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"L’Eco della Versilia", n° 4 Anno XVIII - 31 Maggio 1989
 

Esame di coscienza in pubblico
UN VOTO A FINI

Beppe Niccolai

 

Umberto Croppi, a cui sono legato da amicizia fraterna, subito dopo la riunione della Direzione nazionale del 3 maggio 1989, a caldo, come lui stesso afferma, mi ha inviato una lettera, altrettanto calda. Non di affetti, ma di rigorosi e spigolosi rilievi che fanno male, anzi malissimo. Gli ho chiesto di renderla pubblica ma Umberto, per ragioni che ho trovato giustificatissime, ha detto di no, ed io ho ubbidito.

Si tratta di questo: nel bel mezzo della riunione, quando si doveva decidere il varo definitivo delle liste europee, ai rilievi, pesantissimi, contro il Segretario nazionale da parte di membri di vertice del partito facenti parte della maggioranza, Fini ha posto la questione di fiducia. Io ho votato, in quella circostanza, e per quella specifica «vicenda», a favore. Umberto definisce il mio gesto «sconcertante». Sotto ogni punto di vista e apre, nei miei riguardi, un processo che più che politico, è morale. Ho detto a Croppi che della vicenda ne avrei parlato davanti a tutti. Ed ecco il mio esame di coscienza. In pubblico.

 

* * *

Caro Umberto,

ho pronunciato il mio voto, se ben ricordo, al termine di una discussione aspra che aveva visto due Vice segretari nazionali contrapporsi, in termini morali e politici, al Segretario, tanto da indurre Fini a porre, su ciò che stava accadendo, la questione di fiducia.

Mi contestate, diceva Fini, il mio diritto-dovere di decidere quando, scadendo il dibattito nell'assemblearismo più deteriore, il partito, preda delle fazioni, non è più capace di darsi un orientamento. E che di fazioni si trattasse lo diceva proprio il tema che era in discussione: la formazione definitiva delle liste dei candidati alle elezioni europee. Di poltrone si trattava.

Non so davvero immaginare un diverso contesto, da quello che si era determinato, capace di portare con sé conseguenze esiziali per la maggioranza che si mostrava, «corani populo», dilaniata al suo interno e su questioni per le quali, quando vengono sostenute, se si tiene alla propria «personalità» (in Sicilia direbbero alla propria faccia), e si è messi sotto, non c'è altro comportamento da seguire che quello di andarsene. Fini venne perentoriamente invitato a ritirare la questione di fiducia. Per senso di responsabilità verso il partito, dissero i suoi contraddittori, i suoi uomini di fiducia. Fini, reiteratamente, affermò che la questione di fiducia restava, per senso di responsabilità verso tutto il MSI. I richiami alla responsabilità erano due, e diversamente interpretati. Qualcuno doveva essere irresponsabile. Il Segretario o i due Vice segretari nazionali?

Io parlai per ultimo. E motivai così il mio voto: ricordando la prima riunione del Comitato centrale dopo Sorrento, nella quale, rivolto al Segretario, per la necessità che aveva, se voleva governare, di mettersi l'inferno in bocca, raccontai la fine di Pier Paolo Soderini, Gonfaloniere di Firenze che, secondo il Machiavelli, per troppo mediare e intrallazzare, quando morì e la sua anima si presentò alla bocca dell'Inferno, Pluto le gridò: «Anima sciocca, che Inferno? Va' nel Limbo dei bambini ...»

Ed io, in quel momento, davo quel voto perché, onde governare il partito, contro le fazioni e le sette, Fini era stato capace di mettersi -contro i massimi vertici della propria maggioranza che gli avevano sparato addosso- l'inferno in bocca.

Tutta una pantomina? Una sceneggiata? Se due fazioni precipitavano, una terza prevaleva?

Può essere, caro Umberto, e tu hai ragione a dire che, comunque siano andate le cose, anche coloro che in quel voto giocavano la propria faccia, poi si sono acconciati a rimettersi nei ranghi. È così. Ed è così che anche il sottoscritto si è trovato in quella compagnia.

È brutto giustificarsi e ne sento tutta la pesantezza, ma quando ci siamo, le cose vanno dette con tutta la sincerità possibile, così come tu sei solito fare. Non cerco attenuanti, né scanso responsabilità che sono tutte mie.

E allora ti dirò che la mia vicenda, che ci vede (chi l'avrebbe mai detto?) confrontarci sul terreno della moralità politica e che ci fa soffrire. Ed io in difficoltà. La mia vicenda, dicevo, diventa secondaria; comunque viene dopo l'altra vicenda -ben più significativa- che si è conclusa con l'assegnazione a Rauti del capolistato di Roma. Non si spiega la mia, se non si spiega la prima. E, nella prima, caro Umberto, piaccia o no, chi ci è uscito meglio è Fini, non Rauti. E nessuno di noi, a cominciare dal sottoscritto, si è alzato in Comitato centrale a stigmatizzare quella vicenda che, fra tentennamenti, rinvii, sdegni, rifiuti, accettazioni e, infine abbracci, si concludeva in quel modo, dopo che ciascuno di noi, da quell'incerto vagolare, ne aveva sopportato amarezze, delusioni, frustrazioni. Fino a ricompattare il tutto, intorno ad un indecisionismo che, da tempo, aveva già pensato tutto. Alle nostre spalle. Cosa dovevo fare quando per il determinismo che quella indicazione romana si portava dietro, per cui tutto il vertice della Segreteria politica andava in coma; quando tutti in Comitato centrale eravamo stati zitti, accettando la tesi che si «operava per l'unità»; cosa dovevo fare, se non riconoscere a Fini il diritto, nella confusione dei ruoli che si era creata per quell'indicazione elettorale, di venirne fuori con una «decisione» che non penalizzasse -se non presa- tutta la Comunità?

Troppo facile, in quel momento, lavarsene le mani con una astensione. Lo stare alla finestra, aspettando che gli avvenimenti maturino da sé per scendere poi in piazza a cose accadute, non è mai rientrato nella mia natura. O votare a favore, o votare contro. Tu hai votato contro, io a favore.

Vengono al pettine le considerazioni di ordine squisitamente personale e morale. Viene chiesta la mia cancellazione? Non ci sono problemi, di alcun genere. Se ho dei «doni» da restituire (così come scrissi per Giulio Conti), sono qui tutti; a disposizione di chi li vuole ritirare.

Le trasgressioni, di cui al nostro nascere ci facemmo portatori possono, in certi momenti, essere impopolari. Far male, insomma, ma a mio parere sono queste le trasgressioni che contano. Appunto perché fanno male, perché vanno verso l'impensato, l'imprevisto. Contro il consueto.

Il muoversi. Un'area movimentista, non bloccata da vecchi complessi, vecchi schematismi, vecchi e nuovi rancori.

Non è caso tuo, caro Umberto. Semmai i tuoi rilievi mi portano ad un'altra più dura e amara riflessione: se ho sbagliato -e posso aver sbagliato- può il tutto dipendere dal fatto che sto, con l'età, rincoglionendo?

Se è così, battimi sulla spalla, caro Umberto, e dimmi che è venuta per me l'ora del riposo. Definitivo. Di «coglioni», fra noi, ce ne sono fin troppi.

Cordialmente, tuo

Beppe Niccolai