CONFERENZE

"Secolo d'Italia", 28 maggio 1977

 

Mafia, criminalità e potere politico

Giuseppe Niccolai

 

Si è svolto a Reggio Calabria nella Sala del Consiglio provinciale un dibattito sul tema "Mafia, criminalità e potere politico". Presenti i deputati Tripodi e Valensise. il senatore Franco, il consigliere regionale Meduri. l'avv. Scalari, Segretario provinciale del MSI-DN. dirigenti nazionali e locali del partito, molto pubblico. Relatore è stato Giuseppe Niccolai, già membro della Commissione antimafia.


Il dibattito, per il momento scelto, è stato un atto di responsabile coraggio e di dura e implacabile denuncia politica.
La vicenda di Taurianova, dove altri due figli del popolo in divisa sono caduti sotto i colpi della mafia, veniva a confermare, con i suoi recenti clamorosi sviluppi (il vertice della mafia presso l'agrumeto di Razzà vede la presenza di personaggi politici calabresi di primo piano dell'arco costituzionale, dai democristiani al comunisti, una vecchia tesi del MSI-DN, e cioè che non solo la mafia ha trovato e trova nella degenerazione clientelare e parassitaria della classe politica terreno fertile per la sua nefasta espansione, ma che la mafia stessa è ormai elemento costitutivo del potere.
Il vertice della mafia di Taurianova, conclusosi in un sanguinoso conflitto a fuoco, aveva uno scopo ben preciso: come spartire la torta rappresentata dai 36 miliardi di appalti legati al noto centro siderurgico di Gioia Tauro. Gli elementi costitutivi dell'episodio bastano di per sé a chiarire definitivamente l'intreccio mafia-politica. C'è la scelta sbagliata, c'è lo spreco del denaro pubblico, c'è la distruzione del territorio: il tutto portato avanti dal vertice politico con mentalità tipicamente mafiosa. Non ci si ferma qui. Sulla pioggia di denaro pubblico, che si fa ricadere sul luogo della scelta sbagliato, ecco concretarsi l'accordo per la «gestione» del malloppo. Ed all'appuntamento chi troviamo se non la mafia da una parte e il potere dall'altra? E la conclusione morale qual'è se non quella che sono proprio la corruzione, il clientelismo, l'affarismo, il parassitismo del potere politico che preparano il terreno alla criminalità più spietata?

Partendo da queste considerazioni iniziali, facciamo la storia di un altro vertice mafioso che, per il momento in cui si svolse, decise addirittura la sorte del nostro Paese. La storia la troviamo nei documenti dell'Antimafia. Infatti nella relazione di minoranza del MSI-DN, presentata alle Presidenze delle Camere il 4 febbraio 1978, c'è un rapporto (archivio del Dipartimento di Stato di Washington) del console generale americano di Palermo Alfred T. Nester che, indirizzato al segretario di Stato, ha come oggetto: «Formation of group favoring autonomy of Sicily under direction of Mafia»
Il Nester racconta ai suoi superiori come il problema del separatismo fosse stato discusso a tavolino tra alti ufficiali americani e personalità dell'Isola che vengono così elencate: Calogero Vizzini, Virgilio Nasi, Calogero Volpe, Vito Fodera e Vito Guarrasi.
E chi è Calogero Vizzini se non l'indiscusso capo di tutta la mafia siciliana?
Ma il personaggio che più interessa è Vito Guardasi. Raccontando i tratti essenziali della sua vita ci sarà più facile capire perchè la mafia è diventata in Italia elemento costitutivo del potere.
L'otto settembre 1943 Vito Guarrasi è ad Algeri dove si è recato, in missione segreta, con la Commissione Italiana per trattare la resa con gli Alleati. Era un semplice ufficiale di complemento, che mai ci faceva ad Algeri? si domanda un documento dell'Antimafia.
C'è un particolare che illumina: l'ufficiale di ordinanza del generale Castellano, incaricato di trattare la resa, è Galvano Lanza Branciforti di Travia, amico di Guarrasi. Il documento dell'Antimafia (N° 858) già citato, continua:
«Mentre Galvano Lanza Branciforti di Travia e Vito Guarrasi partecipavano alle trattative di armistizio, don Calogero Vizzini da Villalba (il capomafia citato - N.d.R.), amministratore del feudo Polizzello di proprietà dei Lanza, svolgeva a livello tattico attività di preparazione dello sbarco degli alleati in Sicilia».
Fermiamoci un momento per alcune brevi considerazioni che, del resto, scaturiscono dai fatti e dai documenti. Lo sbarco degli alleati, c'è già chi lo prepara militarmente o c'è già chi, intendendo far valere l'aiuto che dà allo sbarco, lavora perchè quello sbarco porti con sé un certo sbocco politico, non certo rivoluzionario, ma reazionario, sbocco che di poi pervaderà di sé, malgrado la Resistenza, tutta la vita della Repubblica italiana.
Infatti il «capolavoro» di Vito Guardasi, presente ad Algeri nel 1943 e ai «summit» della mafia nel 1944 in Sicilia, in che consiste se non nell'aver saputo gestire sapientemente il separatismo prima e l'autonomia regionale dopo, non solo per salvate, ma per triplicare i consistenti patrimoni che stavano dietro coloro che ad Algeri trattavano la resa con gli americani, avendo gli uni al proprio fianco i «boss» della mafia dell'Isola e gli altri il fior fiore del gangsterismo nordamericano di origine mafiose?
L'Italia, di cui noi oggi vediamo i limiti attraverso i bagliori della criminalità, nasce in quei giorni e con quelle stigmate.
Si è detto del feudo Polizzello. È di proprietà dello famiglia Lanza Branciforti. Chi ci impera? Genco Russo, il luogotenente di Don Calò Vizzini, il potente capo mafia. Andate a vedere la vicenda nelle carte dell'antimafia. Come si conclude fra angherie, sopraffazioni e violenze?
Che quelle terre vengono pagate dal potere politico tre volte il prezzo stabilito dalla legge di riforma agraria. Chi gestisce l'affare? Vito Guarrasi.
Ha scritto Leonardo Sciascia che non capiremo nulla della mafia se non faremo la storia delle miniere di zolfo baronali. Ebbene chi portò a termine l'impresa folle di trasferire queste miniere antieconomiche al potere pubblico con una girandola di miliardi a tutto vantaggio degli ex proprietari?
La legge regionale 13-3-59 numero 4. È un altro gioiello del Guarrasi che, amministratore dei baroni, riesce ad essere, in contemporanea, segretario generale del piano quinquennale per la ricostruzione della Sicilia, consulente della Regione e del PCI attraverso l'on. Macaluso e il giornale comunista "l'Ora" di Palermo, di cui è amministratore.
Sono vicende di 18 anni fa, ma se si ha l'avvertenza di ricordare che quelle vicende. insieme ad altre, come il sacco edilizio di Palermo, facevano raccattare cadaveri per le strade, amaramente dobbiamo ammettere, da quello che oggi tutta l'Italia soffre, che la mafia è divenuta nazionalmente cardine del potere.
Ma le «preistoriche miniere» baronali ci danno modo di illustrare le gesta di un altro personaggio politico che, grazie a Ugo La Malfa, è arrivato ad essere sottosegretario di Stato alle partecipazioni statali. Intendiamo parlare di Aristide Gunnella.
La sua carriera politica, a parte l'amicizia di La Malfa, è legata alle vicende dell'Ente Minerario Siciliano di cui è stato, prima di essere deputato, consigliere delegato. Infatti tale carica gli consente di assumere, alla vigilia delle elezioni del 1968, il capo mafia Giuseppe Di Cristina, signore incontrastato delle miniere di Riesi. Ed è proprio a Riesi che, spogliate le schede delle elezioni del 1968, si ha la sorpresa. Il PRI, in quella zona, prendeva 10 voti. Grazie al capo mafia Di Cristina sale a 400 voti. Preferenze per Gunnella 270.
Il moralizzatore, la coscienza critica della democrazia italiana Ugo La Malfa, porta Aristide Gunnella, protettore di Di Cristina (inquisito fra l'altro per fatti criminosi come il rapimento De Mauro e l'omicidio Ciumi a Palermo) a dignità di Sottosegretario di Stato. E per giunta alle partecipazioni statali dopo che il Gunnella a capo di Enti economici siciliani, in altro non si era distinto se non nella sistematica dilapidazione del denaro pubblico.
Ecco, le vicende di Taurianova hanno a monte chi le prepara. E se l'ordine pubblico è saltato in Italia è perchè la classe politica, da tempo, ha delittuosamente operato creando le condizioni perché l'ordine non potesse più essere mantenuto. Non è vero che l'Italia si sia «sicilianizzata». È il regime delle correnti e della partitocrazia che ha fatto si che uomini di stato nazionali del tipo La Malfa o lo stesso Andreotti o lo stesso Fanfani, per ragioni di corrente si venissero a trovare protettori di mafiosi autentici e dei loro amici. Correnti politiche e criminalità. Un unico filo le unisce.
Le carceri. È l'argomento del giorno. Giorni fa abbiamo ascoltato alla radio un dibattito, di cui regista è stato il sottosegretario alla Giustizia, Dall'Andro, moroteo. Benissimo. Ma quanti ricordano la vicenda del fascicolo relativo alla carcerazione dei «fratelli Rimi», acquisito dalla Commissione antimafia dal Ministero di Grazia e Giustizia?
I fratelli Rimi: capimafia di rispetto. Il più vecchio è accreditato come colui che fece fuori Giuliano quando la mafia, d'accordo con il potere politico, decise di farlo fuori. Ebbene, in quel fascicolo, vi sono 69 documenti che portano la firma del Ministro della Giustizia Reale, dei sottosegretari Dall'Andro, Pennacchini, Pellicani, dei senatori Cifarelli (PRI), Corrao (PCI). Cosa chiedono? Tutti intercedono a favore dei fratelli Rimi perché, contro la legge, restino in carcere insieme e in Sicilia. E ciò anche quando il Centro di coordinamento operazioni polizia criminale, scriveva, angosciato, che i fratelli Rimi, reclusi insieme nel carcere di Ragusa, di là dirigevano operazioni di mafia.
Si comincia con il concedere il 29 aprile 1969 una prima proroga di un mese e da quella proroga passano ben due anni prima che la legge venga fatta valere. E ciò a firma del Ministro della Giustizia!!!
Vi ricordate il Ministro Rosano? Accusato di aver favorito un detenuto, si uccise. Oggi non si uccide più nessuno. Oggi i Ministri scrivono. A favore degli ergastolani.
La sinistra italiana, in particolare il PCI, in tema di mafia si erge a giudice. Ne ha i titoli? Abbiamo già visto la vicenda di Guarrasi. Ora c'è quella che riguarda l'ex senatore democristiano Verzotto, latitante. Si conosce l'accusa: fondi neri dalle banche di Sindona.
Un episodio sconosciuto e che invano cercherete nelle carte della relazione del PCI sulla mafia è invece riportato nella relazione missina.
Il 13 dicembre 1971 si costituisce in Milano una finanziaria, la GEFI, capitale un milione.
Il 19 febbraio 1972 il capitale della GEFI sale a due miliardi e mezzo e la finanziaria acquista il pacchetto di maggioranza della ex Banca Loria, poi Banco di Milano, le banche di Sindona.
Andate a vedere i membri dei consigli di amministrazione. Nella Banca Loria vi troverete Verzotto. Nella GEFI l'avv. Calogero Cipolla. Chi è costui?
È il fratello del senatore del PCI Cipolla. C'è di più. L'avvocato Cipolla risulta consigliere d'amministrazione della "Editrice rinnovamento" proprietaria del giornale comunista "Paese Sera".
Verzotto, Cipolla, Sindona. La traduzione esatta è DC = PCI = Sindona. Non meraviglia. Meraviglia, ed anche quello è costume mafioso, che la informazione in Italia, a cominciare dalla Televisione, non dica una parola al riguardo.
Il caso Fagone. Il Presidente della Commissione antimafia, il senatore Carraro, aveva preso come emblema della politica del credito in Sicilia il caso Fagone, e aveva scritto la storia nella sua relazione.
Chi è Fagone Savino? I rapporti dell'antimafia, in particolare quello della Procura Generale della Corte di Appello di Catania, dicono che questo personaggio nel 1963 lavora presso l'ERAS, un ente agricolo. Stipendio 45.000 lire al mese (quarantacinquemila lire al mese). Poi si «mette in politica attiva». Arriva ad essere prima assessore alla agricoltura, poi all'industria e commercio della Regione Siciliana. 1971, gli stessi rapporti lo definiscono miliardario. In sette anni, da nullatenente a miliardario. Nel 1972 è eletto deputato. È democristiano.
Quali erano, e di che sapore le accuse del Presidente della commissione antimafia nei riguardi di Fagone?
Presto detto: di avere avuto mutui del valore di oltre un miliardo senza avere garanzie e per di più in Sicilia dove i contadini di certe zone per avere presati di 2.000 o 5.000 (duemila o cinquemila lire), devono prestare come garanzia il raccolto. Ce di più. Il socialista Fagone aveva messo su un'altra industria: quella della vendita dell'acqua ai contadini. Trivellava i pozzi e vendeva acqua (per l'acqua in Sicilia si uccide!).
Ebbene, quando i tre membri della Commissione antimafia del PSI (i senatori Zuccalà e Signori e il deputato Vineis) vennero a conoscenza di quanto Carraro aveva scritto, indignati, chiesero e ottennero che dalla relazione antimafia venisse cancellato il caso Fagone. Lo stesso chiese il PCI «Fagone è un galantuomo!»,dissero.
Oggi Savino Fagone è latitante. Lo cercano per metterlo dentro.
Dalle intercettazioni telefoniche, ordinate per indagare sulla fuga di Luciano Liggio sul «caso Rimi» alla Regione Lazio, vengono fuori due episodi del tutto sconosciuti alla pubblica opinione italiana. Sono registrati nelle carte dell'Antimafia ma, come al solito, trattandosi di uomini del potere. la Commissione ha fatto orecchio da mercante.
Il primo riguarda un Vice Presidente del Senato della Repubblica e già segretario della Commissione antimafia. Ebbene da quelle intercettazioni si è saputo che il socialista Gatto Simone riceveva in Senato il ragioniere Mangiapane Giuseppe, uno degli uomini di rispetto della mafia dedita al traffico della droga. Cosa sarebbe accaduto se l'intercettazione telefonica avesse riguardato un altro uomo politico e se questi fosse stato di destra?
Il secondo episodio riguarda l'on. Aniasi, già sindaco di Milano. In una intercettazione telefonica fra Italo Ialongo e il socialista Tunetti, il sindaco Aniasi e tutto lo stato maggiore socialista, da Mancini a Giuliano Vassalli, viene chiamato in causa. Contenuto delle telefonate? Speculazioni varie, dall'ANAS ai grandi magazzini "Standa". Per questi ultimi finisce in galera un santone del PSI e della resistenza: Gino Sferza. Per Aniasi e il resto silenzio. Le intercettazioni telefoniche di Ialongo fanno saltare la testa del Procuratore Generale della Corte di Appello di Roma, Carmelo Spagnuolo. I politici conservano la loro. Sono intoccabili. Perché hanno la tessera del PSI.
Nel trapanese (lo si è visto raccontando al caso Gunnella) il PRI domina con le sue clientele. Il presidente dei Probiviri del PRI, l'avvocato Curatola ha tentato di fare pulizia. Come le cronache ci hanno raccontato gli è andata male. Svillaneggiato da La Malfa (questo Torquemada da strapazzo!) è stato costretto, per aver chiesto l'espulsione del corrotti dal PRI, a presentare querela contro lo stato maggiore del PRI. Per diffamazione.
Si è detto del trapanese nella morsa clientelare del PRI. A tale proposito un altro caso curioso. Nel 1968 scoppia uno scandalo bancario. Un certo Miallo (e altri) con giri fasulli di assegni e di cambiali tratte truffano varie Banche, fra le quali il Banco di Roma, per oltre un miliardo e mezzo.
Sapete la conclusione? Si licenziano i direttori delle Banche locali ma, guarda caso, si licenziano con laute liquidazioni. E perché mai?
Non si è mai saputo. Le carte, in mano all'antimafia, sono senza risposta.
La vogliamo azzardare noi la risposta? È che dove si doveva colpire, le direzioni centrali delle banche che quelle operazioni, grazie all'avallo dei politici, avevano autorizzato, sarebbe venuto fuori la collusione potere politico = imbroglioni. E, more solito, non se ne è fatto di nulla.
Salvatore Lima. Già, sindaco di Palermo, poi sottosegretario alle Finanze. Sul suo conto volumi di carte di accuse. Ne citiamo una: Salvatore Lima, insieme al senatore Pecoraro Antonino, al presidente dell'Ente Fiera del Mediterraneo, ad assessori, risulta membro di una Cooperativa «"Banca Popolare di Palermo" in cui fanno spicco pregiudicati e arrestati per associazione a delinquere. I rapporti delle autorità di polizia, in possesso dell'antimafia, affermano che questa cooperativa è dedita al contrabbando. E dentro il sottosegretario alle finanze!!!
La commissione antimafia, in 13 anni di lavoro, non ha mai trovato il tempo di interrogare questo personaggio! E poi si domandano del perché la criminalità la faccia da padrona in tutta Italia!
La morte di Enrico Mattei, la scomparsa del giornalista De Mauro, l'assassinio del Procuratore Scaglione: un unico filo lega queste sanguinose vicende, il filo che tiene insieme mafia e potere.
Se ci fate caso la Repubblica italiana ha il suo battesimo con una strage, quella di Portella delle Ginestre. L'autore, il bandito Giuliano, viene poi fatto fuori in circostanze misteriose. Si inventa un conflitto a fuoco con la polizia. Non è vero. Giuliano muore assassinato nel sonno. Eppure il bandito aveva contatti con alti ufficiali dello Stato, con ispettori capo di polizia. Per conto di chi?
Non lo si è mai saputo.
Quella vicenda battezza la Repubblica. E la Repubblica, nei momenti di crisi, è ritornata ad essere chiazzata di sangue con altre stragi misteriose. La tecnica la stessa, la manovalanza allo scoperto, i volti dei personaggi di vertice coperti dal «passamontagna».
La mafia: cardine del potere politico in Italia.
È vero. È d'accordo perfino il presidente della Commissione antimafia che, nella relazione di maggioranza, scrive:
«Le vicende e gli episodi ora narrati non sembrano, almeno in apparenza, collegati con il mondo della mafia, ma al di là di queste, resta il fatto che è stato proprio nel parassitismo e nel clientelismo programmatico, in una parola nel sistema del malgoverno, di sprechi, di strumentalizzazione delle stesse istituzioni, e quindi in definitiva nel comportamento di certe persone che hanno trovato terreno favorevole e nuovo alimento il costume e la presenza mafiose. Se è vero che lo Stato accentratore ha avuto la sua parte nelle origini della mafia è altrettanto certo che uno Stato che eleva a regola la dilapidazione del patrimonio nazionale a favore dei ceti privilegiati, e che si presenta ad una popolazione che vive ancora in pesanti ristrettezze economiche, con le ricchezze sfacciate e di incerta provenienza di alcuni suoi rappresentanti, non è meno colpevole della sopravvivenza della mafia, appunto perché mentre favorisce pericolose collusioni e illecite connivenze, dissuade i cittadini da una attiva collaborazione con l'apparato pubblico, che potrebbe essere un fattore decisivo per la liberazione e il riscatto del popolo siciliano».

C'è tutto. Non lo afferma il MSI-DN. Lo afferma il presidente della Commissione antimafia Carraro, democristiano. E l'analisi è spietata: è la degenerazione della classe politica il veicolo della criminalità. Hanno distrutto lo Stato. Ed oggi la scelta è perentoria: o ripensare, in termini di libertà, di efficienza e di pulizia morale lo Stato, o il comunismo.
Nessun processo alla Sicilia, né alla Calabria. Sarebbe cosa ingiusta e deviante. Alla sbarra invece la classe politica che, ammantandosi degli archi costituzionali, viene poi sorpresa, con le mani nel sacco, ai summit della mafia.
Questo, soprattutto, ha voluto dire il dibattito di Reggio Calabria. Fra il silenzio colpevole di tutte le altre forze politiche. Che non parlano. Che non possono parlare. Perché sorprese a Taurianova. Contro lo Stato. Contro la povera gente. Al fianco della malavita.
 

Giuseppe Niccolai

Inviato da Andrea Biscàro - http://www.ricercando.info