da "Noi rivoluzionari", Abalberto Baldoni,
edizioni "Settimo Sigillo", 1990

 

Prefazione a "Noi rivoluzionari"

Lettera - Prefazione

Beppe Niccolai


Caro Baldoni, consentimi di parlarti così, attraverso una lettera prefazione. Mi riesce più facile, anche perché il discorso si fa familiare, affettuoso, scorrevole.
Il tuo libro, nel quarantennio di vita del MSI, è la prima manifestazione di un tentativo, tutt'altro che facile, in mancanza di riferimenti documentali, introvabili, di scrivere uno spaccato della nostra storia, al di fuori degli steccati reducisti, nostalgici, retorici. Voglio dire che al di là della ricostruzione, che in alcuni tratti può apparire manchevole o comunque non completa, è un libro, il tuo, carico di improvvisi "bagliori", di rapidi "lampi" che illuminano la lunga notte delle nostre vicende, ancora avvolte nel fagotto di parole musicalmente suadenti ma del tutto incapaci di farci intendere che cosa siamo stati in questo quarantennio, che cosa siamo diventati, premessa questa indispensabile per rispondere che cosa vogliamo essere domani.


Ho detto bagliori, lampi improvvisi. Lo sono, in casa nostra, quando tu affronti la vicenda di Valle Giulia. È una vicenda che tornerà, come il motivo di una sinfonia, in tutto il tuo libro. Ti fa male, soffri, lo avverto, quando ne parli e sono coraggiose le tue parole. Nei giorni delle sommosse romane di Valle Giulia e di Piazzale Minerva, tu scrivi, «per il MSI calarono le tenebre. Perché il MSI, con le sue iniziative discutibili, era divenuto, per la gran massa dei giovani, la ruota di scorta del regime».
La tua è un 'analisi cruda. Un patrimonio, quello giovanile missino ("Rinascita", la rivista diretta da Palmiro Togliatti, lo valutava nel marzo del 1952, in 180.000 aderenti dai 16 ai 21 anni), che andava in quel 16 marzo 1968, in fumo. E per anni la destra giovane, caro Baldoni, sparirà dall'Università e dalle scuole della Repubblica. Cioè veniva sconfitta sul terreno che era sempre stato suo e che avrebbe potuto essere sempre suo. Una sconfitta con effetti devastanti; e tu, caro Adalberto, con l'esposizione dei fatti, ce la dipani sotto i nostri occhi. Perché, non solo quella "scelta" sciagurata di difendere, contro i giovani, Governo e Sistema, riportava la partitocrazia là dove era stata cacciata, ma riattizzando i vecchi rancori della guerra civile, le vecchie contrapposizioni fascismo-antifascismo, dava avvio, nelle fila della destra giovane, a quella diaspora che doveva portare tanti suoi giovani, o al disimpegno politico, o, ahimè, alla scelta disperata della lotta armata. Dolore, sangue.
Fatto singolare, caro Baldoni: una vicenda che ha marcato, come il tuo libro testimonia, la vita del MSI, non è oggetto di analisi da parte della classe politica di vertice del MSI.
Dal IX (1970) al XIV (1984) Congresso nazionale del MSI, la vicenda di "Valle Giulia" non è nemmeno sfiorata. Rimossa dalla memoria. Come fatto accidentale, marginale, un incidente di percorso. Non se ne discute. Le cose che ci hanno fatto male si rinchiudono nell'armadio, non sono oggetto di analisi serie, approfondite, anche dolorose, ma sempre indispensabili per sistemare il sestante del proprio andare politico; ma soprattutto per migliorarci, nel collettivo esame di coscienza.


Si snodano, nel tuo racconto, le vicende del luglio 1960, il VII Congresso di Roma del 1963, quello di Pescara del 1965 (più di cento delegati abbandonarono i lavori!), tappe dolorose della nostra vicenda politica, tappe che ci hanno lasciato addosso segni difficilmente rimarginabili; ebbene tu, nell'esporli, nel raccontarli, nel fare nomi e cognomi, non fai che ribadire una costante che, nella vita della destra, si trascinerà fino ai giorni nostri: quella cioè di rimuovere dalla memoria tutto ciò che poteva risultare fastidioso, di rinchiudere nell'armadio tutto ciò che avrebbe dovuto portarci ad un approfondito esame di coscienza. Con il risultato che, preoccupati soltanto della sopravvivenza elettorale (e non fu questa la molla infausta che ci portò alla sconfitta il 16 marzo 1968 sul piazzale della Minerva dell'università di Roma?), ci siamo amministrati con le "occasioni", pescate di volta in volta (il fronte articolato anticomunista, la costituente di destra, la pena di morte, l'ammiraglio Birindelli, i bottegai, l'abusivismo, e via dicendo), senza incidere profondamente, pur avendone tutti i titoli, nella vita politica italiana.


Prendo la data di partenza del tuo racconto: 1960, e precisamente il luglio 1960, data di svolta. Congresso di Genova: ci facemmo sorprendere. In maniera spensierata. Credevamo tutti, andando a Genova, di avere risolto il problema: ci inserivamo; reggevamo già a Roma, da soli, il governo Tambroni. E lo facemmo, dopo avere costituito, pochi mesi prima, in Sicilia, il governo con i comunisti, esserci fatti poi promotori della caduta di quel governo, ed essere ritornati, trionfanti, in grembo di Santa madre democrazia cristiana.
Ce la fecero pagare. Vai a rileggere le nostre giustificazioni di allora. Tutte addebitabili ai "cattivi", ai "rossi", ai tremebondi DC. Sono passati da allora quasi trenta anni e, in casa nostra, si devono ancora esaminare le ragioni vere di quella sconfitta, di cui dovevamo sentire gli effetti fino ai giorni nostri.


Il tuo libro, vedi, ha il pregio di farci pensare. È un merito grande, sopratutto perché ci porta dritti ad una considerazione di fondo: "dentro" di noi c'è il materiale per costruire, per incidere, per lasciare il segno, per tessere una prospettiva di cambiamento. Però la condizione per incidere è riprendere un'analisi storica del fascismo da cui proveniamo, della Repubblica in cui viviamo. Non ci si può limitare a "contare i voti". Ci si deve chiedere perché, nei primi tre lustri del dopoguerra, all'epoca in cui il centrismo combatteva e discriminava gli "opposti estremismi", la nostra posizione di missini era relativamente migliore di quella dei comunisti. E perché quella posizione si è rovesciata. Nel tuo libro, caro Baldoni, questa vicenda è raccontata.
Quando snodi i fatti viene fuori l'accorto, metodico lavoro politico dei comunisti nella loro strategia a lungo termine del dialogo (che è cosa diversa dall'intrallazzo), della conquista di nuovi strati sociali e dell'intelligenza, dell'attenzione portata al mondo della cultura (bello il capitolo che hai voluto dedicare a Pier Paolo Pasolini!), delle arti, dello spettacolo. In casa nostra questo confronto di metodo non si è mai posto e la stessa lezione culturale del cosiddetto "gramscismo di destra", cioè della graduale conquista della società attraverso la cultura, vi sta penetrando -come tu stesso scrivi- come elemento di riflessione suggerito dai primi successi esterni di apertura e dialogo ottenuti dai giovani intellettuali della nuova cultura di destra.


La cultura, il disegno culturale. Il 5 febbraio 1977, Armando Plebe, in un'intervista a Giampaolo Pansa del "Corriere della Sera", alla domanda che cosa poteva dire dell'esperienza vissuta nel MSI, quale responsabile del settore cultura, così risponde: «... mi dettero assoluta carta bianca. Nel MSI c'era un attesa messianica dell'arrivo della cultura. E il mio arrivo è stato l'arrivo della cultura con la "C" maiuscola, e di fatto mi hanno trattato con i guanti. Io ho provato a vedere che tipo di cultura si poteva mettere su a destra. Facevo dei tentativi, erano acrobazie; di intellettuali non se ne raccatava nemmeno uno».
È una testimonianza che provoca dolore, ma sarebbe un errore rimuoverla, ricorrendo alla frettolosa analisi di un transfuga. Facciamo una prima constatazione che è rivolta sopratutto a coloro che, come chi scrive, hanno conosciuto il MSI dei primi tempi, quando, in quell'ambiente, non mancavano certo le biblioteche. C'erano libri e l'indottrinamento di Evola, ma anche quelli di Giovanni Gentile. C'era sullo sfondo il contrastante lascito poetico di D'Annunzio e di Marinetti, la pittura di Soffici e Sironi; il teatro di Pirandello, la musica di Mascagni; i lauri accademici di Guglielmo Marconi; l'impronta delle grandi riviste fiorentine del primo '900 con il vivace ingegno di Papini, la seminagione di Pareto, di Sorel, di Rensi, di Spengler; poi la riscoperta dei francesi da Peguy, a Barrés, a Maurras, a Drieu La Rochelle. C'erano, vivi accanto a noi, Carlo Costamagna, Gioacchino Volpe, un linguista come Antonio Pagliaro; c'erano Leo Longanesi, Giuseppe Prezzolini. Ricordo almeno tre rettori di università impegnati in manifestazioni di destra: De Francisci, Papi, Menotti De Francesco. Potrei continuare a snocciolare nomi che valgono quanto e più di Plebe; eppure quell'affermazione del filosofo marxista, che sostiene di aver portato a destra la cultura, non è solo frutto della sua vanità. È doveroso ammetterlo, in un altrettanto generoso esame di coscienza collettivo: siamo stati tutti responsabili di aver fatto credere ad Armando Plebe che solo lui, stregone bianco, era stato capace di portare la cultura nella nostra tribù. Perché?
Perché, nel defluire del tempo, ci era venuta a mancare la capacità di trasmettere alle generazioni più giovani la creatività dei personaggi che, sommariamente, ho citato e che, allora, riempivano le nostre menti, affollandole; nutrivano i nostri studi.
Non abbiamo saputo valorizzare, stimolare, sorreggere le intelligenze che possedevamo. E si sono disperse. E disperse in una diaspora dolorosa; era fatale che ci dovesse capitare di essere indottrinati da un brillante ma sostanzialmente modesto pensatore radical-marxista. L'avere, non dico dissipato, ma certo trascurato questo patrimonio culturale inestimabile, non poteva non riversarsi, con effetti non felici, nel politico.


Ed ecco il tuo libro, caro Adalberto, che mette il dito sulla piaga. Una piaga, quando in particolare tu racconti le vicende del terrorismo, le sedi incendiate, i ragazzi ammazzati, dolore e morte sparsi dovunque e voi, giovani dirigenti, che avevate responsabilità di comando, che comprendevano il dramma, che tentavate, in una lotta impari, di dare sfogo civile a quelle febbrate ideologiche senza più freni; una piaga, dicevo, che marcherà la vostra e la nostra vita.
Ma voglio terminare queste mie note, che possono apparire pessimistiche e non lo sono, con il rendere omaggio, virile e affettuoso insieme, a tutti quei giovani che, fra difficoltà di ogni genere e spesso lasciati soli, a far da sé, a difendersi da mille insidie, hanno saputo conservare intatto, con la passione civile della politica, l'amore di interrogarsi, l'amore per i libri. E hanno continuato a frugare in sé, a cercare, con una voglia disperata di conoscere, di sapere, di capire. E ciò anche in mezzo al dolore, alla furia della violenza che si tingeva di sangue.
È "questo" che ha salvato il partito: i libri dei "disperati", quando i libri dei "tiepidi" come Plebe si dimostrarono devianti. I libri radice, i libri memoria. Quelle nostre povere, disadorne librerie! Quell'artigianale organizzarsi fra i ragazzi, con quei libri che davano speranza, che ci consentivano di tenere.
Il tuo, caro Adalberto, si aggiunge a quelli antichi. I tempi sono più sereni, ma non meno impegnativi. E in atto il confronto civile, il confronto di idee. Siamo chiamati a costruire, dopo le febbrate del '68 e del '77, il progetto per l'Italia del 2000. Occorre misurarci. Le tensioni sembrano spente. I nuovi feticci egoistico-mondani sembrano trionfare. Se devo essere sincero, caro Adalberto, a questi giovani, pieni di ragionevolezza, preferisco gli inquieti di ieri. Con gli immoti ed i pigri, a mio parere, non si fabbrica nulla. Ma io ritengo che i pensieri caldi torneranno a scaldarci.
Il tuo libro, intanto, ci rende inquieti. Te ne ringrazio.

 

Giuseppe Niccolai

Grazie a Juri Tarlazzi che ha segnalato la prefazione e alle edizioni "Settimo Sigillo"