DICONO

"Tabularasa", n° 4 Anno IV, 30 Luglio 1995

 

Beppe Niccolai

Vito Errico

 

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«Niccolai l'ho conosciuto molti anni dopo, e ancora ricordava con commozione la sorte di Serantini, l'anarchico morto per aver cercato di togliergli la parola»

Giampiero Mughini: "Compagni, addio", Mondadori , 1987

 

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Qui, nel mio Sud sonnacchioso e assolato, ci sono i rimasugli delle vecchie baronie. Son esempi viventi d'un tempo che non sembra mai esistito. Loro ricordano com'erano, nei discorsi che fanno ai figli di quelle classi a loro assoggettate dalle nefandezze del tempo e che oggi occupano in società i posti che «allora» erano appannaggio esclusivo del ceto alto. Sono patetici ma la superbia vive ancora, pur nella miseria del loro esistere. Saloni agghindati, luci vivide, vesti fruscianti di trine, sciabole e feluche: ombre del passato. Pur tuttavia rifugio in quel che fu, a giustificare a sé stessi la povertà del momento. Sanno d'esser poveri, d'anima, d'idee, di spirito, di laboriosità. Dicono però d'esser stati ricchi. Fanno così anche da quelle parti che il vento politico «nuovo» ha cristallizzato a destra. Sono poveri d'anima, d'idee, di spirito, di laboriosità. Peggio, hanno fatto battere sul banco d'asta senza batter ciglio, la loro storia, le loro origini, il patrimonio, ricco e povero al contempo e non rimane altro da compiere che «il rifugio in quel che fu». Compiendo un'ulteriore nefandezza.

Quel ch'è stato, alla luce di quel ch'è, è «altro». Beppe Niccolai non è più d'alcuno. Dimenticarlo sulle pagine d'una pubblicistica grondante sozzura capitalistica e grasso di conservazione è quantità minimale d'un briciolo di saper essere. Loro, no. Vogliono mescolare carne di primo taglio alle frattaglie decomposte delle loro cucine sapide di rancido e scodellare nauseabondi intrugli, salati di disgusto. Possiamo impedirlo? Non potremmo né s'ha voglia. Se Beppe non appartiene ad alcuno, non è neanche «nostro». Però possiamo «sentirlo» in noi per un motivo semplicissimo: quando la sofferenza lo coglieva nel profondo del suo intimo per quella politica sentita come «quella cosa per cui uno si occupa dei guai degli altri come se fossero propri, e a volte ne muore», noi eravamo con lui. Altri, che oggi occupano la ribalta di questa cosa in cui «i guai degli altri» non esistono, facevano schioccare lo staffile.

È vero che il totalitarismo partitocratico, come Beppe sosteneva, ha prodotto il professionismo della politica al posto della militanza, il servilismo al capo al posto dell'impegno morale, la burocratizzazione, la corte e i cortigiani che, anziché le idee, si strusciano ai mandarini di vertice. È vero che quel surrogato della politica grida «non credo più in nulla e vado d'accordo con tutti». Ma Beppe non andava d'accordo con tutti perché credeva in qualcosa. E noi lo seguivamo. Noi, non gli altri. Quale criminosa bestemmia voler arruolare, come un volgare soldato di ventura, Beppe nei ranghi della destra. No, non c'è mai stato da quelle lande dove conservazione reazionaria e cipiglio padronale l'han fatta da potenti. Lui, il recluso di Hereford, il notista de "Il Pelo nell'uovo" stampato fra i reticolati del Texas, era un «sociale».

E non apriamo la solita stupida discussione. La destra sociale è una contraddizione in termini. La socialità di Beppe era comunità, sacrificio di sé in bene d'altri. Se n'andò in Africa, leticando con Buffarini Guidi, abbandonando il Corso Allievi Ufficiali e lasciando quella Divisione Folgore in formazione a Tarquinia, nei cui ranghi era corso primo fra i volontari universitari italiani, insieme a Luigi Bertini e Luciano Ciucci. Anche l'andare in guerra era ritenuto bisogno primario della Nazione, sacrificio di sé, quindi, in pro d'Altro. A destra non si fa nemmeno il servizio militare in tempo di pace e quando capita, ci si fa raccomandare dai capi dei servizi segreti per accasermarsi sotto casa. Che facciamo, paragoniamo nani e giganti?

Come si fa ad affermare, sulle pagine d'un giornale grondante sugna ipocrita e reazionaria, che quegli interrogativi degli anni terribili, i perché della nostra generazione aizzata all'odio, mandata al macello in nome d'interessi specifici e a noi estranei, nemmeno oggi, a più di vent'anni di distanza, hanno trovato una risposta compiuta? Ma dove vive questa gente? Gli interessi erano quelli americani, di cui noi, i ragazzi degli Anni Settanta, siamo stati inconsapevoli strumenti, manipolati da una classe dirigente, malata di «doppiezza». La teoria degli opposti estremismi trova in questo la sua giustificazione. Ad una doppiezza della sinistra, asservita agli interessi dell'Est, corrispondeva una doppiezza di destra, serva del potere a stelle e strisce. La «cultura» della guerra civile allungava su di noi i suoi tentacoli.

E Beppe Niccolai non era della partita. Giampiero Mughini, che ricorderà Beppe nel suo "Compagni, addio" scriverà su "il Giornale": «Niccolai era una delle figure più adamantine che io abbia mai incontrato, un italiano figlio di una guerra civile che non amava nemmeno un po', un intellettuale e un dirigente politico che metteva sempre la sua coscienza al primo posto». La sua coscienza, non la carica, l'orpello, il pennacchio, lo scranno, la carriera, le correnti, i capiclan, i boss. Beppe era «uno che aveva in uggia l'americanismo, il mondo delle quantità materiali, la sfrenatezza consumistica». Non sarebbe mai andato a genuflettersi nella City di Londra, la sua anima sociale, la sua coscienza non l'avrebbero permesso. Non sarebbe andato nemmeno a Fiuggi. Le sue reni erano salde sebbene avessero tentato in tanti di spezzargliele. E quando la destra trescava con i servizi segreti e l'Ufficio Affari Riservati del ministero degli Interni, e i soldati italiani morivano nell'«Argo 16», uccisi dalle mine israeliane, la cui verità veniva affogata «bevendoci sopra», Niccolai era stato l'unico parlamentare a chiedere in un'interrogazione «quale attendibilità aveva la notizia secondo la quale «Argo 16» [...] era caduto per atto di sabotaggio».

Quando Mirko Tremaglia, ospite di riguardo nell'Ambasciata di chi vuol giocare con i funghi atomici nel Cinquantennio dell'Olocausto di Hiroshima, scrisse al Colonnello North quella famosa lettera, che sporcava, più che sé stesso e il suo passato, una parte copiosa d'un mondo che vedeva (e continua a vederlo!) nell'americanismo il veleno del mondo, fu Beppe a cacciargli in gola quell'ulteriore vendita abusiva che si faceva delle nostre anime.

Quando Beppe s'accinge a combattere seriamente la mafia, pur stando in un mondo contaminato da «voscenze», i cui rampolli s'arrampicavano nel Regno del Drago Bianco, Sciascia s'inchina e incede nell'encomio. È il momento in cui l'autorità diventa rispettabile perché incontaminatamente autorevole. Con Beppe Niccolai lo Stato cessa per un attimo d'essere il partito della mafia. Con lui la democrazia esce un momento dalla definizione forte che ne aveva dato George Sorel: somiglianza all'Antico Regime, «invece di cortigiani noi possediamo dei parlamentari che sono ignoranti e manovrano come i loro predecessori; l'onestà non è cresciuta in questo mondo di potenti parassiti».

Beppe Niccolai ci ha riscattati tutti: inconsapevoli e certi, eroi e infingardi, miseri e nobili. Quel suo volere chiudere le scissioni del '14 è ritenuto dal sego reazionario una grande ingenuità, tipica della sua generosità. Beh! non è proprio così. Ci sono, in giro per le contrade italiche, uomini che quell'operazione l'hanno compiuta. Nella propria coscienza e a dispetto della storia e dei suoi satrapi. Noi conosciamo la sentenza trinciata. Ma facciamo nostra quella frase di Romano Bilenchi rivolta a Niccolai: «Noi non siamo traditor, bensì traditi». Beppe ha seminato e i semi sono nelle zolle. I germogli spunteranno.

Cos'è quella dichiarazione di D'Alema a proposito del nemico non più tale e perché tale, da non demonizzare? Come diceva colui che abbiamo amato in tanti e odiato in pochi, quando scoprimmo che le sue stimmate erano posticce? Diceva: «Quando vedrai la tua verità fiorire sulle labbra del tuo nemico, devi gioire; perché questo è il segno della vittoria, per te e per tutti i credenti». È il segno della nostra vittoria.

Noi, al «nemico», non pensavamo più già quando ci guardavamo le piaghe della nostra anima, più doloranti di quelle dei nostri corpi, di ritorno dalle tenebre in cui ci avevano cacciato negli Anni di Piombo. Beppe Niccolai si consumerà per Franco Serantini, quel ragazzo «rosso», ucciso sul selciato pisano in un giorno in cui «caschi il mondo su un fico, Niccolai non parlerà». Calabresi verserà il suo sangue. «Di conseguenza», s'affrettarono a teorizzare. Nello struggimento di Beppe c'è tutta la sua religiosità, la sua pietà per i morti. Pietà, però, che non trascura la razionalità. Beppe, provocatoriamente, si chiederà: «Se volontà c'era di vendicare, con il sangue, ciò che nel sangue era finito a Pisa, perché non uccidere chi scrive? Era facilissimo; certo molto più facile che assassinare Calabresi». Il quesito era racchiuso in una lettera, inviata al giornale di Malgieri ("Il Secolo d’Italia", N.d.R.), che si guardò bene dal pubblicare. Lo fece "La Nazione", nell'edizione del 17 agosto 1988. Da quelle altre lande, la solita censura, il solito Tribunale Speciale. Il «deferimento» come metodo di discussione politica. A Roma come a Mosca. Quanta differenza con le Corti d'Assise Speciali? Nessuna, se si esclude l'inesistenza del plotone d'esecuzione. Ma la morte arriva per vie recondite. Si può uccidere un uomo anche continuando a tenerlo in vita.

Quando Beppe se n'andò, dietro il suo corpo inanimato e la sua anima finalmente libera, i corvi e le gazze. Io non c'ero. Lo piansi qui, nella dolcezza di quell'autunno levantino. Fu una scelta. Per non mescolarmi ai corvi. Che ripresero a volare, ad emettere i loro suoni strozzati, alla ricerca di ciò che hanno irrimediabilmente perduto. Si potrebbe redarguirli. Ma a che serve? Essi hanno la natura dalla loro. Son stati creati per violare i cadaveri e succhiarne il sangue freddo e rappreso. E contro la natura s'ha poco da combattere.

 

Vito Errico