Caro Baldoni, consentimi di parlarti così, attraverso una lettera prefazione. Mi
riesce più facile, anche perché il discorso si fa familiare, affettuoso,
scorrevole.
Il tuo libro, nel quarantennio di vita del MSI, è la prima manifestazione di un
tentativo, tutt'altro che facile, in mancanza di riferimenti documentali,
introvabili, di scrivere uno spaccato della nostra storia, al di fuori degli
steccati reducisti, nostalgici, retorici. Voglio dire che al di là della
ricostruzione, che in alcuni tratti può apparire manchevole o comunque non
completa, è un libro, il tuo, carico di improvvisi "bagliori", di rapidi "lampi"
che illuminano la lunga notte delle nostre vicende, ancora avvolte nel fagotto
di parole musicalmente suadenti ma del tutto incapaci di farci intendere che
cosa siamo stati in questo quarantennio, che cosa siamo diventati, premessa
questa indispensabile per rispondere che cosa vogliamo essere domani.
Ho detto bagliori, lampi improvvisi. Lo sono, in casa nostra, quando tu affronti
la vicenda di Valle Giulia. È una vicenda che tornerà, come il motivo di una
sinfonia, in tutto il tuo libro. Ti fa male, soffri, lo avverto, quando ne parli
e sono coraggiose le tue parole. Nei giorni delle sommosse romane di Valle
Giulia e di Piazzale Minerva, tu scrivi, «per il MSI calarono le tenebre. Perché
il MSI, con le sue iniziative discutibili, era divenuto, per la gran massa dei
giovani, la ruota di scorta del regime».
La tua è un 'analisi cruda. Un patrimonio, quello giovanile missino
("Rinascita", la rivista diretta da Palmiro Togliatti, lo valutava nel marzo del
1952, in 180.000 aderenti dai 16 ai 21 anni), che andava in quel 16 marzo 1968,
in fumo. E per anni la destra giovane, caro Baldoni, sparirà dall'Università e
dalle scuole della Repubblica. Cioè veniva sconfitta sul terreno che era sempre
stato suo e che avrebbe potuto essere sempre suo. Una sconfitta con effetti
devastanti; e tu, caro Adalberto, con l'esposizione dei fatti, ce la dipani
sotto i nostri occhi. Perché, non solo quella "scelta" sciagurata di difendere,
contro i giovani, Governo e Sistema, riportava la partitocrazia là dove era
stata cacciata, ma riattizzando i vecchi rancori della guerra civile, le vecchie
contrapposizioni fascismo-antifascismo, dava avvio, nelle fila della destra
giovane, a quella diaspora che doveva portare tanti suoi giovani, o al
disimpegno politico, o, ahimè, alla scelta disperata della lotta armata. Dolore,
sangue.
Fatto singolare, caro Baldoni: una vicenda che ha marcato, come il tuo libro
testimonia, la vita del MSI, non è oggetto di analisi da parte della classe
politica di vertice del MSI.
Dal IX (1970) al XIV (1984) Congresso nazionale del MSI, la vicenda di "Valle
Giulia" non è nemmeno sfiorata. Rimossa dalla memoria. Come fatto accidentale,
marginale, un incidente di percorso. Non se ne discute. Le cose che ci hanno
fatto male si rinchiudono nell'armadio, non sono oggetto di analisi serie,
approfondite, anche dolorose, ma sempre indispensabili per sistemare il sestante
del proprio andare politico; ma soprattutto per migliorarci, nel collettivo
esame di coscienza.
Si snodano, nel tuo racconto, le vicende del luglio 1960, il VII Congresso di
Roma del 1963, quello di Pescara del 1965 (più di cento delegati abbandonarono i
lavori!), tappe dolorose della nostra vicenda politica, tappe che ci hanno
lasciato addosso segni difficilmente rimarginabili; ebbene tu, nell'esporli, nel
raccontarli, nel fare nomi e cognomi, non fai che ribadire una costante che,
nella vita della destra, si trascinerà fino ai giorni nostri: quella cioè di
rimuovere dalla memoria tutto ciò che poteva risultare fastidioso, di
rinchiudere nell'armadio tutto ciò che avrebbe dovuto portarci ad un
approfondito esame di coscienza. Con il risultato che, preoccupati soltanto
della sopravvivenza elettorale (e non fu questa la molla infausta che ci portò
alla sconfitta il 16 marzo 1968 sul piazzale della Minerva dell'università di
Roma?), ci siamo amministrati con le "occasioni", pescate di volta in volta (il
fronte articolato anticomunista, la costituente di destra, la pena di morte,
l'ammiraglio Birindelli, i bottegai, l'abusivismo, e via dicendo), senza
incidere profondamente, pur avendone tutti i titoli, nella vita politica
italiana.
Prendo la data di partenza del tuo racconto: 1960, e precisamente il luglio
1960, data di svolta. Congresso di Genova: ci facemmo sorprendere. In maniera
spensierata. Credevamo tutti, andando a Genova, di avere risolto il problema: ci
inserivamo; reggevamo già a Roma, da soli, il governo Tambroni. E lo facemmo,
dopo avere costituito, pochi mesi prima, in Sicilia, il governo con i comunisti,
esserci fatti poi promotori della caduta di quel governo, ed essere ritornati,
trionfanti, in grembo di Santa madre democrazia cristiana.
Ce la fecero pagare. Vai a rileggere le nostre giustificazioni di allora. Tutte
addebitabili ai "cattivi", ai "rossi", ai tremebondi DC. Sono passati da allora
quasi trenta anni e, in casa nostra, si devono ancora esaminare le ragioni vere
di quella sconfitta, di cui dovevamo sentire gli effetti fino ai giorni nostri.
Il tuo libro, vedi, ha il pregio di farci pensare. È un merito grande,
sopratutto perché ci porta dritti ad una considerazione di fondo: "dentro" di
noi c'è il materiale per costruire, per incidere, per lasciare il segno, per
tessere una prospettiva di cambiamento. Però la condizione per incidere è
riprendere un'analisi storica del fascismo da cui proveniamo, della Repubblica
in cui viviamo. Non ci si può limitare a "contare i voti". Ci si deve chiedere
perché, nei primi tre lustri del dopoguerra, all'epoca in cui il centrismo
combatteva e discriminava gli "opposti estremismi", la nostra posizione di
missini era relativamente migliore di quella dei comunisti. E perché quella
posizione si è rovesciata. Nel tuo libro, caro Baldoni, questa vicenda è
raccontata.
Quando snodi i fatti viene fuori l'accorto, metodico lavoro politico dei
comunisti nella loro strategia a lungo termine del dialogo (che è cosa diversa
dall'intrallazzo), della conquista di nuovi strati sociali e dell'intelligenza,
dell'attenzione portata al mondo della cultura (bello il capitolo che hai voluto
dedicare a Pier Paolo Pasolini!), delle arti, dello spettacolo. In casa nostra
questo confronto di metodo non si è mai posto e la stessa lezione culturale del
cosiddetto "gramscismo di destra", cioè della graduale conquista della società
attraverso la cultura, vi sta penetrando -come tu stesso scrivi- come elemento
di riflessione suggerito dai primi successi esterni di apertura e dialogo
ottenuti dai giovani intellettuali della nuova cultura di destra.
La cultura, il disegno culturale. Il 5 febbraio 1977, Armando Plebe, in
un'intervista a Giampaolo Pansa del "Corriere della Sera", alla domanda che cosa
poteva dire dell'esperienza vissuta nel MSI, quale responsabile del settore
cultura, così risponde: «... mi dettero assoluta carta bianca. Nel MSI c'era un
attesa messianica dell'arrivo della cultura. E il mio arrivo è stato l'arrivo
della cultura con la "C" maiuscola, e di fatto mi hanno trattato con i guanti.
Io ho provato a vedere che tipo di cultura si poteva mettere su a destra. Facevo
dei tentativi, erano acrobazie; di intellettuali non se ne raccatava nemmeno
uno».
È una testimonianza che provoca dolore, ma sarebbe un errore rimuoverla,
ricorrendo alla frettolosa analisi di un transfuga. Facciamo una prima
constatazione che è rivolta sopratutto a coloro che, come chi scrive, hanno
conosciuto il MSI dei primi tempi, quando, in quell'ambiente, non mancavano
certo le biblioteche. C'erano libri e l'indottrinamento di Evola, ma anche
quelli di Giovanni Gentile. C'era sullo sfondo il contrastante lascito poetico
di D'Annunzio e di Marinetti, la pittura di Soffici e Sironi; il teatro di
Pirandello, la musica di Mascagni; i lauri accademici di Guglielmo Marconi;
l'impronta delle grandi riviste fiorentine del primo '900 con il vivace ingegno
di Papini, la seminagione di Pareto, di Sorel, di Rensi, di Spengler; poi la
riscoperta dei francesi da Peguy, a Barrés, a Maurras, a Drieu La Rochelle.
C'erano, vivi accanto a noi, Carlo Costamagna, Gioacchino Volpe, un linguista
come Antonio Pagliaro; c'erano Leo Longanesi, Giuseppe Prezzolini. Ricordo
almeno tre rettori di università impegnati in manifestazioni di destra: De
Francisci, Papi, Menotti De Francesco. Potrei continuare a snocciolare nomi che
valgono quanto e più di Plebe; eppure quell'affermazione del filosofo marxista,
che sostiene di aver portato a destra la cultura, non è solo frutto della sua
vanità. È doveroso ammetterlo, in un altrettanto generoso esame di coscienza
collettivo: siamo stati tutti responsabili di aver fatto credere ad Armando
Plebe che solo lui, stregone bianco, era stato capace di portare la cultura
nella nostra tribù. Perché?
Perché, nel defluire del tempo, ci era venuta a mancare la capacità di
trasmettere alle generazioni più giovani la creatività dei personaggi che,
sommariamente, ho citato e che, allora, riempivano le nostre menti,
affollandole; nutrivano i nostri studi.
Non abbiamo saputo valorizzare, stimolare, sorreggere le intelligenze che
possedevamo. E si sono disperse. E disperse in una diaspora dolorosa; era fatale
che ci dovesse capitare di essere indottrinati da un brillante ma
sostanzialmente modesto pensatore radical-marxista. L'avere, non dico dissipato,
ma certo trascurato questo patrimonio culturale inestimabile, non poteva non
riversarsi, con effetti non felici, nel politico.
Ed ecco il tuo libro, caro Adalberto, che mette il dito sulla piaga. Una piaga,
quando in particolare tu racconti le vicende del terrorismo, le sedi incendiate,
i ragazzi ammazzati, dolore e morte sparsi dovunque e voi, giovani dirigenti,
che avevate responsabilità di comando, che comprendevano il dramma, che
tentavate, in una lotta impari, di dare sfogo civile a quelle febbrate
ideologiche senza più freni; una piaga, dicevo, che marcherà la vostra e la
nostra vita.
Ma voglio terminare queste mie note, che possono apparire pessimistiche e non lo
sono, con il rendere omaggio, virile e affettuoso insieme, a tutti quei giovani
che, fra difficoltà di ogni genere e spesso lasciati soli, a far da sé, a
difendersi da mille insidie, hanno saputo conservare intatto, con la passione
civile della politica, l'amore di interrogarsi, l'amore per i libri. E hanno
continuato a frugare in sé, a cercare, con una voglia disperata di conoscere, di
sapere, di capire. E ciò anche in mezzo al dolore, alla furia della violenza che
si tingeva di sangue.
È "questo" che ha salvato il partito: i libri dei "disperati", quando i libri
dei "tiepidi" come Plebe si dimostrarono devianti. I libri radice, i libri
memoria. Quelle nostre povere, disadorne librerie! Quell'artigianale
organizzarsi fra i ragazzi, con quei libri che davano speranza, che ci
consentivano di tenere.
Il tuo, caro Adalberto, si aggiunge a quelli antichi. I tempi sono più sereni,
ma non meno impegnativi. E in atto il confronto civile, il confronto di idee.
Siamo chiamati a costruire, dopo le febbrate del '68 e del '77, il progetto per
l'Italia del 2000. Occorre misurarci. Le tensioni sembrano spente. I nuovi
feticci egoistico-mondani sembrano trionfare. Se devo essere sincero, caro
Adalberto, a questi giovani, pieni di ragionevolezza, preferisco gli inquieti di
ieri. Con gli immoti ed i pigri, a mio parere, non si fabbrica nulla. Ma io
ritengo che i pensieri caldi torneranno a scaldarci.
Il tuo libro, intanto, ci rende inquieti. Te ne ringrazio.
Giuseppe Niccolai