FRAMMENTI
dal Cd "Opera Omnia", Nuovi Orizzonti Europei
Mafia e potere 1ª parte
La mafia, per essere tale, deve
controllare il territorio; ciò vuole dire necessariamente «fare politica». Per
poter realizzare i suoi «affari» -che sono alla base della esistenza stessa di
questo tipo di criminalità- deve instaurare rapporti con quella che viene
definita «società civile» e con il mondo politico ed economico. I rapporti con
la «società civile» del territorio controllato sono basati sulla forza
attraverso la quale si ottiene l'omertà o anche il consenso. I rapporti politici
ed economici sono fatti di legami palesi ed occulti, di scambi di favori, di
controllo del voti, di minacce, di infiltrazioni, di condizionamenti. Quando i
rapporti politici ed economici si rompono e gli apparati dello Stato combattono
veramente la mafia, essa va in crisi perché incomincia e perdere il controllo
dei territorio e quindi il consenso e l'omertà. La storia della mafia e del suo
sviluppo è quindi, soprattutto, storia dei suoi legami con il mondo politico ed
economico. Già nel primi anni dell'Unità d'Italia la Mafia ha i suoi legami con
il potere politico ed economico, ma essi sono di sudditanza: il nobile o il
borghese, con i voti dei mafiosi va a fare il deputato a Roma, mentre i mafiosi,
con l'appoggio del nobile e del borghese, vanno a fare i consiglieri nei paesi
della Sicilia. In quel periodo l'opera della mafia è essenzialmente legata
all'agricoltura: impone guardiani nel campi, tangenti sulle greggi e,
soprattutto, cerca di monopolizzare il controllo delle acque, indispensabili
all'agricoltura stessa. Alle elezioni dei 1876 l'opposizione ottiene in Sicilia
ben 43 deputati su 48 e c'è l'avvento al potere della sinistra, con il governo
De Pretis, proprio grazie al voti determinanti dei deputati siciliani. Si
comincia a dire che la vittoria della sinistra è stata agevolata proprio dal
mafiosi e che con la vittoria della sinistra ha vinto l'opposizione mafiosa.
«Nel 1895 (età di Giolitti) -scrive il giudice Rosario Minna in "Breve storia
della mafia"- il generale Mirzi, su ordine del governo, parte da Palermo e va ad
Alcamo per far scarcerare un mafioso la cui famiglia è essenziale per l'elezione
a deputato dei candidato governativo». In Sicilia le elezioni tra la fine
dell'800 e l'inizio del '900 -anche se non esiste il suffragio universale- non
hanno nulla di diverso da quelle dei giorni nostri: ciechi che votano, fucilate
e attentati. Nel 1905, a Grammichele, la mafia spara sul contadini: 18 morti e
200 feriti. Tra la fine del '800 e l'inizio dei '900, vengono assassinati anche
alcuni sindacalisti. Nel 1909 la mafia uccide a Palermo il poliziotto
italo-americano Joe Petrosino impegnato in indagini proprio sulla mafia.
Dell'omicidio viene accusato il boss don Vito Cascio-Ferro. Al processo, però,
don Vito si salva perché un deputato palermitano testimonia che all'ora
dell'omicidio il mafioso era a pranzo in casa sua. Nel maggio del 1924,
Mussolini -capo di un governo di coalizione- va in Sicilia e, a Piana dei Greci,
il sindaco Francesco Cuccia sull'auto gli dice che non c'era bisogno di tutti
quei carabinieri e poliziotti mobilitati in quanto, essendo sotto la sua
protezione, non avrebbe potuto avere «dispiacenze». Mussolini interruppe la
visita e tornò a Roma. Nella capitale convocò i suoi collaboratori e chiese un
uomo da mandare in Sicilia a combattere la mafia. Venne fuori il nome di Cesare
Mori che, da Prefetto di Bologna, aveva ordinato al carabinieri di sparare sugli
squadristi. Bocchini, capo della polizia, disse che Mori non era fascista e non
capiva niente di politica. Mussolini gli ribattè che non voleva un politicante e
chiuse il discorso dicendo: «Spero che sia duro con i mafiosi come lo è stato
con i miei squadristi». Mori venne nominato Prefetto di Trapani e dopo pochi
giorni era già in Sicilia. Nell'ottobre del 1925, venne quindi spostato a
Palermo con l'incarico preciso di combattere la mafia. Sull'opera di Mori in
Sicilia si è molto discusso nel dopoguerra e si continua a discutere ogni
qualvolta il problema mafioso si ripresenta nella sua drammaticità: alcuni -come
la televisione di Stato- hanno messo in risalto una eccessiva durezza del
«Prefetto di ferro»; altri hanno cercato di accreditare la tesi secondo cui Mori
avrebbe colpito solo personaggi secondari (tesi sostenuta anche su "la
Repubblica" del 26 luglio). Si tratta quasi sempre di affermazioni dettate da
interessi di parte, al fine di impedire una seria discussione sul perché del
rinascere della mafia e del suo continuo espandersi nel dopoguerra. Gli studiosi
più seri -anche se antifascisti- sono, però, di tutt'altro parere. Il giudice
Minna, nella citata "Breve storia della mafia", scrive: «Mori, abile anche nel
chiedere ai siciliani di muoversi per primi per liberarsi dai mafiosi, assesta
alla mafia una botta tremenda. Migliaia sono i mafiosi che se non vengono
incarcerati, almeno finiscono per un buon periodo in una caserma dei carabinieri
o in un commissariato di pubblica sicurezza, e i mafiosi vanno a piedi da casa
loro alle caserme, ammanettati per le strade dei loro paesi, così essi perdona
la faccia [...] Mori colpisce duramente i sindaci e i consiglieri comunali
mafiosi che numerosi vanno in galera o al confino (a cominciare da Cuccia di
Piana dei Greci) sotto l'accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso.
[ ... ] Anche preti mafiosi è avvocati capimafia seguono in galera i loro
complici mafiosi. [...] Dal 1925 al 1931 numerosi sono i processi che si
celebrano contro la mafia, con oltre 100 imputati per volta, e si concludono con
pesantissime condanne». In galera fino alla morte finisce anche don Vito
Cascio-Ferro. «E la prima volta -prosegue Minna- che lo Stato italiano, con
Mussolini, usa la violenza specificamente e direttamente contro la mafia. [...]
Tanti sono allora i mafiosi che, secondo la leggenda che comincia a sorgere su
Mori, si danno spontaneamente nelle mani del prefetto, dopo anni e anni di
impunità e di comoda latitanza». Sergio Turone, nel libro "Corrotti e
corruttori" scrive: «Sul finire degli anni venti il regime fascista -il cui
autoritarismo ferreo ovviamente, non poteva tollerare l'esistenza di un
contropotere quale quello della mafia aveva profuso molte energie nella lotta
contro questo tipo di criminalità organizzata, e la quale aveva inferto molti
duri colpi». Lo storico e giornalista Arrigo Petacco è ancora più chiaro. Ha
infatti scritto: «La mafia [...] ha sempre vinto. Tranne una volta. [...]
Accadde in epoca fascista e l'operazione vittoriosa fu personalmente
sponsorizzata dallo stesso Mussolini». Mori «con alle spalle, oltre che
un'eccezionale carriera di polizia, tre clamorose operazioni antimafia
naufragate al momento giusto per i soliti intrighi tra mafia e politica, [...]
ai suoi uomini assegnò poche semplici direttive.
Non era vero niente! Due giorni dopo il quotidiano "l'Unità" -in un articolo di Maurizio Ferrara- avanzava l'ipotesi che i carabinieri per liquidare Giuliano avevano fatto ricorso alla mediazione e all'aiuto della mafia. Sergio Turone ricorda che la ricostruzione completa dell'intera vicenda apparve sul "l'Europeo". Fu proprio "l'Europeo" a rivelare che Giuliano non era stato ammazzato dal carabinieri, ma era stato assassinato, su commissione, mentre dormiva, da suo cugino Gaspare Pisciotta. Beppe Niccolai raccontava, poi, che solo dopo morto Giuliano era stato colpito da una raffica di mitra per dare credito alla relazione dei carabinieri. Gaspare Pisciotta fu arrestato il 9 dicembre del 1950 e nel processo che si tenne a Viterbo, per la strage di Portella delle Ginestre, ammise di avere ucciso Giuliano nel sonno; dichiarò che l'incarico gli era stato affidato personalmente dal Ministro dell'Interno, il democristiano siciliano Mario Scelba (quello della legge contro la ricostruzione dei partito fascista!), e che la strage di Portella delle Ginestre era stata ordinata dal democristiano Bernardo Mattarella e dai monarchici Alliata di Montereale e Cusumano Geloso. La dichiarazione su Mario Scelba fu giudicata estranea al processo. Mattarella, Alliata di Montereale e Cusumano Geloso furono prosciolti in istruttoria. Pisciotta -che nel corso del processo aveva dichiarato che banditi, polizia e mafia erano un corpo solo, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo- fu condannato per la strage di Portella delle Ginestre, ma il 9 febbraio del 1954 veniva assassinato in carcere con un caffè avvelenato. Scrive in proposito Sergio Turone -sempre nel libro "Corrotti e corruttori": «[...] Mario Scelba non era più Ministro dell'Interno dal 16 luglio 1953. In quel delicato ministero gli era succeduto uno dei più abili e dinamici delfini di De Gasperi: Amintore Fanfani. Fanfani restò all'Interno fino al 18 gennaio 1954, giorno in cui per la prima volta fu designato alla Presidenza dei Consiglio e formò un monocolore democristiano. Nella nuova compagine governativa il Ministero dell'Interno fu affidato a Giulio Andreotti, allora legatissimo a Scelba. Quel governo durò in carica solo 23 giorni e cadde per la mancata fiducia alle Camere, il 10 febbraio». A proposito delle responsabilità politiche del delitto («le quali potrebbero coincidere o non con quelle penali»), Turone prosegue: «Qualora si ritenga che per ottenere e progettare un delitto fra le mura di un carcere occorra una preparazione più lunga di tre settimane, il ministro responsabile deve essere indicato nel predecessore di Andreotti: Fanfani. Se invece si ritenga, in teoria, che a un ministro furbo e spregiudicato venti giorni siano sufficienti per fare organizzare la liquidazione fisica di un testimone pericoloso carcerato, allora l'oggettiva responsabilità politica dei fatto ricade su Andreotti. [...] Il 10 febbraio 1954 (coincidenza curiosa: proprio il giorno successivo alla morte di Pisciotta) divenne Presidente del Consiglio Mario Scelba, che assunse, guarda caso, anche il Ministero dell'Interno e conservò la carica per un anno e mezzo».
2ª parte
Nonostante gli avvenimenti
connessi all'arrivo degli angloamericani, nonostante il «caso Giuliano» negli
anni Cinquanta e Sessanta non sono pochi i politici e i magistrati che negano
perfino l'esistenza della mafia che, invece, agisce e celebra i suoi riti alla
luce dei sole. Da "Il venerdì di Repubblica": «Anche in quell'anno, il '61, la
festa della Madonna della Catena cadeva nella seconda domenica di settembre
[...] La processione in onore della patrona all'improvviso si fermò, la folla
voltò le spalle alla matrice e mille occhi guardarono il vecchio sul balcone.
Dietro c'era il figlio, il primogenito. Era poco più di un ragazzo. Il vecchio
lo abbracciò davanti a tutti e tutti capirono. A Riesi, case di tufo sparse
intorno alle miniere di zolfo della Sicilia profonda, quel giorno era nato un
nuovo capomafia. Da tre generazioni i Di Cristina si tramandavano il potere, da
un secolo si passavano lo scettro dei comando sulla piazza del paese [...]».
Sergio Turone, da un volume-inchiesta sulla mafia, desume questa descrizione di
Palermo agli inizi degli anni Sessanta: «Sindaco è Salvo Lima, un giovane
fanfaniano protetto da Giovanni Gioia; e assessore ai lavori pubblici è Vito
Ciancimino, pupillo di Bernardo Mattarella. È con Lima e Ciancimino che si
accolgono numerose «osservazioni» al piano regolatore (e se ne avvantaggiano
notissimi mafiosi) e che l'80% delle licenze edilizie vengono rilasciate a
prestanome. È il periodo di massima ascesa di Angelo e Salvatore La Barbera che
trovano tutte le porte aperte al Comune; ed è quello dell'affermazione del
costruttore miliardario "don" Ciccio Vassallo». A proposito di Giovanni Gioia,
Nando Dalla Chiesa ha scritto: «Lo scrittore Michele Pantaleone, nel suo libro
"Antimafia, occasione mancata", aveva dato a Gioia del mafioso [...] Gioia
querelò sia Pantaleone sia l'editore Einaudi. Le prove vennero fuori [...]
Pantaleone ed Einaudi furono assolti. Per la prima volta un tribunale della
Repubblica aveva riconosciuto che un ministro della Repubblica era un mafioso».
Per quanto riguarda la mappa del potere in Sicilia negli anni immediatamente
successivi, Nando Dalla Chiesa così prosegue: c'è «poi Attilio Ruffini,
ex-doroteo, già ministro della Difesa e degli Esteri In prima fila [...] al
funerali di don Calogero Volpe e poi ospite di gala a una cena elettorale
organizzata nel '79 dalla banda delinquenziale (traffico di droga) degli Spatola
e degli Inzerillo, allora membro come Lima della direzione nazionale
democristiana. [...] Il maggior potere economico è invece detenuto dal
costruttore Cassina [...] ma soprattutto dai cugini Salvo Lima e Antonio
Ardizzone, proprietario del "Giornale di Sicilia", la cui famiglia è a sua volta
in rapporti di amicizia con Michele Greco, il boss mafioso condannato
all'ergastolo per l'assassinio dei giudice Chinnici. Altri personaggi dotati di
potere reale sono Aristide Gunnella e l'avvocato Vito Guarrasi. A proteggere
Lima e Ciancimino non ci sono solo i democristiani. Ciancimino viene eletto
Sindaco di Palermo nel novembre del 1970; viene subito presentata una mozione
per le immediate dimissioni del Sindaco «mafioso»; ma Ugo La Malfa -segretario
nazionale del Partito Repubblicano, con fama di moralizzatore- invia un
telegramma in cui si dice in sostanza: «Se fate dimettere Ciancimino io provoco
la crisi su tutto il territorio nazionale ...». Gli anni Settanta, quelli in cui
i personaggi anzidetti accrescono il loro potere, sono anni cruciali per lo
sviluppo della mafia. Luciano Leggio (detto Liggio), dopo avere eliminato don
Michele Navarra, dà inizio all'era dei Corleonesi (a proposito di Liggio, nel
1974, il giornalista Zuffino manifestò il sospetto che questi sapesse qualcosa
sulla bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969). Anche se proprio durante
gli anni Settanta Liggio, Alberti, Coppola, Badalamenti ecc. finiscono o al
confino, o in galera, o uccisi, la mafia non perde potere ma, anzi, si espande,
cresce, si modernizza -anche su consiglio di "Cosa Nostra" americana- e i
delitti eccellenti che prima erano stati rarissimi (quattro in un secolo)
diventano pane quotidiano.
Ma torniamo agli esperimenti politici Ha scritto Nando Dalla Chiesa, uomo di sinistra: «La mafia, è bene ricordarlo, diventa più potente proprio nel decennio in cui cresce -e non di poco- la forza della Sinistra. Spiegazioni a iosa, d'accordo. Ma c'è un interrogativo inquietante. Quali sono i princìpi che regolano tattiche, strategie, formule e soprattutto alleanze della sinistra in quel periodo? Forse le leggi della politica che essa pratica sono le stesse in cui può navigare il potere mafioso? [...] c'è a sinistra un approccio al potere che va criticato impietosamente. Senza di che la denuncia delle responsabilità democristiane resterà sacrosanta quanto inefficace».
Questo approccio non riguarda solo la Sicilia Franco Martelli, in "La guerra mafiosa", scrive: «C'era comunque, e soprattutto nelle forze di sinistra, un difetto di origine: le organizzazioni mafiose, laddove esistevano, non essendosi ovunque caratterizzate come sostegno agii agrari (ciò era avvenuto più nella zona di Gioia Tauro, di meno nella lonica e sull'Aspromonte) venivano viste pur sempre come forma di ribellione e di reazione, quasi che il riscatto potesse passare anche, dopo tutto, attraverso questa prima fase per così dire grezza della rivolta. La cosiddetta "repubblica" di Caulonia del marzo '45 ne era stata illuminante testimonianza». E a questo punto Martelli riporta quanto sostenuto da Sharo Gambino nel suo libro "Mafia. La lunga notte della Calabria", proprio a proposito della "Repubblica rossa" di Caulonia: «È certo comunque che presero parte alla rivolta anche i mafiosi, ovvero i braccianti aderenti alle "ndrine" locali. È altrettanto certo che la rivolta si nutrì di comportamenti e persino di rituali mafiosi». E che la sinistra -e i comunisti in prima fila- avessero attenzioni a dir poco benevole nei confronti della mafia lo dimostra quanto scritto il 26 aprile '44, sul settimanale della Federazione Provinciale di Palermo del PCI, in un articolo intitolato "La mafia".
Ecco una significativa parte: «I componenti della vecchia mafia nelle lotte per la conquista delle terre non avranno più bisogno di mettersi fuorilegge: solo adattandosi ai nuovi tempi e al nuovi bisogni di unione con tutti i lavoratori essi potranno realizzare le loro aspirazioni ed emanciparsi economicamente come tutti i contadini. Il separatismo e la mafia hanno interessi diametralmente opposti: se questa oggi è allettata dai latifondisti con lauti stipendi e larghi utili per il concorso al contrabbando, è perché essa è utile; ma se per caso domani i latifondisti si dovessero di nuovo consolidare, troverebbero un altro Mori per reprimere nuovamente i loro alleati». Quale sia stato poi l'approccio dei comunisti alla politica e soprattutto al potere è dimostrato dal fatto che perfino Pio La Torre nel dicembre dei '74, in tempo di compromesso storico e di crescita mafiosa, dichiarava: «Do atto che in questi ultimi tempi nella DC siciliana c'è stato un processo critico, autocritico, di ripensamento e quindi c'è uno sforzo di rinnovamento che si tenta (in mezzo a mille difficoltà di portare avanti [...] Non vi è dubbio che la presa della mafia e il suo potere sull'elettorato in Sicilia si siano ridotti e si sono ridotti per tutto quello di progresso e di sviluppo che in Sicilia c'è stato». Mentre la mafia cresceva ed aumentava il suo potere, Pio La Torre diceva, al contrario, che la sua forza e il suo potere si riducevano.
Tutto ciò perché Il PCI e la DC si erano messi d'accordo
Lo stesso Pio La Torre nella
relazione dei PCI nella Commissione antimafia -che è una relazione di
compromesso- difendeva Vito Guarrasi, il cui nome compariva più volte negli atti
della Commissione stessa. Per difenderlo -diceva- «dagli attacchi della destra
fascista». Chi sia Vito Guarrasi lo dice -oltre alle numerose citazioni negli
atti dell'Antimafia- anche una pagina dei memoriale di Giuseppe Insalaco, il
sindaco di Palermo assassinato dalla mafia. Insalaco scriveva che Guarrasi,
quale inviato dal conte Cassina, lo voleva convincere a scegliere la trattativa
privata per «quell'appalto»; in questo modo avrebbe evitato di essere travolto
da una vicenda giudiziaria che stava maturando al Palazzo di Giustizia contro di
lui, e di cui Guarrasi era misteriosamente a conoscenza. Nel diario di Rocco
Chinnici -il magistrato assassinato dalla mafia- c'è un appunto in data 17
aprile '81. Eccolo: 3ª parte
Dalla Chiesa, reduce dal successo
contro il terrorismo, viene nominato Prefetto di Palermo. Sembra un segnale
importante. Si crede che il governo voglia combattere davvero la mafia. Ma è
solo apparenza. Il figlio del generale, Nando, racconta nel suo libro "Delitto
imperfetto" che, prima di partire per la Sicilia, il padre ebbe un incontro che
sarebbe stato «(...) per il suo destino un incontro cruciale: quello con Giulio
Andreotti». Dopo questo incontro il Generale avrebbe detto: «Sono andato da
Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che so dei suoi in Sicilia è
sbiancato in faccia». Andreotti, dal canto suo, ha smentito che in
quell’incontro si sia parlato dei rapporti mafia-politica. Però, nel suo diario,
nella pagina del 6 aprile 1982, il Generale ha lasciato scritto: «Poi ieri anche
l’on. Andreotti mi ha chiesto di andare e naturalmente, date le sue presenze
elettorali in Sicilia, si è manifestato, per via indiretta, interessato al
problema. Sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò
riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi
elettori». Chi ha mentito? Comunque, appena Dalla Chiesa arriva in Sicilia
incominciano le polemiche sui poteri da conferirgli. E a schierarsi contro di
Lui sono proprio gli uomini e i partiti di governo che li avevano promessi e
che, secondo Nando Dalla Chiesa, erano stati posti dal padre come condizione per
l’accettazione della nomina. Comincia il socialdemocratico Carlo Vizzini
ricordando che il compito affidato al neo-prefetto era quello di «Spezzare le
pericolose collusioni tra la delinquenza organizzata e l’eversione». (Quindi non
i legami tra mafia e politica). I giornali del 13 agosto riportano la notizia
che il Ministro degli Interni Rognoni e il Presidente del Senato, Fanfani, sono
contrari all’idea di un Dalla Chiesa nazionale. Scrive il giudice Minna:
«Qualcuno del governo non vuole che Dalla Chiesa faccia il suo dovere ...». Sul
"Giornale di Sicilia" del 18 agosto il vicario episcopale Padre Francesco
Michele Stabile dichiara: «La gente comincia a pensare che i gruppi di potere
una direzione operativa a Dalla Chiesa non vogliono dargliela perché il Prefetto
potrebbe davvero sconfiggere la mafia (...). Troppe complicità fra i pubblici
amministratori. Troppe collusioni ed anche troppe omissioni ...». E quali
fossero le collusioni lo diceva lo stesso Generale il quale, secondo il figlio,
dichiarava: «Ora sono stato mandato in Sicilia. Non ci posso far niente se lì i
più legati alla mafia sono democristiani». Ma i problemi per lui sarebbero stati
non solo con la DC, ma anche con i partiti laici. In un’intervista a "Il Mondo",
Angelo Sanza, uomo di governo democristiano, legato a De Mita, delegato ai
problemi della polizia, affermava che Dalla Chiesa non poteva avere a Palermo
compiti che sono propri di organizzazioni centrali. Secondo Nando Dalla Chiesa
il messaggio lanciato da Sanza sarebbe stato questo: «Dalla Chiesa è un prefetto
come gli altri, non ha e non avrà nessun potere in più ...» e «Di fatto
significa, ancora, che lo Stato, se sarà toccato Dalla Chiesa, non riterrà di
essere stato colpito al cuore, di doversi mettere in guerra con la mafia». Lo
stesso Nando così commenta: «Se non sbaglio, quel messaggio ha trovato orecchie
attente». In questo clima, mentre la mafia continua ad uccidere e a far sapere
che è cominciata "l’operazione Carlo Alberto", si arriva quasi a negare
l’esistenza stessa della mafia, o almeno la collusione con i politici: il
sindaco di Palermo, Martellucci, dichiara: «Io non conosco collusioni mafiose al
Comune di Palermo», e il prefetto di Catania, Abatelli, afferma: «Qui la mafia
non esiste». Dalla Chiesa cerca allora di utilizzare la stampa per costringere
il governo ad uscire allo scoperto e a muoversi. Concede a Giorgio Bocca la
famosa intervista in cui dichiara di essere stato lasciato solo e di essere, per
questo, un facile bersaglio per la mafia. Ma il Presidente del Consiglio, il
Ministro degli Interni e tutto il governo non si muovono. Il 2 settembre, il
Generale viene assassinato insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro.
Si pensa ad una talpa che avrebbe informato il commando mafioso dell’uscita del
Generale dalla Prefettura e dell’itinerario seguito. Nando Dalla Chiesa afferma
che in Prefettura lavoravano -tra gli altri- Antonio Miceli, fratello del
famigerato Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva ospitato Sindona all’epoca
del suo falso rapimento e Ciro Lo Prato, segretario comunale di Mariano,
democristiano, nipote del boss mafioso Vincenzo Catanzaro coinvolto
nell’indagine sull’assassinio del colonnello Russo. Ma il successore di Dalla
Chiesa smentisce la possibilità di infiltrazioni. Subito dopo il delitto, su "Il
Giornale", Indro Montanelli scrive: «Chi siano i capi mafiosi e da chi siano
protetti, a Palermo lo sanno anche le pietre. È ora che vengano stanati a
qualunque prezzo e con qualunque mezzo. Chi cercherà di opporvisi non potrà che
essere considerato un (...) favoreggiatore». E ancora: «Inchiesti il Parlamento,
se vuole, ma su sé stesso» e, riferendosi alla Regione Sicilia: «Sappiamo
benissimo quanto di mafia è permeata e succube». Ai funerali i figli di Dalla
Chiesa notano la presenza, davanti alla bara, della corona inviata dalla
Presidenza della Regione Sicilia. Quella presenza -scrive Nando- fa tornare loro
in mente la frase detta dal padre: «Nei delitti di mafia la prima corona ad
arrivare è quella del mandante». La morte del Generale è un colpo per tutta
l’Italia. É chiaro a tutti che le istituzioni -governo in prima fila- non hanno
fatto nulla per permettergli di combattere sul serio la mafia. Accanto alla
ribellione nasce allora la sfiducia. La convinzione che la mafia non può essere
vinta perché la classe politica è troppo legata ad essa. Dal canto suo il
Governo cerca di inventare qualcosa di nuovo; e mentre tutti coloro che avevano
osteggiato Dalla Chiesa da vivo ne tessono le lodi da morto e negano qualsiasi
disaccordo con esso, quei poteri che Lui aveva continuamente richiesti, che gli
erano stati promessi prima e negati poi, vengono concessi -forse ancora più
ampi- al suo successore. E dal cilindro dei politicanti nasce una nuova figura,
quella dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia. La mafia continua, però,
ad operare senza grossi problemi. Ad operare e ad uccidere. Cadono: il
procuratore della Repubblica di Trapani, Giacomo Ciaccio Montalto; il capitano
dei carabinieri, Mario D’Aleo; il giudice Rocco Chinnici; il giornalista
Giuseppe Fava; il commissario di polizia Giuseppe Montana; il vicedirigente
della squadra mobile, Antonio Cassarà; il magistrato Giuseppe Giacomelli; il
presidente della Corte d’Appello di Palermo, Antonio Saetta; il giudice
Livatino. Cadono anche politici ed imprenditori, e non solo in Sicilia. In
Calabria viene assassinato un politico eccellente: l’ex-onorevole democristiano
Lodovico Ligato. Sempre in Calabria, dove anni prima era stato assassinato un
alto magistrato, Francesco Ferlaino, viene assassinato, nell’agosto del '91,
Antonio Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di
Cassazione. Unico fatto di grande importanza nella lotta alla mafia, negli anni
ottanta, il processo che un gruppo di magistrati riesce a mettere in piedi in
Sicilia, contro pesci piccoli e grossi della mafia, e che resiste fino alla
Cassazione. Di questo gruppo di magistrati fanno parte Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino. Giovanni Falcone raccontava che il pentito Tommaso Buscetta gli
aveva detto che Cosa Nostra, prima di arrivare all’eliminazione fisica di un
nemico esterno (come può essere un magistrato), cerca di screditarlo. Questa
tecnica viene puntualmente attuata contro di Lui: prima i veleni del palazzo di
Giustizia di Palermo, con le lettere del corvo, poi il fallito attentato del
giugno del 1989 che viene usato per screditare il magistrato. Si arriva infatti
a sostenere che esso non era opera della mafia e che serviva come mezzo
pubblicitario. Intanto, il gruppo di magistrati che ha portato a termine gli
importanti processi di mafia -per uno di quei tanti misteri italici- è stato
sciolto. Il 13 marzo '91, Falcone viene nominato Direttore degli Affari Penali
del Ministero di Grazia e Giustizia e trasferito a Roma. L’allontanamento da
Palermo non pone però il giudice al riparo da Cosa Nostra. Il 23 maggio '92,
mentre in Parlamento si susseguono le inutili votazioni per l’elezione del
Presidente della Repubblica, Giovanni Falcone viene fatto saltare in aria
insieme alla moglie Francesca Morbillo e a tre uomini di scorta sull’autostrada
che porta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Poco tempo prima, sempre a
Palermo, era stato assassinato Salvo Lima, europarlamentare della Democrazia
Cristiana, ritenuto uno degli uomini più potenti della Sicilia e personaggio di
spicco degli atti della Commissione Antimafia. Le indagini dei magistrati
palermitani sull’uccisione dell’europarlamentare e le confessioni di alcuni
mafiosi pentiti sembrano oggi avere confermato quello che tutti sapevano: Salvo
Lima era il difensore politico della mafia ed esercitava il suo compito
appoggiandosi a Giulio Andreotti. Il giudice Giuseppe Ayala ha detto che Cosa
Nostra non lascia niente al caso. La morte di Lima avrebbe quindi dovuto far
capire che all’interno dell’organizzazione si stava giocando (e ancora si sta
giocando) una partita importante, ma avrebbe -ancor di più- dovuto fare
riflettere su un dato importantissimo: se Lima è stato eliminato vuol dire che
ci sono già altri politici di non minore importanza e potere pronti a
sostituirlo nelle sue funzioni. Lo Stato non è però riuscito a salvare Falcone.
Morto Falcone, chiunque avrebbe dovuto capire che il bersaglio immediatamente
successivo sarebbe stato Paolo Borsellino. Puntualmente, due mesi dopo la
strage di Capaci, anche Borsellino salta in aria insieme agli uomini della sua
scorta. Se l’attentato a Falcone era difficile da prevenire -nelle condizioni
attuali-, quello contro Borsellino era talmente ovvio e prevedibile, da manuale,
che lascia increduli per come si è potuto attuare. Scontato l’obiettivo: il
Magistrato; possibilissimo come obiettivo -anche a prescindere dalla presenza
dello stesso- il luogo dell’attentato: il palazzo in cui abita la madre del
giudice, lasciato senza alcuna protezione; da manuale la tecnica usata: un
auto-bomba; tecnica già usata per assassinare il giudice Chinnici. Perché,
allora, chi doveva non ha preso le necessarie precauzioni? Aveva detto Falcone:
«Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo
grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché
si è privi di sostegno». Anche Falcone e Borsellino erano dunque stati lasciati
soli. Come Dalla Chiesa. Ma anche Falcone e Borsellino erano diventati troppo
potenti. Ed infatti uno dei magistrati che con Falcone e Borsellino aveva
lavorato a lungo -Giuseppe Ayala-, subito dopo la strage, ha detto: «Dire mafia
è troppo poco per spiegare questa strage». La morte di Falcone, e poi quella di
Borsellino, assumono un significato politico. Perché, per esempio, per
trasferire i mafiosi dall’Ucciardone (il carcere di Palermo) si è aspettato che
fossero assassinati i due magistrati più impegnati nella lotta a Cosa Nostra; i
due magistrati che più di ogni altro avevano capito la mafia. E se,
ufficialmente, Buscetta aveva detto a Falcone che non avrebbe parlato dei
rapporti tra mafia e politici, perché le cose che avrebbe potuto dire erano tali
che avrebbero reso incredibili tutte le altre accuse, è possibile che lo stesso
non avesse lanciato ai giudici di cui si fidava almeno un segnale su quali erano
i politici da cui avrebbero dovuto guardarsi maggiormente? Il giudice Caponetto
ha confermato, in un intervista televisiva, che Buscetta, fuori verbale, aveva
fatto il nome di Salvo Lima. Adesso, secondo un settimanale, viene fuori che lo
stesso Buscetta avrebbe fatto a Falcone i nomi dei politici che ordinavano di
uccidere, proprio pochi giorni prima della morte del magistrato. La morte di
Falcone e Borsellino suscita nuove ondate di emozione e di rabbia in tutta
Italia e, come al solito, il Governo cerca di varare misure che plachino
l’opinione pubblica: i mafiosi dell’Ucciardone vengono trasferiti e in Sicilia
arriva l’esercito. Ma la mafia non è un problema di ordine pubblico. Il giudice
Ayala, in una trasmissione televisiva, ha detto che la mafia non si combatte
mandando per le strade di Palermo ragazzi di vent’anni con il fucile in mano e
che i provvedimenti del governo sono solo di facciata e non serviranno a
combattere quella mafia che è cresciuta grazie ai governi che si sono succeduti
e di cui quello attuale prosegue la politica. Certo la presenza di militari fa
diminuire scippi, furti e rapine; ma non si sconfigge la mafia se non c’è una
volontà politica per farlo. Diceva Giovanni Falcone: «Diversi anni fa, a Palermo
fu consumato uno degli ormai tanti omicidi eccellenti. Mentre ero immerso in
amare riflessioni squillò il telefono. Era l’Alto commissario per la lotta alla
mafia del tempo: "E ora cosa possiamo inventare per placare l’allarme del
Paese?" mi chiese». L’Alto commissario non si preoccupava tanto di combattere la
mafia, ma di cosa inventare per placare l’opinione pubblica. Questo ed altri
episodi danno, secondo Falcone, il quadro realistico dell’impegno dello Stato
nella lotta alla criminalità organizzata. Emotivo, episodico, fluttuante.
Motivato solo dalla impressione suscitata da un crimine o dall’effetto che una
particolare iniziativa governativa può esercitare sull’opinione pubblica. É
quello che sta scritto anche in un messaggio fatto pervenire al giudice
Caponetto -padre del pool antimafia di cui avevano fatto parte Falcone e
Borsellino- da un vecchio compagno di scuola: «... I vari Martelli non mirano a
bonificare né a migliorare, pensano solo al proprio interesse, gli basta una
mossa indovinata per l’opinione pubblica. Anche perché non è gente cui preme che
la verità venga tutta a galla o sia perseguita". Ed infatti Cosa Nostra ha
continuato a colpire. Si è salvato per miracolo un collaboratore di Borsellino
e, proprio a Palermo, è stato tranquillamente assassinato uno dei potentissimi
in odore di mafia: Ignazio Salvo. Ma questo Stato può combattere davvero e fino
in fondo la mafia?
Francesco Mastroianni |