (ciò che non è).
Dovrei forse dare una mano ai nostri avversari, o non è piuttosto mio dovere (e
interesse) riservare ogni mia forza polemica, per modesta che sia, a combattere
coloro che ci combattono lasciando in pace i compagni anche quando, per caso,
non piacciano? Le pare che i comunisti non siano già abbastanza avversati per
potersi passare il lusso di azzuffarsi tra loro?
«Non so, egregio e caro Niccolai, se era sua intenzione, diciamo così, cogliermi
in fallo. Ne ho avuto l'impressione e non mi dolgo di averle aperto l'animo mio.
Voglia accogliere i miei migliori e più cordiali auguri di buone feste. Mario
Melloni ("Fortebraccio")».
* * *
A questa lettera, in data 3 gennaio 1979 (dieci anni fa!), rispondevo in questi
termini: «Egregio Fortebraccio, ricevo la Sua e la ringrazio. Non ho mai
dubitato di avere a che fare con un galantuomo. Comunque mi consenta di dire che
non mi convince la giustificazione per la quale David Lajolo, essendo passato
dalla parte della Resistenza "in piena lotta di liberazione", merita un
apprezzamento particolare. Le dispiace se le dico che resto del parere di chi
sostiene che le iscrizioni all'antifascismo erano già chiuse con il 1939?
Gentile signore: cosa sarebbe accaduto di tanti italiani che, grazie all'8
settembre, poterono rifarsi una verginità antifascista, se gli eserciti alleati,
anziché risalire faticosamente la penisola, fossero sbarcati a Genova e a
Trieste, conquistando rapidamente l'Italia? David Lajolo non avrebbe potuto
darci oggi lezioni di antifascismo. Nemmeno Badoglio. Nemmeno Gorresio. Nemmeno
il fu Pioverle. Nemmeno Eugenio Scalfari. Nemmeno Indro Montanelli. E fu per
loro che il Vero e autentico processo al fascismo non fu possibile, per cui ci
ritroviamo nelle presenti condizioni. Infatti il fascismo venne processato "per
aver fatto la guerra". Errore. Il Fascismo doveva essere messo sotto accusa per
come aveva condotto la guerra. In modo errato. Se così ci si fosse comportati i
"felloni" di sempre, e sotto tutte le bandiere, avrebbero pagato. Invece i
"felloni", dimostrando di avere fatto il doppio gioco, cooperando magari a far
affondare navi cariche di popolo ignaro, sono stati premiati, lasciati ai loro
posti di responsabilità, addirittura promossi ai vertici dello Stato
repubblicano, per essere passati "in piena lotta di liberazione" dalla parte
della Resistenza. Pessimi fascisti ieri, pessimi antifascisti oggi. Non fu
rivoluzione, fu autentica restaurazione. Sono anch'io uomo di parte! Eccome!
Però con questa differenza: che, pur non essendo comunista, mi levo il cappello
dinanzi alla grandezza storica di Giuseppe Stalin. Ed è logico che il mio
disprezzo sia totale nei riguardi di coloro che dovendo tutto a Stalin, lo
rinnegano in nome di quel trasformismo che, ieri, ci ha portati a massacrare
Pisacane ed oggi a scannarci fra noi in nome dei "padroni" che si sono diviso il
mondo. So che Lei, caro Fortebraccio, è di altra pasta. Mi voglia perdonare. Non
mi risponda.
* * *
Sempre su carta de "l'Unità", organo del PCI, Mario Melloni, alias
"Fortebraccio", in data 12 gennaio 1979, volle cosi rispondermi: «Egregio
Signore, no, no, troverò sempre il tempo di rispondere a lettere come le sue, e
voglio dirle subito che il suo riconoscimento, a me rivolto, mi lusinga molto,
sebbene non sappia chi Lei sia, né come esattamente La pensi. Il suo discorso
generale è ineccepibile. Ha ragione. Se il caso non avesse offerto a molti
odierni predicatori una ciambella di salvataggio e noi, dal canto nostro,
avessimo capito, con Brecht, che non si doveva essere buoni, molte cose tragiche
e nauseabonde oggi non accadrebbero. Ma ciò che è stato è stato, ed io ora
piuttosto che andare ad un passato ormai incancellabile, preferisco adoperarmi a
pretendere che fascisti non si sia più adesso; ed è anche per questo che rifiuto
e rifiuterò sempre di rifugiarmi nel privato, per usare una espressione che
attualmente, non a caso, ha fortuna. La saluto, e la ringrazio ancora,
soprattutto di essere un lettore di "Fortebraccio" e di stimarlo. Me ne sento
onorato. Mi creda suo. Mario Melloni ("Fortebraccio")».
* * *
La corrispondenza si chiudeva con parole di stima personale. Ma con altrettanta
affermazione che «ero stato fascista» e che, ahimè, «lo rimanevo». Per quello
che avevo visto, per quello che vedevo, per quello che avevo sofferto, per
quello che soffrivo. Nei riguardi del mio Paese.
15 luglio 1989
La DC, i servizi e la strategia della tensione
«Vent'anni di fascismo credo che non abbiano mai fatto le vittime di questi
ultimi anni. Cose orribili come le stragi di Milano, di Brescia, di Bologna, non
erano mai avvenute in venti anni. Prendiamo le piste nere. Io ho un'idea, magari
un po' romanzesca ma che credo giusta, della cosa. Il romanzo è questo. Gli
uomini del potere, e potrei fare addirittura dei nomi senza paura di sbagliarmi
tanto, hanno prima gestito la strategia della tensione a carattere
anticomunista, poi, passata la preoccupazione per l'eversione del '68 e del
pericolo comunista immediato, le stesse, identiche persone hanno gestito la
strategia della tensione antifascista. Le stragi quindi sono state compiute
sempre dalle stesse persone. Prima hanno fatto la strage di piazza Fontana
accusando estremisti di sinistra, poi hanno fatto le stragi di Brescia e di
Bologna accusando i fascisti ...».
(Pier Paolo Pasolini, "Scritti corsari", pagine 287-288).
* * *
La proposta di legge di indulto per i terroristi «rossi e neri» fa discutere.
Con toni indignati. Come si fa, argomenta Fausto Gianfranceschi su "il Tempo"
(4.7), a riconoscere in degli assassini dei «combattenti» dei «prigionieri
politici» è una mostruosità politica, etica, giuridica.
Non entro nel merito della proposta di legge; se essa sia barbarie o un ritorno
all'equità del sistema giuridico; non ne ho le forze, soprattutto le capacità;
voglio, e penso mi sia concesso, svolgere alcune considerazioni, a posteriori,
sul terrorismo. E faccio una prima riflessione, ponendo una domanda, legittima
credo, anche se molto fastidiosa.
La domanda è questa: se il PCI, anziché schierarsi con questo Stato
repubblicano; anziché mettere la propria disciplina al servizio di questo
sistema parlamentare «contro gli assassini del partito armato», avesse
dichiarato la sua adesione alla formula «né con lo Stato né con il partito
armato», il terrorismo sarebbe stato vinto?
Voglio dire, per essere ancora più preciso, se il centralismo democratico,
questa forza organizzativa e disciplinare del PCI non fosse stata impiegata,
nelle ore calde del dramma, per andare a parlare nelle fabbriche e in quei
quartieri dormitorio dove le altre forze democratiche non avevano certo facile
ascolto, che cosa sarebbe accaduto del sistema parlamentare dello Stato
repubblicano?
Si sono chieste «abiure» al PCI, in merito al suo centralismo democratico -che
uccide la sua dialettica interna-, ma se questa disciplina non ci fosse stata,
la sorte di questa democrazia che fine avrebbe fatto?
* * *
E che cosa, se non proprio gli anni del terrorismo, fanno fare al PCI la più
lunga marcia della sua storia nelle Istituzioni democratiche? La sua
«occidentalizzazione», la sua «socialdemocratizzazione», non hanno origine
proprio dagli anni di piombo quando, al loro culmine, il rapimento Moro venne
considerato dal PCI «il più grave colpo al cuore, dello Stato democratico»?
Sono gli anni del terrorismo che inseriscono definitivamente il PCI nel sistema
partitocratico. La provocazione armata accelera la sua marcia dentro le
Istituzioni; gli anni di piombo gettano tutte le condizioni per le quali il PCI
può oggi candidarsi come forza di governo.
In quegli anni il PCI si guarda bene dal denunciare, con forza, la
quarantennale, perversa commistione fra lo Stato e il partito DC; la sua
eternizzazione al potere per cui, qualsiasi infamia commetta, non ne paga mai le
conseguenze, anche quando, pur di conservare il suo sistema di potere interno e
internazionale, ricorre al delitto e alla strage. Il PCI, in quegli anni, scende
in piazza e le sue bandiere rosse si mescolano a quelle bianche della DC.
E non è proprio su questo terreno che il terrorismo nutre le sue follie? Cosa si
ha in Italia, con tutta la duttilità possibile, se non una situazione morbida di
stampo «sovietico», per cui da oltre quaranta anni governano gli stessi e con
tutti i mezzi, legali e no?
E che fa questo Stato, quando la rigidità e la perversione del sistema che lo
tiene in piedi si viene a trovare in difficoltà?
Ricorre alla violenza subdola, all'eversione, alla strage. Crea gli estremisti.
Mette su gli assassini. Per poter dire: «Sì, noi siamo ladri, peculatori,
truffatori, farabutti ma, Italiani fate attenzione, è meglio essere governati da
dei ladri che da degli assassini!». E gli «assassini», come demoni necessari,
sono evocati, provocati, costruiti.
E questo Stato partitocratico che apre il fuoco. E lo fa, barando al gioco, in
chiave eversiva. Non ho nessuna tema a scrivere che questo Stato «eversivo» è
Piazza Fontana; è quel Comitato di Affari che uccide la gente. Fin dalla prima
strage di Portella delle Ginestre del 1947, che è la strage che «fonda» questa
Repubblica, non a caso in Sicilia.
Non solo, ma tutta la costruita strategia della tensione; la tesi degli «opposti
estremismi», per cui fra rossi e neri deve scorrere sangue, è di natura
«occidentale». Sono i Servizi «occidentalizzati» che, non solo mettono le bombe
nelle banche e nelle piazze e sui treni, ma anche davanti alle Sedi del MSI-DN e
del PCI, perché lo scontro sia inevitabile, e la DC governi in eterno.
* * *
Scrivo cose paradossali, enormi, fuori del mondo? Mi limito a riportare due
fatti recenti, sotto il naso di tutti: Ustica e Giulio Andreotti.
Il massacro di Ustica. Scrive il "Corriere" (17.7), fate attenzione: il
"Corriere della Sera", non il "Secolo": «Un'altra piaga oscura nella quale la
Commissione parlamentare sulle stragi intende andare a fondo e con severità,
ascoltando cosa hanno da dire i tre Capi dei SIOS di Aeronautica, Marina,
Esercito... Per sottolineare quanto sia stata singolare la coincidenza tra la
firma del trattato Italia-Malta di neutralità e garanzia militare, osteggiato
dai libici, e la strage alla stazione di Bologna con l'insieme degli avvenimenti
di quelle settimane: dalla strage di Ustica, al Mig 23 sulla Sila».
Si è messa la bomba alla stazione di Bologna per stornare l'attenzione dalla
strage di Ustica?
E se le cose stanno cosi, questo Stato non ha una violenza superiore a quella di
14 mafie messe insieme?
Giulio Andreotti. Il Presidente della Repubblica lo ha incaricato di formare il
nuovo Governo. Se ce la farà sarà il sesto. Un episodio: settembre 1977. Siamo
davanti alla Corte di Assise di Catanzaro. Si cerca la verità sulla strage di
Piazza Fontana. Giulio Andreotti, in veste di Presidente del Consiglio, è
chiamato a testimoniare. È testimone e imputato al tempo stesso. E interrogato
per oltre diciotto ore. Per tre giorni. La corte non gli crede, tanto che lo
sottopone, per cinque ore, ad un confronto con il giornalista Caprara.
Quando torna a Roma non si dimette. Rimane. Anche il PCI (sono i giorni del
Governo di unità nazionale) tace. E la sua carriera, inossidabile, continua.
Imperterrita. Anche alle soglie del 2000.
* * *
Sì, quell'indulto proposto per i «terroristi» può apparire una mostruosità. Ma
che dire del resto?
Nella Grecia «mediterranea e facilona» si è avuta la forza e la volontà di
mettere su un governo, al solo scopo di ripulire dalla sporcizia la Nazione e di
mandare in galera Presidenti del Consiglio e Ministri, ladri e corrotti.
L'Italia quanto dovrà aspettare?
22 luglio 1989
Da che parte i barbari?
Hitler, Stalin, Khomeini: tre nomi bollati come satanici in Occidente, ma non
privi, tutti e tre, di convinzioni profonde. Del primo trovo questo profilo: «La
sua impresa si è conclusa con il suicidio, non con il tradimento. La Germania
sedotta nel più profondo dell'animo, ha seguito il suo Fuhrer con slancio. Fino
alla fine gli è stata fedele e docile, servendolo con i propri sforzi più di
quanto avesse mai fatto un altro popolo con qualsiasi Capo. L'impresa di Hitler
è stata sovrumana e disumana. Egli la sostenne senza tregua. Sino alle ultime
ore di agonia in fondo al bunker berlinese rimase indiscusso, inflessibile,
impietoso, come lo era stato nei giorni del massimo fulgore. Per l'oscura
grandezza della sua lotta e della sua memoria, aveva scelto di non esitare,
transigere o indietreggiare mai. Il Titano che si sforza di sollevare il mondo
non può infiacchirsi, né addolcirsi. Ma, vinto e schiacciato, forse torna un
uomo, giusto per il tempo di una lacrima furtiva, nel momento in cui tutto
finisce» (Charles De Gaulle, "Memohes de guerre", volume III, "Le salut,
1944-1946", Plon, 1959).
* * *
«1944: Stalin ci venne incontro fino a metà della stanza. Fui il primo ad
accostarmi a lui e a dirgli il mio nome. Poi fu la volta di Terzic, che "recitò"
tutti i suoi titoli in tono militaresco, alla fine battendo i tacchi; al che il
nostro ospite, presentando se stesso: "Stalin"... La stanza di Stalin, non molto
larga, era piuttosto lunga, arredata senza nessuna opulenza; sopra la scrivania
modesta, sistemata in un angolo, era appesa una fotografia di Lenin, e sulla
parete al di sopra della tavola intorno a cui sedevamo c'erano, in identiche
cornici di legno intagliato, i ritratti di Suvorov e Kutuzov (entrambi generali
czaristi, il primo vincitore dei turchi, il secondo di Napoleone alla Beresina -
N.d.R.)... Stalin avviò la conversazione chiedendoci le nostre impressioni
sull'Unione Sovietica. "Ne siamo entusiasti", risposi, al che egli rimbeccò:
"Noi no, benché stiamo facendo del nostro meglio per migliorare la situazione in
Russia". Mi è rimasto impresso come egli usasse il termine Russia e non Unione
Sovietica; questo significava che non cercava solo di ravvivare nel suo popolo
il senso del nazionalismo russo ma ci credeva lui stesso profondamente, ne era
ispirato nelle sue azioni e si identificava in esso ...» (Milovan Gilas,
"Conversazioni con Stalin", Feltrinelli editore).
* * *
Già, si tratta di lui, di Beppino Stalin, l'autentico fondatore della potenza
russa nel mondo. Senza di lui gli anglo-americani non avrebbero vinto la 2ª
guerra mondiale e né i Togliatti, ieri, né gli Occhetto, oggi, avrebbero mai
potuto, il primo incensarlo come un dio, il secondo vilipenderlo come un
assassino. Senza Stalin sarebbero stati nulla, pulviscolo. La riflessione va
portata sul nazionalismo di Stalin che, nel 1944, non si peritava ad esaltare,
in nome della grande Russia, quello che i generali czaristi avevano fatto per la
Patria. Già, la Patria. Pare esistere anche là, in Russia. Forse è l'unica cosa
che resta in piedi dopo il tramonto dell'ideologia del comunismo. Ed è con
quella Patria che dovremo fare i conti.
* * *
E veniamo al terzo: Khomeini. Il suo testamento. Queste parole: «Ricordate che
un uomo fornito della Fede, anche se non ha armi potenti, può sbaragliare molti
avversari armati fino ai denti ma privi di Fede. Se un crociato uccide va in
paradiso, se resta ucciso va in paradiso, il martirio è un dono di Dio. I nemici
che vi stanno di fronte invece non credono allo spirito né al paradiso,
combattono solo per vivere su questa terra. Dio è dalla nostra parte. Le potenze
sataniche dell'imperialismo non possono nulla contro dì noi: quando anche ci
uccidessero tutti, fino all'ultimo musulmano, ci avrebbero soltanto spalancato
le porte dell'Eterna delizia». Firmato: Ayatollah Ruhollah Mussavi Khomeini.
* * *
I funerali dell'Ayatollah Khomeini sono stati definiti in Occidente una
manifestazione di fanatismo folle, selvaggio, barbaro. E evidente: le categorie
mentali, con le quali italiani ed europei giudicano quei fatti, si ispirano, più
che all'anima, alla trippa, alla vilissima trippa. Urbano II, il Pontefice della
seconda Crociata, ragionava presso a poco come Khomeini. Infatti ai Crociati
diceva: morire in battaglia è avvicinarsi a Dio. La morte in combattimento
risparmia al soldato la punizione della tomba. Morire in battaglia è trascendere
il proprio destino». Il martirio, insomma, come resurrezione. E, in nome di Dio,
si compivano i massacri di Gerusalemme (1099) e di Costantinopoli (1204). Anche
l'ideologia dell'amore verso il prossimo ha, nel suo albero genealogico, i suoi
massacri. Nessuno si salva.
Altri tempi, direte, oggi si muore di overdose, di mafia, di Aids e negli stadi.
* * *
Ci avete fatto caso? A Khomeini, pur avendo condotto disastrosamente una guerra
che è costata milioni di morti, non hanno, alla fine, riservato, per impiccarlo,
un distributore di benzina. Hanno pianto per lui. Lo hanno onorato, nella morte,
così come in vita. Fanaticamente. 1945: Piazzale Loreto. 1989: Teheran, le
esequie di Khomeini. Da che parte i barbari?
29 luglio 1989
I «frati ricchi» della politica
Riflessioni estive. Un dato costante che si vede chiaramente, che si tocca con
mano: lo stato di cassa dei partiti (che pur vengono accusati di totalitarismo
oppressivo, in tutti i rami della vita) diventa sempre più magro, ma crescono
enormemente le ricchezze personali dei singoli uomini politici. Come dire: il
convento è povero, ma i frati sono ricchi.
Un secondo dato è quello che i «frati ricchi» della politica, quando vanno a
denunciare allo Stato le proprie ricchezze, tornano ad essere magri, anzi
magrissimi. Quasi nullatenenti.
Direte: ma i politici non sono, in fondo, eguali agli altri milioni di
cittadini?
No. I politici hanno obblighi particolari: dettano le regole del gioco, sulla
pelle di tutti. Debbono essere onesti. Nell'interesse soprattutto di se stessi.
Nessun ceto politico, alla fine, si salva se finisce nella fogna.
E una battaglia da combattere. All'interno delle rispettive Comunità politiche.
Dovunque. E fino in fondo. Con determinatezza.
* * *
Venezia, il concerto dei Pink Floyd. La Città irripetibile della Serenissima è
stata sottoposta allo scempio. Invasa da masse sterminate, dove nulla era stato
predisposto per accoglierle, è stata ridotta ad un porcile. Poi le vibrazioni
degli amplificatori del concerto hanno danneggiato il gruppo marmoreo del
Palazzo Ducale.
Quando un pezzo di Venezia scompare non ci sono possibilità di riprodurlo.
Scompare, per sempre. Sepolto, definitivamente. Così scompaiono le Memorie.
E su questo terreno che il nuovo «patriottismo» dovrebbe essere ricostruito e
difeso. Il «patriottismo» delle Memorie, dei Castelli, delle Cattedrali
rinascimentali, dei Fiumi, del Mare, delle Città irripetibili.
Ma chi pon mano ad esso? Barbari? Ma i Barbari rimanevano almeno stupefatti
dinanzi alle grandi Opere dell'uomo e della civiltà. Oggi, in democrazia e per
la democrazia, Venezia può diventare tutto: anche un grande, immenso defecatoio.
* * *
Tutti hanno gli occhi puntati su Gorbaciov, come colui che ha messo in moto gli
arrugginiti meccanismi della Storia atti a mutare il volto dell'Impero
sovietico.
A mio modesto parere Chi ha fatto da acceleratore storico al processo che stiamo
vivendo è il Papa polacco. Carlo Wojtyla, non a caso salito sul Pontificato di
Pietro nell'ottobre 1978, subito dopo la scomparsa del «Papa del dubbio» Montini
e di Aldo Moro, il politico amministratore di una Italia senza storia e senza
Stato, Io spegnimoccoli di tutte le passioni, in primis quella nazionale. Papa
Wojtyla, prima di essere Papa, è un patriota. E, dalla cattedrale di Pietro, ha
difeso, andando per il mondo, la propria Terra. Espresso dal mondo slavo e dal
di dentro del comunismo, è Lui che, in nome della Patria, ha scosso l'Impero
sovietico, le 15 Repubbliche federative, le 28 Repubbliche autonome, i cento
gruppi etnici e i 70 gruppi linguistici dell'URSS. I quali, tutti, ora in nome
della Patria, chiedono libertà e giustizia.
* * *
L'Adriatico: una fogna.
Sarebbe interessante andare a vedere come si è comportato il potere politico, in
Parlamento e negli Enti locali, quando l'Adriatico, negli anni passati e
recenti, doveva essere difeso contro l'incontrollata «chimica», di Stato e no;
intendo dire dai detersivi, dai pesticidi, dal fosforo e da altri veleni. Che
cosa ha fatto il Parlamento contro gli interessi forti della Montedison, di Raul
Gardini?
Ricordate la vicenda del metanolo? In Parlamento il 19 luglio 1984, un
emendamento riguardante il metanolo ebbe come relatore il deputato Francesco
Piro. Che disse? Ecco, testualmente: «Il relatore ha dovuto in breve tempo
acquisire nozioni sulla cui validità non ritiene certo di poter impegnare il
proprio fondato convincimento, né esortare i colleghi ad accettare per oro
colato tutto ciò che è stato esposto. Il dubbio qui non ha ragioni, né amletiche
né filosofiche. Le convinzioni sulle quali lavora un parlamentare non consentono
certo quelle che gli storici chiamano critica delle fonti».
* * *
Come dire: «Non ne so nulla, vengo qui a ripetere cose che mi hanno riferito e
sulle quali non posso giurarci. Fate voi. Voi sapete come si lavora in
Parlamento. Al disotto dell'approssimazione ...».
Quell'emendamento venne approvato. All'unanimità. In nome della Chimica. E sono
venuti i morti. E il discredito del nostro vino. In Italia e fuori. Credete che
per l'Adriatico sia stato diverso?
* * *
Gli ascoltatori alle conferenze stampa dei Segretari di partito in TV: 1974, 17
milioni di ascoltatori; 1989, un milione e mezzo di ascoltatori.
* * *
I misteri di Palermo. Ruotano nel sangue. Fin da Por-tella delle Ginestre, la
prima strage (1.V.47) rimasta impunita, che vide lo Stato italiano chiedere
l'aiuto della Mafia per eliminare il bandito Giuliano.
Il prestigio indiscusso della Mafia data da allora. Assume forza costituente
questa Repubblica. Tutti i misteri venuti dopo, e che ruotano nel sangue,
portano le identiche caratteristiche di quelli siciliani di 43-44 anni fa.
Milano non è meno palermitana di Palermo. Non è la Resistenza a fondare questa
Repubblica, è la Mafia.
Se ne vuole prendere atto?
* * *
II giudice Giovanni Falcone afferma: «Sto assistendo nei miei riguardi
all'identico meccanismo che portò alla eliminazione del generale Dalla Chiesa».
Il che significa che, in Italia, gli assassinii dei personaggi eccellenti
vengono programmati. In pubblico.
Ma possono esserci cadaveri eccellenti senza assassini altrettanto eccellenti?
5 agosto 1989
I veleni di 40 anni fa
I veleni di Palermo (e di Roma). I mezzi di informazione
descrivono un Paese attonito, sbalordito, shoccato, in ordine alle notizie sui
Corvi, sulle Talpe e sulle Serpi alberganti nel Palazzo di Giustizia di Palermo.
Eppure è tutta storia vecchia, vecchissima. Di oltre 40 anni fa.
Basta prendere fra le mani il volume di 777 pagine, licenziato dalla Commissione
parlamentare di inchiesta sulla mafia in Sicilia il 10-2-1972, e dal titolo:
«Relazione sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia», relazione approvata
alla unanimità.
La titolazione è incompleta. Il titolo giusto dovrebbe essere: «Relazione sui
rapporti fra lo Stato, la mafia e il banditismo in Sicilia».
* * *
Fatti di 46 anni fa. Che c'è dentro? Di tutto. Lotta feroce fra Carabinieri e
Polizia. Pluriomicidi che girano per la Sicilia indisturbati con in tasca
lasciapassare rilasciati dal ministero degli Interni. Ispettori-capo di Polizia
(Messana Ettore e Ciro Verdiani) che si incontrano con il bandito Giuliano e
trattano con costui (430 vittime nella sua carriera) comuni piani di azione;
carabinieri che fanno fuori confidenti della polizia e viceversa; generali dei
Carabinieri (Luca Ugo e Pierantoni Giacinto) che per il bandito Pisciotta
costruiscono stati di benemerenza a firma del ministro Mario Scelba; stragi
(Portella delle Ginestre), intorno alle quali ruotano i nomi dei deputati
monarchici Alliata, Leone Marchesano, Cusumano Geloso, dei democristiani
Mattarella e Scelba; di americani come l'ufficiale Michele Stern; di ergastolani
mafiosi come Lucky Luciano, poi paracadutato in Sicilia nel feudo di Don
Calogero Vizzini, il capo della mafia, per aiutare lo sbarco anglo-americano.
C'è di tutto.
* * *
Una cosa certa, certissima. E cioè che lo Stato, la Repubblica italiana, per
avere la meglio sul bandito Giuliano, ricorre all'aiuto della mafia, da qui il
suo enorme prestigio, da qui la sua istituzionalizzazione come elemento portante
dello Stato democratico che si andava costituendo.
La prova? Lo Statuto siciliano del 15 maggio 1946, n. 455, di cui non si sono
mai trovati i precedenti: da chi sia stato redatto, come sia stato approvato.
Quello Statuto è il capolavoro dell'azione mafiosa in Sicilia. Il sistema
mafioso ha avuto come supporto fondamentale quello Statuto, un'autonomia
esasperata intrisa di sangue, di lotte spietate, di stragi. Il bandito Giuliano
eliminato dall'alleanza tra lo Stato e le forze di questo sistema di mafia nato
nel 1943 con lo sbarco alleato. È qui che il Sindaco Orlando deve porre la sua
attenzione. I complotti di cui parla, e di cui non neghiamo l'esistenza, partono
tutti dalla fondazione «mafiosa» della Regione siciliana. Condurre un'inchiesta
alla sola Sicilia non ha senso. Occorre aprire un'inchiesta su come lo Stato
repubblicano, tutto quanto, ebbe i suoi natali nel 1943, sulle spiagge
siciliane.
* * *
Si argomenta che il mafioso Totuccio Contorno sarebbe stato fatto rientrare
dagli Stati Uniti perché organizzasse l'eliminazione fisica della bande mafiose
dei corleonesi. Di poi, portata a termine l'operazione, sarebbe stato fatto
fuori dallo «Stato» repubblicano che a Contorno aveva chiesto aiuto. Quali
meraviglie? Cosa c'è di nuovo sotto il sole siciliano (e romano)?
Per far fuori Giuliano non si ricorse a Pisciotta e alla mafia? E, compiuta la
bisogna, Pisciotta non venne avvelenato in carcere dalla mafia, per conto dello
Stato che voleva cancellare tutte, le prove relative alla sua Connivenza con il
mondo della malavita?
E la tazzina di caffè che assassina Pisciotta non è la stessa che fa fuori
Sindona?
Aveva ben ragione a dire Pisciotta (aula del tribunale di Viterbo, 1950) che
«polizia, banditi e mafia erano una cosa sola. Come il padre, il figlio e lo
spirito santo».
Forse che il caso «Cirillo» mostra una diversa realtà? Forse che il caso «Calvi»
è diverso? Forse che le vicende delle stragi rimaste impunite danno una diversa
interpretazione? Forse che il caso Ustica non fa parte della stessa melma?
E come può uno Stato in queste condizioni amministrare la Giustizia?
12 agosto 1989
Le incaute battute di Peter Secchia
Stento a crederlo. Mi riferiscono che il "Time" di New York, in data 31 luglio
1989, pubblica una nota su Peter Secchia, il nuovo ambasciatore americano a
Roma, dove si riportano alcune dichiarazioni dello stesso di questo tenore, e
cioè che, venuto precedentemente alla sua nomina in Italia, aveva avuto modo di
constatare che le navi italiane, anziché avere la chiglia di acciaio, l'avevano
di vetro. E ciò opportunamente, precisa l'ambasciatore, «perché in tale modo si
permetteva alla nuova Marina italiana di vedere, attraverso il vetro, la vecchia
Marina Italiana adagiata sul fondo degli abissi marini».
* * *
Ripeto: spero che non sia vero, ma se lo fosse, voglio sperare che in Parlamento
ci sia una voce che faccia ringoiare all'incauto ambasciatore la bestemmia
pronunciata.
Non si tratta qui né di fascismo né di antifascismo, ma di dignità, sentimento
che è di tutto il popolo italiano che ha il sacrosanto diritto di non vedere
insultati, dopo tutto da un «ospite» straniero, i suoi Figli caduti in mare
fedeli al dovere al quale erano stati chiamati.
Risponderemo intanto all'Ambasciatore statunitense con queste belle parole di
Giovanni Spadolini, Presidente del Senato: «Bisogna affermare a voce alta che
tutti coloro che vogliono abdicare ai loro sogni, non s'accorgono che in fondo
un popolo non acquista, non acquisterà mai pace e rispetto e sicurezza, col
tagliarsi gli attributi della propria virilità nazionale. Che anzi la storia
d'Italia dimostra che più il Popolo italiano ha rinunziato ai propri diritti, e
più è stato fustigato, umiliato, deriso, spogliato ed offeso. Ciò che certamente
capiterà un'altra volta agli Italiani tutti, se essi non sapranno riguadagnare
la stima e la considerazione del mondo». ("Italia e Civiltà", anno 1, n. 14, 8
aprile 1944).
* * *
Rassicuriamo l'Ambasciatore che, malgrado tutto, il Popolo italiano gli
attributi non se li è tagliati del tutto.
E che certamente non è intenzionato a farsi insultare da chi conosce solo la
prepotenza dei propri miliardi accumulati e che ritiene che la Storia scritta
con il sangue possa essere cancellata dalle battute cafonesche per troppi whisky
bevuti.
* * *
Il dibattito sul «comunismo» in mezzo a noi. C'è chi lo ritiene ancora il nemico
principale, chi lo dà ormai per morto e sepolto. È il dibattito dottrinale,
quello detto dei massimi sistemi.
Veniamo ad alcuni dati reali. Dalle stelle sulla terra. A Milano, in questo
giugno 1989 (ultimo rilevamento), il PCI ha 53.700 iscritti. A Ferrara 35.600. A
Pisa 21.710. A Grosseto 14.207. A Termoli 1.800. A Bari 11.781.
Ho preso campioni di città grandi, medie, piccole. Del Nord, del Centro, del
Sud.
Riflessione: è un radicamento diffuso, che non si può affrontare con le tipiche
categorie dell'ordine, della pericolosità, addirittura della criminalità. Questo
radicamento è stato costruito in anni di lavoro e occorre farci i conti.
Politicamente. Non si può prescindere da quelle cifre, datate 1989. Cosa
esprimono quelle cifre? Desidererei tanto che mi si rispondesse. Non sul terreno
astratto della ideologia, ma su quello pragmatico, della politica che ognuno
costruisce. Giorno per giorno. Noi e loro. Quelle cifre, le nostre cifre.
Riflessione sul Mezzogiorno. La DC nel Sud tiene, anzi cresce. E la DC tiene in
Italia perché cresce nel Mezzogiorno.
La DC lucra nel Mezzogiorno quel «premio di maggioranza» che la fa essere
padrona della politica a Roma. Se non si tonifica la battaglia del Sud contro la
DC, il Mezzogiorno non ci darà altro che cocenti dolori.
Che utilità ha il dirsi destra o sinistra? La vera e autentica discriminazione è
questa: stare con la DC, oppure costruire una politica per mandarla
all'opposizione. O di qui o di là.
13 agosto 1989
La vogliamo mandare la DC all'opposizione?
Trovo difficile capire (la colpa è senz'altro tutta mia) perché il confronto
interno, sulle idee e sui propositi, si debba trasferire sulle colonne da "il
Tempo", anziché venire promosso, stimolato e accolto dal "Secolo". In questo non
ha torto Marzio Tremaglia a chiedere che, sul quotidiano del partito, si apra il
dibattito; che non venga alteralo, né soffocato. Anche se è giusto che il
Direttore, a sua volta, debba pretenderà che questo confronto, tra camerati, si
svolga con tutta la correttezza passibile.
Ecco perché io scrivo al "Secolo" e non a "il Tempo". E, con tutto il garbo
possibile, così come è richiesto, intendo rivolgermi al camerata senatore
Marchio, il quale nel finale del suo intervento ospitato da "il Tempo", scrive
che la strada della destra è quella già sperimentata nel '71 e nel '72, quella
che riuscì a sottrarre consensi al PCI, quella che ha portato Le Pen a quattro
milioni e mezzo di voti; la strada, insomma, «della destra nazionale, sociale,
controcorrente, lieta delle proprie radici, una destra ben riconoscibile e
individuabile da tutti. Non un ibrido. Non un oggetto misterioso. Non un parto
da laboratorio. Noi cosi -argomenta Michele- prenderemmo tre milioni di voti.
Perchè non dovrebbe riuscirci ancora?».
* * *
Faccio una doverosa premessa, di segno morale prima che politico, e cioè che le
cose che dirò, in cortese polemica con Marchio, me le carico tutte sulle mie
spalle perché di quella politica, che piace tanto a Marchio e non a chi scrive,
fummo allora tutti, dico tutti, responsabili in quanto la costruimmo insieme.
E allora veniamo al sodo. La domanda è questa: la strada degli anni '70, in
particolare quella che ci portò, come argomenta Marchio, al «successo» del '72,
da che cosa era caratterizzata?
Lo Statuto del partito verme rivoluzionato, tanto da fare cambiare volto al MSI.
L'articolo primo riebbe una elaborazione tutta occidentalistica, con dei
correttivi non di poco conto, come la cancellazione della norma riguardante la
forma dello Stato (depennata la pregiudiziale monarchia-repubblica), e quella
riguardante l'incompatibilità fra adesione al MSI e alla massoneria. Si poteva,
insomma, essere missini e massoni.
C'è di più. Quel «successo», intorno a quali «personaggi» venne scientemente
costruito? Le idee camminano con le scarpe degli uomini. E noi ci servimmo di
uomini che rispondevano al nome dell'Ammiraglio Birindelli, del barone
universitario Plebe, di ex-DC dai... caratteri di un Greggi, di un Giacchero, di
liberali ultra conservatori come Artieri. Non solo. Michele non può averlo
dimenticato perché, parlamentare come il sottoscritto, ricevette (anni '70) una
lettera nella quale, all'incontro in cui si dava vita alla Costituente di
destra, veniva cortesemente invitato a non partecipare perché la sua
caratterizzazione marcatamente missina avrebbe compromesso l'operazione.
Non solo. Ma in quella occasione ai vertici massimi del partito si mise nel
conto -prima che a ciò fossero chiamati i comunisti- l'opportunità di cambiare
nome al MSI. E si cominciò con il farlo, allungando la sigla in Destra
nazionale, Costituente di destra.
Michele queste cose le sa bene, come sa benissimo, per averlo sofferto sulla
propria carne, a che cosa portò quel «successo» del '71-'72.
Io non mi sono sentito tanto isolato dalla comunità nazionale quanto in quegli
anni in cui potevamo contare alle Camere più di 80 parlamentari.
* * *
Cosa resta di quel periodo, se non una lunga serie di sofferenze? Non ho nessuna
tema a scrivere che il MSI dei cinque deputati del 1948 «contava» e «pesava» di
più del MSI 1972, con i suoi 80 e più parlamentari. Soprattutto perché quel MSI
degli anni '50 era padrone nelle scuole e nelle Università (120.000 iscritti
nelle organizzazioni giovanili), mentre il MSI degli anni '70, per essersi
rifiutato di «capire» il '68, aveva perduto per strada quasi tutto il patrimonio
giovanile.
* * *
Domando a Michele: vogliamo sul serio, per far piacere ai vari Fisichella,
tornare a battere quella strada? A farci interpretare, culturalmente, da un
Plebe? A farci insegnare l'atlantismo esasperato da un Birindelli? A eleggere,
come nostro intermediario del cattolicesimo, un Greggi? A farci insegnare i
«valori» della resistenza da un Giacchero?
Ma se è così, la domanda può apparire bruciante, ma lo stesso Marchio, ne sono
certo, la giudicherà pertinente: perché si è dato torto a quelli di Democrazia
Nazionale? Non sognavano (e lo dico senza ironia) essi stessi quel MSI, a cui, a
tempo debito, si sarebbe dovuto cambiare nome?
* * *
Michele Marchio, sanguigno come è, temperamentale come è, (e la dimostrazione è
nella scelta che fece nel 1976, una scelta la sua del tutto sanguigna), non può
disconoscere che a salvare il MSI, in quegli anni turbolenti, fu l'estremismo.
Il sano, salutare, sanguigno, chirurgico estremismo. Che fu di tutti. Un
estremismo che buttava alle ortiche i «fronti articolati anticomunisti» che,
costringendoci a metterci al fianco dei corrotti ci toglievano la faccia, non ci
facevano essere noi, e di per sé, per la carica di conservatorismo e di
malaffare che si portavano dietro, alimentavano la forza del comunismo.
Caro Michele, le tue battaglie al Comune di Roma, a quanto so, si sono
qualificate da un (per me) sano estremismo che ti ha portato spesso a
solidarizzare con il PCI contro la DC.
Qui sta il punto. Il comunismo è quello che è, e tutto il male di cui è pervaso
è stato descritto sulle nostre pagine. Quello che ora preme e vale è rispondere
a questa domanda: lavoriamo perché la DC governi ancora per 40 anni o per
mandarla, una buona volta, alla opposizione?
Michele, che cosa ne pensi?
19 agosto 1989
Terza via e 'funghi' burocratici
L'Assemblea regionale siciliana, con sua legge, ha portato in Sicilia i
consiglieri provinciali da 288 a 450. Altri centri di potere, se non di
corruttela. Voglio sperare che i deputati del MSI abbiano votato contro.
Questo è il quadro generale: in Italia abbiamo 150.000 fra consiglieri comunali,
provinciali e regionali. Quattromila e più fra presidenti, vicepresidenti e
membri dei consigli di gestione delle USL. Altrettanti delle Aziende
municipalizzate. Quattromila membri delle Camere di commercio, Istituti di
credito locale e altri enti di sottogoverno. Insomma una fonte inesauribile di
clientele, frammentazione locale, sperpero di denaro pubblico, dalle quali
traggono vantaggio, in modo particolare la DC, il PCI, il PSI.
Il MSI non può appartenervi e non si deve limitare ad essere spettatore, sia
pure critico e rumoroso. Deve combattere questo perverso fenomeno di
moltiplicazione dei centri di potere. Fra l'altro fonte di mafia politica che è
l'anticamera di quella criminale.
* * *
Si argomenta: ora la cosa più importante, decisiva, su cui occorre puntare
tutto, sono le elezioni amministrative generali del 1990. È vero, ma in parte.
Ora le cose decisive di cui occorre subito occuparsi sono:
a) la moralizzazione della vita pubblica amministrativa a cominciare da Napoli,
ma per pretendere di pulire le abitazioni altrui, occorre avere pulitissima la
propria.
b) Fare di tutto, in modo collettivo, non lasciata all'iniziativa del singolo
che non lascia traccia, perché l'Adriatico non diventi del tutto una fogna.
Paragone da instaurare: Bologna, la città meglio amministrata d'Italia, si trova
al centro della Regione Emilia Romagna, amministrata dal PCI, responsabile,
insieme alla Padania, bianco-rossa, del degrado dell'Adriatico.
e) Salvaguardare dovunque, in nome del nuovo «patriottismo», le acque, l'aria,
il mare, il fiume, il lago, i centri storici.
d) Stare dalla parte di chi soffre, in tutti i sensi.
e) Far sì che gli ospedali portino salute e non siano ridotti (con topi e
scarafaggi) solo a procacciatori di voti.
E via di seguito. Ci sono appena otto mesi. Occorre impiegarli bene. Anzi
benissimo. Senza perdere tempo.
* * *
La Fiat, negli ultimi otto anni, ha realizzato 8.300 miliardi di utili, sui
quali ha pagato tasse pari al 1996, che è esattamente la quota Irpef dei suoi
operai. Parallelamente lo Stato ha dato alla Fiat 7.000 miliardi in oneri
sociali; in più dei 18.000 miliardi che lo stesso Stato ogni anno eroga a favore
di appena il 796 delle imprese (quelle medie e piccole sono escluse), la parte
del leone la fa la Fiat. Nessuno, Dio ce ne guardi e liberi, desidera che la
Fiat vada a fondo. Sarebbe da insensati. Ma non si venga a dire che è un'impresa
non assistita, che opera solo sul libero mercato! Questo no!
La Fiat, da sempre, è un'industria protetta. Non solo. È anche vecchia, tanto
che, per le innovazioni che ancora deve intraprendere, aspetta altri generosi
finanziamenti dallo Stato.
* * *
Domanda: c'è più sentimento «cristiano» (a livello popolare) negli smunti Paesi
comunisti o in quelli opulenti dell'Occidente democratico? Insomma, dal punto di
vista della «secolarizzazione», cioè dell'invadenza del materialismo, ve ne è
più a Est o a Ovest?
Io ricordo i cantieri di Danzica occupati dagli operai e la cerimonia della
comunione collettiva. C'è uno spettacolo simile in Occidente?
* * *
E quale «significanza» gli si può dare? La tragedia dell'Armenia sotto il
terremoto. È il primo popolo, sottolineo popolo, che si sia convertito al
Cristianesimo all'interno di una comunità islamica. Gli Armeni hanno subito, per
motivi di fede, massacri spaventosi da parte dei Turchi. E l'ateismo sovietico
nulla ha potuto contro quella fede. Nel sistema sovietico tutti i popoli
rimangono entità forti, tenuti insieme dagli istinti ancestrali della Patria e
della religione. Ciò può altrettanto dirsi delle minoranze etniche nel mondo
occidentale e nelle due Americhe?
* * *
Ricordate il celebre discorso di Alexander Solgenitsin, premio Nobel, esule
russo, ex ergastolano di Stalin, all'Università di Harvard negli Stati Uniti nel
giugno 1978? «Se mi si chiedesse se io voglio proporre al mio Paese, l'URSS, a
titolo di modello, l'Occidente cosi come è oggi, io dovrei rispondere con
franchezza: no, io non posso raccomandare la vostra società come ideale per la
trasformazione della nostra. Data la ricchezza di sviluppo spirituale acquisita
nel dolore dal nostro Paese in questo secolo, il sistema occidentale, nel suo
stato attuale di esaurimento spirituale, non presenta alcuna attrattiva. E un
fatto incontestabile: all'Ovest, indebolimento del carattere dell'uomo; all'Est
il suo rafforzamento. All'Est una vita opprimente vi ha forgiato, nel dolore,
dei caratteri più forti, più profondi di quanto abbia fatto la vita occidentale
con il benessere regolamentato. Una società non può vivere senza leggi, ma
sarebbe per essa una derisione rimanere alla superficie civilizzata di un
legalismo senz'anima come da voi. Un'anima umana accasciata sotto il peso di
parecchie decine di anni di violenza aspira a qualcosa di più elevato, di più
caldo, di più puro di quello che può oggi proporle l'esistenza di massa in
Occidente ...».
* * *
Per il grande esule russo la ricerca sfrenata della felicità, eredità
materialistica del Rinascimento e del secolo dei lumi ha distrutto i valori
spirituali, tanto da far dire a Martin Heiddeger, uno dei filosofi più grandi
dell'era moderna, che per salvarci ci vuole un altro Dio e un nuovo Vangelo.
Si condividano o no, le sue idee, Solgenitsin pone le basi di uno dei dibattiti
fondamentali del nostro tempo, quello della ricerca della terza via.
26 agosto 1989
Legge Merli? No, legge Cefìs...
La gente comune data, dal punto di vista legislativo, l'attenzione del
Parlamento repubblicano ai gravi problemi del dissesto ecologico alla
presentazione alla Camera dei Deputati della Legge detta "Merli", il 10 agosto
1974, n. 3193. Dunque, nell'agosto del 1974, il Parlamento, per la prima volta,
avrebbe preso coscienza che fiumi, coste, mare, aria, città erano divenuti, in
tanta parte, vere e proprie fogne.
* * *
È così? Non è così. A far prendere coscienza al Parlamento di ciò che stava
accadendo (e si era pur avuto il colera a Napoli nel 1973!) in campo ecologico
non era stato il fatto del degrado fisico e ambientale del Paese, ma una
condanna di un Boiardo di Stato, Eugenio Cefis che, in qualità di presidente
della Montedison, era stato condannato il 27 aprile 1974 dal pretore di Livorno
alla pena di mesi tre, giorni 20 di reclusione e al risarcimento dei danni alle
parti civili (fra queste l'Associazione dei pescatori della Corsica), in quanto
riconosciuto responsabile di scaricare nel mar Tirreno, fra la Corsica e l'isola
Gorgona, ben 3.000 tonnellate di biossido di titanio (fanghi rossi) di cui l'11%
di acido solforico, provenienti dagli scarichi dello Stabilimento Montedison di
Scarlino, in provincia di Grosseto.
* * *
L'allarme di cui si fa «interprete» il Parlamento non è il tentato massacro del
mar Tirreno, l'allarme è che si condanni Eugenio Cefis, che gli sia stato tolto
il passaporto (vedi analoga vicenda riguardante il banchiere Calvi). Questo il
Parlamento non lo può sopportare e dunque via all'...ecologia, onde salvare dal
carcere uno dei padroni dell'economia nazionale. Ed è così che il 10 agosto
1974, a un mese dalla condanna di primo grado di Cefis, viene presentato alla
Camera il disegno di legge n. 3193 che, dal nome del primo firmatario, l'on.
Gianfranco Merli, prenderà nel tempo il nome di "legge Merli".
Ufficialmente e formalmente, attraverso quel disegno di legge, il Parlamento
inizierà a discutere di scarichi, fognature, depuratori e altro; sostanzialmente
quel disegno di legge si farà forte di un solo obiettivo: quello di trovare una
norma che vanifichi, nelle more in cui si aspetterà di discutere l'appello di
Cefis davanti al Tribunale di Livorno, la condanna penale inflitta al presidente
della Montedison.
* * *
Direte: ma come è possibile? Sono fandonie, calunnie. Fate attenzione ai fatti
che riferirò. Non è la prima volta che denuncio pubblicamente la cosa. L'ho già
fatto, senza che abbia ricevuto, né come deputato della Repubblica italiana, né
come semplice cittadino dello Stato italiano, uno straccio di smentita.
Silenzio: su tutta la linea.
E veniamo ai fatti. Il Tribunale di Livorno fissa per il 14 gennaio 1976
l'udienza per la discussione, in secondo grado, della condanna di Cefis. Il
disegno di legge Merli, dall'agosto del 1974, è in discussione nella Commissione
Lavori pubblici della Camera dei deputati. Ci si accorge che, dati i ritmi di
lavoro della Camera, non ci si fa ad essere pronti con una legge che,
comportando anche l'esame da parte del Senato, deve essere varata prima del 14
gennaio del 1976, data in cui Cefis, per salvarsi dal carcere, dovrà far valere,
davanti al Tribunale di Livorno, una norma liberatoria dei suoi reati.
* * *
Che si fa allora? Siamo nei pasticci, ma il Parlamento, quando vuole, sa
trovare, e con celerità, i diversivi per salvare i suoi personaggi. E, per il
momento, si accantona il disegno di legge Merli, per puntare tutto su un disegno
di legge che, meno complesso di quello Merli e tutto incentrato nell'elaborare
la norma salvatrice di Cefis, è stato, nel frattempo, presentato e approvato dal
Senato, disegno di legge a firma Santalco, in data 20 novembre 1975.
E il disegno di legge Santalco approda alla Camera dove si ha «l'avvertenza» di
non farlo esaminare dalla Commissione Lavori pubblici (dove la legge Merli si è
arenata), ma dalla Commissione Trasporti, relatore il deputato Merli. Sembrano
procedure del tutto normali, sono invece episodi da Codice penale, se il Codice
penale avesse vigore all'interno del Parlamento repubblicano.
* * *
Intanto l'appello di Cefis viene rinviato dal Tribunale di Livorno ad aprile.
Cosi che, in data 2 aprile 1976, una lettera strettamente confidenziale della
Montedison arriva all'avvocato, oggi ministro della Giustizia, Giuliano
Vassalli, in qualità di primo responsabile del Collegio di difesa di Cefis. In
detta lettera è scritto: «È certo che il Senato della Repubblica in data 14
aprile 1976 approverà in via definitiva la legge Santalco, di cui si allega il
testo. Si prega quindi di intervenire presso il Tribunale di Livorno perché
l'udienza fissata per il 5 aprile (appello Cefis - N.d.R.) venga rinviata in
modo che il testo Santalco diventi legge».
E così accade. Il Tribunale di Livorno rinvia l'appello e, nel frattempo, il
disegno di legge Santalco diventa legge. La Montedison, nelle sue previsioni,
sbaglia di un solo giorno. Anziché il 14, il Senato approva il tutto il giorno
13.
* * *
Gioco fatto? Pare di sì, ma improvvisamente tutto si riapre. Infatti il
Tribunale di Livorno fa sapere, in via del tutto confidenziale, che la legge
Santalco non è sufficiente ad evitare a Cefis i rigori del carcere. La
situazione assume i caratteri dell'emergenza: l'appello è imminente e le Camere
stanno per essere sciolte. Che fare?
È il 14 aprile 1976. Si torna, precipitosamente, al disegno di legge Merli. In
un sol giorno la Commissione Lavori pubblici della Camera approva il testo (30
articoli!) in sede legislativa, presentato -si specifica nella relazione
illustrativa- da «tutte le forze dell'arco costituzionale». Nello stesso giorno
il disegno di legge, approvato dalla Camera, va al Senato e il 30 aprile è
legge. L'articolo 2 è salvo e, con esso, anche Cefis. Il Tribunale di Livorno
assolve.
Non è giusto che quella legge si chiami Merli. Dovrebbe chiamarsi Cefis.
* * *
Cefis ringrazia. Soprattutto i suoi avvocati, ai quali invia la seguente lettera
personale:
«Ho appreso con viva soddisfazione dall'avvocato Baldini la notizia della
favorevole sentenza di Scarlino e desidero esprimerle i più fervidi
ringraziamenti e rallegramenti per questo esito positivo. So con quanta volontà
e passione ha portato avanti il processo e quanto si sia impegnato al fine di
far sì che la sua conclusione fosse posticipata rispetto all'entrata in vigore
della nuova legge Merli che ha costituito il motivo della nostra assoluzione.
Nel rinnovarle tutta la mia gratitudine, desidero farle giungere i sentimenti
della più viva cordialità, suo Eugenio Cefis».
Non abbiamo riscontri per affermare che una lettera del tutto simile sia giunta
ai presidenti delle Camere, in particolare ai due segretari generali del tempo.
* * *
Due riflessioni prima di chiudere. Qualcuno si domanderà dove erano i comunisti
quando questa scandalosa «operazione Cefis» veniva portata avanti. Anche qui un
po' di attenzione alle date. E il 1976: il PCI si accinge a diventare forza di
governo. E tace (e acconsente). Sulle porcherie. Su quelle di Cefis. Su quelle,
a... latere, di Andreotti-Sindona.
Seconda riflessione. La Giustizia italiana. La domanda è d'obbligo: davanti ad
un cittadino qualsiasi la Giustizia sarebbe stata così corriva, così arrendevole
come lo è stata davanti al grande Boiardo di Stato Eugenio Cefis?
Parlamento-Giustizia. Lavorano alacremente, e di comune accordo, per salvare
Cefis dalla galera. Sono «casi», questi, davanti ai quali non mi sento affatto
«democratico».
31 agosto 1989
Riflessioni estive
Un dato costante che si vede chiaramente, che si tocca con mano: lo stato di
cassa dei partiti (che pur vengono accusati di totalitarismo oppressivo in tutti
i rami della vita) diventa sempre più magro, ma crescono enormemente le
ricchezze personali dei singoli uomini politici. Come dire: il convento è
povero, ma i frati sono ricchi.
Un secondo dato è quello che i «frati ricchi» della politica quando vanno a
denunciare allo Stato le proprie ricchezze, tornano ad essere magri, anzi
magrissimi. Quasi nullatenenti.
Direte: ma i politici non sono, in fondo, eguali agli altri milioni di
cittadini?
No. I politici hanno obblighi particolari: dettano le regole del gioco sulla
pelle di tutti. Debbono essere onesti. Nell'interesse soprattutto di sé stessi.
Nessun ceto politico, alla fine, si salva se finisce nella fogna.
È una battaglia da combattere. All'interno delle rispettive Comunità politiche.
Dovunque. E fino in fondo. Con determinatezza.
* * *
Venezia, il concerto dei "Pink Floyd". La Città irripetibile della Serenissima è
stata sottoposta allo scempio. Invasa da masse sterminate, dove nulla era stato
predisposto per accoglierle, è stata ridotta ad un porcile. Poi le vibrazioni
degli amplificatori del Concerto hanno danneggiato il gruppo marmoreo del
Palazzo Ducale.
Quando un pezzo di Venezia scompare non ci sono possibilità di riprodurlo.
Scompare, per sempre. Sepolto, definitivamente. Così scompaiono le Memorie.
È su questo terreno che il nuovo «patriottismo» dovrebbe essere ricostruito e
difeso. Il «patriottismo» delle Memorie, dei Castelli, delle Cattedrali
rinascimentali, dei Fiumi, del Mare, delle Città irripetibili.
Ma chi pon mano ad esso? Barbari? Ma i Barbari rimanevano almeno stupefatti
dinanzi alle grandi Opere dell'uomo e della civiltà. Oggi, in democrazia e per
la democrazia, Venezia può diventare tutto: anche un grande, immenso defecatoio.
* * *
Tutti hanno gli occhi puntati su Gorbaciov, come colui che ha messo in moto gli
arrugginiti meccanismi della Storia atti a mutare il volto dell'Impero
sovietico.
A mio modesto parere chi ha fatto da acceleratore storico al processo che stiamo
vivendo è il Papa polacco Carlo Wojtyla, non a caso salito sul Pontificato di
Pietro nell'ottobre 1978, subito dopo la scomparsa del Papa del dubbio Montini e
di Aldo Moro, il politico amministratore di una Italia senza storia e senza
Stato, lo spegnimoccoli di tutte le passioni, in primis quella nazionale.
Papa Wojtyla, prima di essere Papa, è un patriota. E, dalla cattedrale di
Pietro, ha difeso, andando per il mondo, la propria Terra. Espresso dal mondo
slavo e dal di dentro del comunismo, è Lui che, in nome della Patria, ha scosso
l'Impero sovietico, le 15 Repubbliche federative, le 28 Repubbliche autonome, i
cento gruppi etnici e i 70 gruppi linguistici dell'URSS. I quali, tutti, ora in
nome della Patria, chiedono libertà e giustizia.
* * *
L'Adriatico: una fogna. Sarebbe interessante andare a vedere come si è
comportato il potere politico, in Parlamento e negli Enti Locali, quando
l'Adriatico, negli anni passati e recenti, doveva essere difeso contro
l'incontrollata «chimica», di stato o no, intendo dire dai detersivi, dai
pesticidi, dal fosforo e da altri veleni. Che cosa ha fatto il Parlamento contro
gli interessi forti della Montedison, di Raul Gardini?
Ricordate la vicenda del metanolo? In Parlamento il 19 luglio 1984, un
emendamento riguardante il metanolo, ebbe come relatore il deputato Francesco
Piro. Che disse. Ecco testualmente: «Il relatore ha dovuto in breve tempo
acquisire nozioni sulla cui validità non ritiene certo di poter impegnare il
proprio fondato convincimento, né esortare i colleghi ad accettare per oro
colato tutto ciò che è stato esposto. Il dubbio qui non ha ragioni né amletiche
né filosofiche. Le convinzioni sulle quali lavora un parlamentare non consentono
certo quelle che gli storici chiamano critica delle fonti».
Come dire: non ne so nulla, vengo qui a ripetere cose che mi hanno riferito e
sulle quali non posso giurarci. Fate voi. Voi sapete come si lavora in
Parlamento. Al disotto dell'approssimazione
Quell'emendamento venne approvato. All'unanimità. In nome della Chimica. E sono
venuti i morti. E il discredito del nostro vino. In Italia e fuori. Credete che
per l'Adriatico sia stato diverso?
* * *
Gli ascoltatori alle Conferenze stampa dei Segretari di partito in TV.
1974: 17 milioni di ascoltatori.
1989: Un milione e mezzo di ascoltatori.
* * *
I misteri di Palermo. Ruotano nel sangue. Fin da Portella delle Ginestre, la
prima strage (1.5.1947) rimasta impunita che vide lo Stato italiano chiedere
l'aiuto della Mafia per eliminare il bandito Giuliano.
Il prestigio indiscusso della Mafia data da allora. Assume forza costituente
questa Repubblica. Tutti i misteri venuti dopo, e che ruotano nel sangue,
portano le identiche caratteristiche di quelli siciliani di 43-44 anni fa.
Milano non è meno palermitana di Palermo. Non è la Resistenza a fondare questa
Repubblica, è la Mafia.
Se ne vuole prendere atto?
* * *
Il giudice Giovanni Falcone afferma: «Sto assistendo nei miei riguardi
all'identico meccanismo che portò alla eliminazione del generale Dalla Chiesa».
Il che significa che, in Italia, gli assassinii dei personaggi eccellenti
vengono programmati. In pubblico.
Ma possono esserci assassinii eccellenti senza esecutori altrettanto eccellenti?
2 settembre 1989
Quella lettera di Mussolini
Mirko Tremaglia me lo consentirà se, in tutta pacatezza, rilevo come la
citazione mussoliniana da lui riportata ("Secolo", 21 agosto), sotto il titolo
«Quell'accordo (il patto russo-tedesco del '39 - N.d.R.) che indignò Mussolini»,
non chiarisce i fatti che in quel periodo si vivevano, e perché è una citazione
estrapolata da una lunga lettera a Hitler, e perché è purgata di riflessioni che
se pubblicate integralmente, non metterebbero in luce il miglior Mussolini, e
perché non è situata al punto giusto.
* * *
Comunque dobbiamo essere grati a Tremaglia che, nella sua veste di responsabile
della politica estera del partito, apre, finalmente, il discorso, fra noi, sul
periodo più tormentato del Fascismo: i rapporti italo-tedeschi, le
responsabilità della guerra, il ruolo di Ciano, il dramma che Mussolini sofferse
indicibilmente nel 1939 circa il contrasto fra l'esigenza della pace per
l'Italia, impreparata alla guerra, e l'urgenza di fissare, tra forze ostili, una
solida affermazione italiana nel mondo, ottenuta senza che l'Italia ricadesse
nel «vergognoso» sistema dei giri di valzer fra l'uno e l'altro gruppo di
potenze (cosi come suggeriva Galeazzo Ciano).
* * *
Discutere il proprio passato non deve farci paura. Per quaranta anni e oltre lo
hanno fatto gli altri (e male), perché non farlo noi? Se una tale esigenza, in
un mondo in trasformazione, oltre investire i comunisti, ha investito la stessa
Chiesa di Cristo, non vedo perché dovrebbe lasciare noi «fuori e indifferenti»
dall'affrontare l'esame di coscienza collettivo sul passato che ci ha formati.
L'unica cosa che occorre tenere presente, e noi ne abbiamo tutte le condizioni,
è che il proprio patrimonio di storia va ricordato, anche impietosamente, mai
svenduto, così come capita ad altri, spesso anche alla Chiesa.
* * *
Detto questo torniamo alla «citazione mussoliniana» ricordata da Tremaglia e
ricavata da una lettera scritta da Mussolini a Hitler il 5 gennaio 1940, durante
il periodo della non belligeranza.
Tale lettera si apre con una vigorosa difesa di Galeazzo Ciano che il 16
dicembre 1939, alle Camere, aveva pronunciato un discorso che, come ricorda lo
storico Tamaro, «era tutto pervaso di sottile veleno antitedesco e di richiami
anticomunisti».
* * *
Mussolini, nella lettera a Hitler, scrive che il discorso di Ciano («che tanta
diffidenza ha generato in Germania») rispecchia interamente il suo pensiero e,
difendendo il suo ministro degli Esteri, afferma «che Ciano è stato e rimane uno
dei più convinti assertori dell'amicizia italo-tedesca»; il che (ora ragioniamo
con il senno del poi) non era, perché se Ciano, nel suo doppio-gioco, era stato
il primo cooperatore alla creazione dell'Asse, non senza confessati impulsi ad
attaccare preventivamente gli occidentali, poi era divenuto, per circostanze che
non è qui il luogo di discutere, un antitedesco viscerale.
* * *
«Mussolini aveva un contegno sempre più incomprensibile verso Ciano. Aveva idee
contrarie alle sue, poiché non nascondeva il suo interventismo a favore della
Germania, viceversa favoriva il genero, quasi a far credere ai tedeschi di
essere d'accordo con lui» (Attilio Tamaro, "Vent'anni di Storia", pagina 392).
* * *
«L'antitesi era completa. Il 31 dicembre Ciano affermava che la guerra a fianco
della Germania sarebbe stata un crimine e una idiozia, e che non si sarebbe
fatta in nessun caso: se mai si sarebbe andati contro i tedeschi con le
democrazie. Pochi giorni dopo Mussolini dichiarava al generale Visconti Prasca:
«Noi non vogliamo essere gli eterni traditori. Anche se dovessimo rimanere a
mani vuote, gli Italiani devono provare, oggi, che sanno tenere le armi in mano,
che son capaci di combattere: devono chiudere, una buona volta per sempre,
questa ridicola polemica che si trascina da 70 anni, sul loro valore in
combattimento. Qualcuno dice che è il mio chiodo. Sarà il mio chiodo, ma una
volta tanto sarà necessario piantarlo solidamente: anche facendo presto, però,
avremo il tempo di chiudere la polemica, e questo, questo -e batté il pugno sul
tavolo- è più importante anche delle naturali aspirazioni, le quali, quando c'è
un esercito, vengono da sé, senza farsi pregare»
(Filippo Anfuso, "Roma, Berlino, Salò", pag. 154).
* * *
Quella lettera a Hitler, dunque, non nasce perché Mussolini era indignato che la
Germania e la Russia si spartissero di comune accordo Polonia e Paesi Baltici,
ma era il prodotto di altre preoccupazioni quali il dramma che lo stesso
Mussolini viveva dentro di sé: di sentirsi
estraniato, in quel momento in cui la guerra aveva inizio, dal grande gioco
politico, lui che ne era stato fino a poco tempo prima il protagonista, e perché
sapeva (e lo doveva giustificare) che l'Italia era impreparata a rispettare gli
impegni che l'alleanza con i Tedeschi imponevano, e soprattutto perché vedeva
dilagare nel mondo la fama di un Paese, il suo Paese, sempre pronto agli eterni
giri di valzer, a cambiare alleato, pronto a cedersi al miglior offerente.
Questo lo offendeva, nel profondo; questo era l'assillo che, nel gennaio 1940,
faceva soffrire Mussolini. Questo -se si riflette bene- fu il sentimento primo
che lo portò a dar vita alla RSI: l'Italia rispetta la parola data.
* * *
Commenta amaramente Attilio Tamaro ("Vent'anni di Storia", pag. 394): «la
lettera che, senza volerlo, pareva una offensiva di pace contro la Germania,
mostrava che Mussolini nelle sue riflessioni, se era ingannato dalle
informazioni fornitegli dallo Stato Maggiore sugli armamenti, lo era altrettanto
da quelle fornitegli dagli Esteri (leggi Ciano - N.d.R.) sulla situazione
internazionale».
Se quella lettera ha un significato «morale» resta un documento sul
«doppiogioco» di Galeazzo Ciano, e ritengo che su tale argomento anche Mirko
Tremaglia abbia le mie stesse convinzioni.
* * *
Un'ultima riflessione e questa è mia e me ne assumo tutte le responsabilità.
Quella lettera di Mussolini pare suggerire a Hitler quell'attacco alla Russia
che, per chi scrive, rimane l'errore capitale (tutto di Hitler) della guerra e
la causa della sconfitta.
E su questa affermazione, si può, penso, parlare fra noi. Pacatamente. Per
schiarirci le idee. Anche Tremaglia sarà d'accordo.
Giuseppe (Beppe) Niccolai |