da "Il
Libeccio"
Beppe Niccolai una coscienza italiana
Il
Libeccio
Giuseppe
“Beppe” Niccolai non è stato un accademico o un pensatore che ci ha lasciato una
brillante opera saggistica cui fare riferimento. Non è stato nemmeno uno
scrittore, ma “soltanto” un uomo politico di provincia che addirittura rimasto
quasi del tutto sconosciuto alla più vasta pubblica opinione. Ciò nonostante, il
suo ricordo è ancora vivo in molti e può tuttora essere considerato un punto di
riferimento all’interno della comunità politica della Destra Italiana.
Questo probabilmente perché Niccolai non fu solo un politico in senso stretto,
d’azione o di propaganda, ma un autentico intellettuale. Il suo continuo
interrogarsi nel ruolo del MSI per mutare delle condizioni storiche, il
sottoporre, senza sosta, la nostra coscienza comunitaria a dubbi e rovelli, lo
hanno reso un personaggio ricco di fascino e molto amato.
Spesso alcune delle sue osservazioni più pungenti e delle critiche più aspre
erano rivolte proprio a se stesso ed ai suoi amici più cari. Voleva, quasi
pretendeva, che la sua comunità umana fosse la migliore non solo enunciazioni
teoriche, ma, anche nella pratica quotidiana: «… la testimonianza vivente di un
pezzo di società cambiata. Essere esempi».
Per questa sua visione “alta” della lotta politica, per questo suo rigore morale
accompagnato, però, da una mentalità aperta e tollerante. Niccolai rientra senza
dubbio nell’album di famiglia della Destra Italiana di tutti i tempi.
La sua storia è simile a quella di molti altri della sua generazione: nati negli
anni ’20, cresciuti e formatesi nel regime fascista, si sono trovati a vivere in
prima persona gli eventi straordinari, drammatici e travolgenti, della storia
del nostro popolo in questo secolo. Partecipa al secondo conflitto mondiale nel
corso del quale è fatto prigioniero dagli americani e internato in un campo di
concentramento negli USA.
Dopo l’otto settembre e fra i “Non cooperatori”, cioè fra quei reclusi che
rifiutarono di schierarsi con Badoglio e di collaborare con gli alleati
scegliendo di restare fedeli a Mussolni anche nella cattiva sorte. Si trattava
di una minoranza intellettualizzata rispetto alla massa dei prigionieri che
invece scelsero la strada opposta, forse per la stanchezza della guerra e delle
sue privazioni, forse perché nel fascismo videro la causa di quel disastro
nazionale e forse anche perché la corporazione comportava il beneficio immediato
di un miglior trattamento nella detenzione. Dell’esperienza dei “Non resta” come
testimonianza complessiva il bel libro di Turmiati, “Prigionieri nel Texas”, che
documenta efficacemente, le idee, le sensazioni, le emozioni ed i sentimenti di
quel gruppo di prigionieri irriducibili. Niccolai in memoria di quelle giornate
si è sempre rifiutato di imparare l’inglese la lingua dei suoi carcerieri.
Dopo il rientro in Patria viene il momento di pensare al futuro. Fra i reduci
c’è chi decide di dedicarsi esclusivamente alla propria vita privata, cercando
di costruirsi un avvenire professionale, e c’è che invece decide di non
rinunciare all’impegno politico. Trascurando i molti opportunisti, secolare
piaga italiana, data la complessità dell’universo fascista, composto di molte
anime differenti fra loro e coagulate assieme dalla figura carismatica di
Mussolini, era forse prevedibile che le scelte di una mutata condizione politica
avrebbero potuto essere diverse.
Beppe Niccolai scelse il MSI, l’esperienza di continuità più logica e naturale
anche se non la più facile e comoda. Altri cercano altrove una risposta alla
loro passione civile. Romano Bilenchi, ad esempio, scrittore e giornalista,
amico e sodale di Berto Ricci (una delle figure più inquiete e affascinanti del
fascismo toscano di “sinistra” e sarà un punto di riferimento costante in tutta
l’attività di Niccolai), scelse il fronte delle sinistre. Convertitosi al
comunismo dirigeva nell’immediato dopoguerra un quotidiano locale su quelle
posizioni politiche. A testimonianza che la sua, a differenza d’altre, fu
un’adesione in buona fede, Bilenchi accettò sul suo giornale la provocazione del
giovane Niccolai che gli chiedeva ragione del suo voltafaccia: «Non sono io che
ho tradito il fascismo, ma il fascismo che ha tradito me» fu la sua risposta.
Del fascismo Beppe Niccolai amava soprattutto il rigore morale e il disinteresse
personale che animava la parte migliore della sua classe dirigente e nella sua
Pisa cominciò un’intensa battaglia moralizzatrice contro i nuovi potenti così
disinvolti nell’amministrazione del pubblico denaro. La sua battaglia si
concretizzava nel Consiglio comunale cittadino e attraverso “Il Machiavelli”,
un foglio locale che fungeva da cassa di risonanza alle sue lotte e iniziative
politiche.
La forte personalità e l’indiscutibile prestigio personale portano Niccolai al
Parlamento nazionale, nonostante operasse in una zona difficile ed assai avara
di consensi per la Destra. Anche in questa sede si distinse per l’impegno e la
tenace della sua azione: destinato a rappresentare il MSI nella Commissione
Parlamentare d’inchiesta sulle attività mafiose, vi si dedicò con autentica
passione civile e la sua relazione di minoranza è ancora oggi esemplare per la
profondità delle argomentazioni rigorosamente documentate e la lucidità delle
analisi espresse. Questo lavoro, in un periodo di totale discriminazione ed
emarginazione del MSI, gli valse il coraggioso encomio pubblico di Leonardo
Sciascia, celebre scrittore siciliano, notoriamente schierato su posizioni
politiche avverse.
Nel ’76 il MSI subì un forte calo di voti in ambito nazionale e Niccolai non fu
rieletto. Carlo Giannuzzi, alto funzionario parlamentare, gli scrisse una
lettera che è ulteriore conferma della stima che si era guadagnato: «… credo
di poter esprimere con sufficiente serenità il mio più profondo rammarico per
non aver potuto salutare il suo rientro fra i deputati della VIIª Legislatura.
Considero un grande onore l’aver potuto collaborare con Lei e l’essermi meritato
la Sua stima e la Sua amicizia, ch’è mia ambizione conservarla il più a lungo
possibile».
In realtà la mancata rielezione non fa che facilitare una decisione che da
tempo Beppe Niccolai covava: l’abbandono delle cariche pubbliche per,
sempre paradossale, dedicarsi più intensamente alla Politica. Il contatto con il
“palazzo” è stato mortificante, le istituzioni gli sono parse, in quegli anni,
come vestigia ormai vuotate d’ogni contenuto morale, dove gruppi e bande di
potere, con disprezzo e cinismo, conducono i loro affari personali alle spalle e
sulla testa del popolo italiano.
Un altro fatto grave aveva poi turbato la sua coscienza “sveglia”: l’uccisione
di un giovane estremista di sinistra, Segantini, in seguito a scontri con la
polizia dopo un duo contestato comizio a Pisa. Perché, si chiedeva Niccolai, i
giovani erano aizzati all’odio e mandati al macello? Da chi? Per proteggere
quali interessi? Interrogativi pesanti, che nemmeno oggi, a più di vent’anni di
distanza, hanno trovato una risposta compiuta. Emerse dunque in lui la necessità
di elaborare una fase politica nuova.
Intanto il suo impegno si esprime anche nella collaborazione con il quotidiano
del MSI, “Il Secolo d’Italia”, per il quale redice una memorabile rubrica “Rosso
e nero”. In questi pezzi troviamo tutto il “carattere di Niccolai: ora feroce,
ora ironico, ma sempre fermo, preciso, mai ipocrita e soprattutto mai
intellettualmente disonesto. Niccolai osserva la realtà, legge i giornali,
spulcia le dichiarazioni, viviseziona gli atti parlamentari e poi mette tutto
fra virgoletta e con brevi commenti fa emergere le contraddizioni, le viltà, le
funzioni, il malcostume dilagante di una classe partitocratrica che avvelena la
Nazione in complicità con i “poteri forti”.
Sono gli anni in cui proprio il partito comunista vuole presentarsi come
“diverso”, con le “mani pulite”, unica scelta per gli italiani onesti. Niccolai
lo attacca non solo sulle grandi questioni quali i miliardi ricevuti da Calvi o
le troppe complicità nelle aule parlamentari sugli scandali del dopo terremoto
in Irpinia e le imbarazzanti convivenze in certi episodi di mafia siciliana,
oppure ancora sugli affari sospetti del gigante corporativo pubblicamente vicino
a quel partito.
Gli piace particolarmente occuparsi delle piccole questioni personali, è dalle
piccole cose che si vede lo stile. Così il 30 gennaio 1982 scrive:
«Quarantanove giornalisti di "Paese Sera" hanno ricevuto la lettera di
licenziamento. Le proteste scarse e senza nerbo. E che il direttore del
quotidiano, il senatore comunista Giuseppe Fiori, prima di dimettersi
dall’incarico abbia assunto nell’organo redazionale di “Paese Sera” il proprio
futuro genero (Attilio Gatto) non desta né stupore né schifo. Tutto regolare. I
comunisti sono davvero diversi».
Il 27 febbraio dello stesso anno Niccolai torna all’attacco dello stesso
bersaglio questa volta con l’ironia: centoquaranta dipendenti della USL della
Regione Emilia Romagna hanno compiuto un viaggio in URSS per «una presa di
contatto con le autorità sanitarie di quel paese. Il viaggio è costato mezzo
miliardo di lire. Chi ha pagato? La Regione Emilia Romagna. Ora la stessa
regione organizza un altro viaggio, sempre per i dipendenti delle USL. Questa
volta va nelle Filippine. La salute degli emiliani è così assicurata».
In altra occasione trova l’occasione trova invece il modo di far dire le sue
verità attraverso le altrui labbra, con un uso intelligente di citazioni. Nel
contesto di un articolo sulla degenerazione partitocratrica inserisce virgolette
una dichiarazione di Siascia: 4Adesso che ho fatto questa esperienza a
Montecitorio, molti mi dicono: ti servirà per scrivere… Una sola volta mi sono
appuntata l’idea per un giallo. Era successo che in Commissione ad un
democristiano era sparito l’accendino d’oro …».
È un periodo, questo, che i politici sono potenti per davvero. Gestiscono,
si spartiscono e distribuiscono fiumi di denaro in un apparente disinteresse
generale alla televisione fanno discorsi rintontanti belle parole e poi si
comportano da satrapi. Niccolai non si lascia sfuggire l’occasione per una
dimostrazione plastica di questa banale verità. Prima riporta una serie di
retoriche e pompose dichiarazioni del presidente del Consiglio in carica,
Spadolini, poi riproduce una lettera ad un giornale nella quale una lettrice di
Roma descrive, in modo semplice ma molto efficace, la prepotenza e la protervia
della scorta dell’importante uomo politico che percorre sensi unici
all’incontrario, immobilizza il traffico, per portare l’illustre Presidente ad
una… prima teatrale.
Eppure le denunce e le esortazioni ad un civile ribellione paiono cadere nel
vuoto, il popolo italiano sembra vivere in una sorta anestesia morale e così
l’ennesimo episodio di delinquenza politica è commentato con amarezza: «Severino
Moschetti, 60 anni. Vice Presidente dell’azienda municipalizzata per la Nettezza
Urbana di Palmo. Segretario del PSDI. È stato arrestato. Dirigeva il traffico
della droga… Niente paura. Alle prossime elezioni il PSDI, a Palermo aumenterà i
voti».
Ma Beppe Niccolai che più si ricorda non è il parlamentare esemplare, il
corsivista fulminante, il politico impegnato in una strenua battaglia
moralizzatrice. È l’intellettualità, che l’uomo nell’ultima fase della sua vita
con una piccola testata di provincia, “L’eco della Versilia”, che sia pur nei
limiti di “area”, diventa d’importanza nazionale, si getta a capofitto
nell’ultimo sogno ideale. L’avventura dell’"Eco" è contemporanea ad una nuova
rubrica che Niccolai cura per il “Secolo d’Italia”, «Duello al sole».
un’immagine cinematografica per richiamare l’attenzione del lettore.
Ancora polemiche, questa volta però il profilo e diverso, le questioni morali,
pure affrontate con severità, fanno da cornice ad un’impostazione generale più
centrale sulle idee. Quasi un’ossessione costruire e definire una cornice
ideale. Siamo giunti ai primi anni ’80, il tempo delle persecuzioni contro la
Destra è finita, eppure le cose non sembrano migliorare è necessario ritrovare
un tensione politica, non dimenticare la «Religione, ciò che ci fa stare
insieme».
Tangentopoli è ancora lontano, lontanissime poi sembrano le possibilità di
giungere ad una semplificazione del quadro politico nazionale, così l’unica
speranza per uscire dalla palude democristiana senza cadere nell’errore
comunista, gli sembra quella di costruire una nuova alleanza politico-culturale
fra l’area nazionale e quella socialista. Superare la scissione d’inizio secolo
che portò Mussolini a separarsi dalla casa madre. Nonostante la grande ingenuità
di questa teorizzazione, tipica della generosità di Niccolai, rimangono di
quella stagione alcuni punti fermi che delineano contorni di un’etica
dell’impegno politico che non deve andare perduta.
«Non selezionare personale politico elastico. Costruire coscienze. Partito
educatore, non corruttore». Sono parole chiare, importanti, vive, attuali, ieri
come oggi. Parole vissute con coerenza da Niccolai e testimonianze nella
personale rinuncia a qualsiasi carica politica “gratificante”.
Giorgio Almirante, per ragioni di salute, decide di lasciare la guida del MSI,
del quale era solo il massimo dirigente, ma quasi un simbolo incarnato. Nel
partito si apre la discussione per la successione. Cominciano anni difficili,
caratterizzati da polemiche sempre più aspre alle quali Beppe partecipa con la
consueta passione. Ad un certo punto il Movimento pare deragliare in questa
aspra lotta fra le diverse correnti interne, per aver perduto ogni volontà di
proiezione verso l’esterno. Niccolai trova l’umiltà e la forza per gridare No
«Pietà …Chi scrive non si assolve. Si condanna. Anche perché sarebbe una
mascalzonata prendersela con il solo segretario. Pietà, per gli antenati, i
Morti, il Passato, la Comunità. Senza pietà verso noi stessi. non la meritiamo».
Ad un certo punto, per dimostrare una caduta della tensione fra i quadri
dirigenti, presenta al Comitato Centrale un ordine del giorno che era stato
approvato dalla direzione del PCI. Il documento, in verità molto generico è
privo di riferimenti politici precisi, è approvato dall’assemblea. La polemica
si fa rovente, per questa “eresia” rischia l’espulsione. Ma in fondo si tratta
di una provocazione fatta a fin di bene, vuole dimostrare lo svuotamento delle
ideologie, la difficoltà di distinguere gli uni dagli altri nell’Italia
post-industriale.
Poi fa arrabbiare i suoi amici di corrente votando in Direzione a favore del
segretario Fini, di cui era stato oppositore, perché con taluni comportamenti
coraggiosi si stava finalmente mettendo «l’inferno in bocca».
Proprio Fini lo proporrà come Presidente del MSI-DN, riconoscendogli un’indubbia
autorità morale su tutta la Comunità. Niccolai risponderà negativamente, quella
carica non fa per lui. Ringrazia ma rifiuta un ruolo oltre le parti: vuole
continuare ad essere «parte».
Purtroppo non sarà così: un ictus gli impedirà di continuare la sua
azione ed in pochi mesi farà perdere alla nostra famiglia uno dei suoi uomini
migliori.
«Uomo adamantino, coscienza cristallina» scriverà di lui un avversario come il
giornalista Mughini.
Di Beppe Niccolai restano ritagli d’articoli di giornale, poche pagine non
raccolte in forma organica che, però, possono essere ben riassunte nella
conclusione di una conferenza: «… Imponendo il divieto di guardare al passato è
nato l’uomo senza identità… vivi questo è il mondo! … i modelli dell’italiano…
scroccone bugiardo, vanesio, vile, opportunista, senza un briciolo di carattere.
E la società muore. Ce la faremo? Occorre, comunque, pensare che quando il tempo
a venire si stupirà delle nostre disfatte, i nostri bisnipoti sappiano che
“alcuni” rifiuteranno di gettare le armi e di alzare le braccia. Una Grande
battaglia morale nella continua, ossessiva, ricerca di quel soggetto che a volte
pare impossibile costruire l’italiano nuovo».
Il Libeccio
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