DOCUMENTI

"Proposta", Anno II n° 5-6, settembre - dicembre 1987

 

 

il documento per il XV Congresso del MSI-DN
Proposta Italia

 


«... Gli Italiani di oggi che anche nelle vicende più tristi non hanno rinnegato il vincolo di fedeltà alla Patria confidano di poterla ricondurre con operosa devozione al prestigio morale e materiale di cui già godeva nel mondo. (...) Forti di questa certezza essi chiamano a raccolta tutti coloro che al di là delle diverse origini e particolari appartenenze politiche intendono superare ogni tentazione di rancore e di rivincita per riconoscersi solidamente servitori probi e fattivi della ricostruzione della Patria ...»

(1946, Appello agli Italiani)



Premessa: un partito protagonista

 

Un partito nasce e vive per realizzare un'idea. Deve quindi operare nella realtà, anche se avversa, anche se lontana dai suoi princìpi, anche se tenacemente sorda ai suoi richiami. Non deve chiudersi in un cerchio ideale e credere che il suo dovere si esaurisca nella sua coerenza, né deve abbandonarsi all'illusione che un giorno la sorte si rovescerà per incanto e gli permetterà di realizzare il suo sogno. Deve lottare giorno per giorno, e lottare per vincere, senza temere che il contatto col mondo incrini la sua fede e oscuri la sua purezza. Ma non deve smarrirsi nella realtà fino a dimenticare il pensiero originario da cui è partito per affrontarla. Non deve cedere alla pratica del compromesso spicciolo e del piccolo cabotaggio, né all'opposta tentazione di seguire le mode, di cavalcare tutte le proteste, di rincorrere le mutevoli tendenze dell'opinione pubblica. Deve vivere il presente per dominarlo e trasformarlo, non per subirlo.



Fine dell'esilio in Patria


Per un partito come il nostro, che si ispira ad una delle più alte correnti ideali del XX secolo, e nasce dall'esperienza storica saliente dell'Italia moderna, vivere il presente significa trasferirvi qualcosa che lo trascende e al tempo stesso gli appartiene, da cui non può separarsi. Questo innesto è possibile perchè il contrasto che altri artificialmente posero ed al quale anche noi per lungo tempo credemmo, nella realtà non esiste. La vita spirituale, morale, politica, sociale, economica di una nazione è un tutto unico, e si svolge in continuità, anche se talvolta per fasi alterne: è sempre la stessa nazione a viverla, ed è sempre la stessa nazione che ne riassume in sé i frutti, negativi e positivi, esaltanti o avvilenti.
Tagliare a fette la storia e l'essere di una nazione per ricavarne due Patrie non è possibile. E se è vero e resta vero che la nostra concezione spirituale della vita è opposta a quella materialistica diffusa in Oriente e in Occidente, se è vero e resta vero che il nostro concetto della Patria ne discende ed è quindi assai diverso da quello delle forze che hanno preso e tenuto il potere nel dopoguerra, non è meno vero che nella realtà italiana si intrecciano e interagiscono l'una e l'altra visione, e l'Italia d'oggi ne è il risultato. Questa Italia è la nostra Italia, la sola Italia esistente, la sola Italia che dobbiamo servire e possiamo amare.
Nessuno ha il diritto e il potere di dichiararci stranieri in Patria, così come noi non abbiamo il diritto né il potere di rinchiuderci in volontario esilio. Non possiamo crearci una Patria di sogno e rifiutare la Patria reale. Meno degli altri possiamo inventare tagli e accettare fratture, proprio perchè la nostra stessa corrente ideale -a differenza di altre- le rifiuta. Non fummo noi a definire «parentesi» l'esperienza fascista, a tentare di stralciarla dalla storia come un incidente da accantonare e dimenticare. Ma proprio perchè non siamo come furono e sono altri, non possiamo pensare ed agire come loro, e non possiamo considerare "parentesi" il quarantennio repubblicano.
Nel rivendicare integralmente il ventennio fascista come nostro specifico patrimonio ideale e retaggio storico, dobbiamo anche prendere su di noi l'esperienza seguente, di cui abbiamo avversato le linee dominanti, ma in cui abbiamo comunque vissuto e operato. E soffrirne le piaghe, le degenerazioni e le cadute, insieme agli altri italiani: è questo il passo che dobbiamo compiere per veder cadere una barriera morale e storica, che è stata innalzata da altri, ma che in buona parte ha le sue fondamenta in noi stessi.



Fine dell'isolamento politico


In termini politici, vivere il presente significa uscire dall'isolamento nel quale siamo stati costretti, ma che per lungo tempo abbiamo accettato e talvolta persino rivendicato come nostra autonoma scelta. L'estraneità ideale e storica che non abbiamo avuto la forza di superare e nella quale abbiamo finito per adagiarci, è stata presa a pretesto per escluderci dalla corrente operante e determinante della vita politica, quando i partiti antifascisti, all'inizio degli Anni '60, hanno tentato di ricostituire la loro unità, ed hanno avuto bisogno di un contraltare, di un «nemico oggettivo» da additare al popolo. Su questa base, e facendo leva su di noi come falso scopo, venne condotto il rovinoso tentativo di collettivizzare l'Italia nel ciclo delle cosiddette «riforme», prima con il Centro-sinistra, poi con la «solidarietà nazionale», infine con gli ultimi colpi di coda e con i primi pentimenti de! pentapartito.
In questo lungo, più che ventennale periodo non potevamo che tenere il ruolo di contestazione integrale che abbiamo tenuto, e dobbiamo esserne fieri. Non si tratta, dunque, di rinnegare questa fase di intransigente testimonianza ideale e di fermezza politica, né di sconfessare chi l'ha in un determinato periodo impersonata e condotta. Si tratta, semplicemente, di prendere atto che essa si è conclusa, di non perpetuarla artificialmente e volontariamente solo perchè ormai ci siamo avvezzati a viverci. Il nostro isolamento è finito di fatto con il fallimento del tentativo ai cui fini era stato concepito e imposto. Dinanzi a noi la situazione politica è in fase di movimento, in piena evoluzione, aperta a tutti i possibili sbocchi.
Non abbiamo più di fronte una coalizione, una formula, o almeno una tesi generale, un progetto politico a cui opporci. Di conseguenza, non possiamo più essere «opposizione» -nel senso pregiudiziale, permanente e "fisiologico" in cui eravamo abituati ad esserlo- anche se poi, di fatto, continuiamo a votare contro il governo in carica perchè non ne approviamo la struttura e il programma. Ogni nostro atto finisce per favorire in concreto uno dei tronconi in cui la vecchia maggioranza politica si è scissa, e che si combattono senza tregua all'interno del governo e della maggioranza numerica che lo sostiene. Inevitabilmente blocchiamo con gli uni o con gli altri (con i «laici» ed i socialisti nella questione del Golfo, con la DC per l'insegnamento religioso) e spesso determiniamo la vittoria degli uni sugli altri, come avvenne in primavera quando il nostro peso fece prevalere la tesi delle elezioni anticipate contro quella della celebrazione dei referendum.
Estraniarci dalla contesa non ci è più possibile. Dobbiamo dunque partecipare a occhi aperti e in base a un disegno strategico, non più convergendo o divergendo (e in pratica sbandando da un lato all'altro), secondo i casi e le circostanze, e senza nemmeno valutare gli effetti e le conseguenze che provochiamo, ma coordinando ogni mossa verso un obiettivo fissato in partenza, e coerentemente perseguito attraverso ogni singola fase.
In questa fase, il fine dell'azione politica non può essere che quello di creare un nuovo polo di attrazione e di aggregazione di forze e di consensi. Questo polo deve contrastare innanzitutto il progetto demitiano di trasferire il potere reale dai centri operativi politici ai grandi potentati economici, svuotando la politica stessa di ogni contenuto. Dall'altro lato deve invece opporsi al tentativo craxiano di costruire una nuova centralità, appropriandosi della collocazione tradizionalmente occupata dalla DC, e approfittando della crisi del PCI e della sua rassegnata rinunzia a ideare e condurre una autonoma linea politica. Inserendosi tra questi due poli si può creare un grande spazio, ove raccogliere gli italiani che non sono democristiani e neppure di sinistra, ai quali dobbiamo offrire la possibilità di votarci senza sentirsi né confessionali né superati.



Tattica e compagni di strada


Sorge naturalmente, a questo punto, il problema della via da seguire e delle scelte concrete da compiere. Deve essere ben chiaro, innanzitutto, che l'obiettivo strategico non va modificato, e resta quello dell'alternativa al sistema, così come venne tracciata nei precedenti congressi. Nella mutata situazione, essa va tuttavia perseguita non più attraverso un urto frontale -non più possibile perchè, come si è visto, manca il fronte unitario contro cui urtare- ma attraverso un'azione manovrata che faccia presa sulle fratture, sulle contese e sulle rivalità altrui, e cerchi di volta in volta i più opportuni punti di appoggio.
In questa prospettiva, naturalmente, non c'è posto per orientamenti fissi e immodificabili, per accertamenti preventivi o per rapporti preferenziali. Ogni scelta deve essere valutata solo per la sua aderenza al disegno strategico e per il vantaggio tattico che ne può derivare. Nella situazione attuale, come si presenta all'inizio della decima legislatura, si può tuttavia affermare, a titolo indicativo, che il principale ostacolo da rimuovere appare quello del potere preponderante che la DC continua ad esercitare dal centro dello schieramento partitico, malgrado le molte disavventure e la continua perdita di prestigio. Poiché è nostro interesse eliminare ogni posizione "egemonica", un'attenzione verso l'area laico-socialista si presenta come un orientamento opportuno, anche tenendo conto del ritmo di movimento e di evoluzione che Craxi ha cercato di imprimere alla sua azione politica, e delle aperture che ha più volte accennato nei nostri confronti. Non si presenta, però, come una scelta di campo che ci leghi a un indirizzo e ci precluda altre strade, ma solo come la soluzione che le circostanze oggi consigliano, e che mutate condizioni potrebbero rovesciare domani.
L'agilità e la sicurezza con cui ci muoveremo su questo nuovo terreno, dipenderanno strettamente dalla fermezza con la quale resteremo ancorati ai nostri princìpi. L'intransigenza è facile quando si vive al bando, non si hanno comunicazioni col mondo esterno, non si accettano o si subiscono vicinanze. È più facile, ma è anche meno necessario, perchè il recinto che delimita e chiude al tempo stesso, protegge dalle tentazioni e preserva da ogni pericoloso contagio. Ma quando si cammina all'aperto, l'intransigenza è insieme più difficile e più necessaria. Perchè quando non si è ben sicuri di quel che si è, la coscienza della propria natura si può attenuare e dissolvere. E allora, le scelte contingenti si possono scambiare per orientamenti stabili o definitivi, per affinità ideali o addirittura per ascendenze storiche. In queste condizioni, è chiaro, non si potrebbe accennare la più cauta operazione, senza rischiare di perdere l'orientamento. La fragilità interna può dunque condannare all'immobilismo, mentre uno spirito saldo e un coerente pensiero, sono le sicure premesse per le mosse più ardite.



La Patria europea


La coscienza dell'unità ideale e dell'inscindibilità dell'esperienza storica devono ispirare anche la nostra presenza e la nostra iniziativa nell'Europa e nel mondo. Come volemmo un'Italia diversa da quella in cui oggi viviamo, così difendemmo un'Europa diversa da quella che poi è nata dalle macerie della guerra. Ma come esiste una sola Patria italiana, così esiste una sola Patria europea.
Noi non possiamo condividere il livello utilitaristico e mercantilistico sul quale la vita degli organismi europei si svolge, e non ne approviamo le strutture politiche, ispirate ad un parlamentarismo sul quale finiscono per prevalere da un lato l'inconcludenza, e dall'altro le diramazioni e soggezioni partitiche provenienti dai diversi Paesi. Né possiamo accettare la passività con la quale l'Europa comunitaria si adatta ad una parte di secondo piano nel mondo, e di sostanziale subalternità verso l'alleato americano nel quadro dell'Occidente.
Sono divergenze di fondo, simili a quelle che avvertiamo nei confronti dell'Italia d'oggi. Ma come non ci sentiamo stranieri in Italia, così non ci sentiamo stranieri in Europa. La nostra azione e la nostra lotta si svolgono in questa Europa che è la sola esistente, la sola reale: la nostra Europa. Nel rilevare le sue debolezze e le sue carenze, dobbiamo dunque operare per aiutarla a vincerle. Dobbiamo spingerla a ritrovare il senso della sua autonoma personalità, a risvegliare la sua forza latente, a rivendicare la pienezza della sua indipendenza, a riscattarsi dalla tutela americana in cui si è adagiata, a puntare verso il primato nel mondo. Ma nello stesso tempo dobbiamo contrastare la sua tendenza a sostituire l'autonomia con la slealtà, la fierezza con l'ambiguità, la dignità con la mezzadria. Si diventa liberi e forti non con la riluttanza e la bassa furbizia, ma con la decisione e l'iniziativa, precedendo, stimolando e provocando, non seguendo a rimorchio e cercando a ogni passo di defilarsi e di scantonare.
E dobbiamo infine ricordare costantemente agli europei che metà del continente non è congiunta alla Patria. È nostro compito far sì che l'Europa non si adatti alla sua mutilazione, non si abitui a sentirsi integra e compiuta nei suoi confini attuali, non si dedichi felice e appagata ai suoi traffici abbandonando al loro destino cecoslovacchi e ungheresi, polacchi e tedeschi orientali. Volgere lo sguardo verso le nazioni irredente non è solo un dovere morale cui l'Europa finora unita non può sottrarsi. È anche un modo per contrastare la pressione sovietica sul continente, per metterne in discussione la legittimità, per incrinarne la forza. Ma è anche un modo -forse il solo modo possibile- per svincolarsi dall'egemonia americana, per intraprendere un'azione fuori dalla logica dei due blocchi e quindi contraria agli interessi politici e strategici degli Stati Uniti, e che tuttavia difficilmente essi potranno sconfessare e osteggiare. Gli Stati Uniti, soprattutto in questa rinnovata era della distensione e del sorriso, non possono amare l'irrendentismo europeo. Risvegliarlo e imporne la realtà, è il primo passo verso l'indipendenza.



Un mondo multipolare


Molte cose sono cambiate nel mondo nell'arco di quarant'anni. Siamo nati quando i carri armati sovietici entravano trionfanti a Berlino, siamo cresciuti mentre imperava la «guerra fredda», siamo maturati nella logica dei due blocchi: l'Ovest contro l'Est. Ma oggi il comunismo è in ritirata: non militare, certamente, ma ideologica. Tutti i suoi modelli sono entrati in crisi: la Cina con la rivoluzione denghista, il Vietnam con la fuga di massa, Cuba con le guerre mercenarie in Africa australe, la Jugoslavia con i processi per concussione. Gorbaciov stesso critica Stalin, condanna Breznev: cerca disperatamente di salvare la Russia, di farla sopravvivere come Impero alla fine del comunismo. I Paesi satelliti sono (o saranno) costretti ad adeguarsi. Dovranno cercare anch'essi di liberarsi dal fardello (divenuto troppo ingombrante) di una ideologia che si riproponeva di realizzare una società senza classi ed ha, invece, creato un sistema dove esiste l'assegnazione politico-amministrativa della classe sociale. Per la prima volta «l'eresia» nasce a Mosca: nel cuore dell'Impero.
Anche gli Stati Uniti non sono da meno. La loro economia è ancora forte, pur se insidiata dal Giappone. Attraversano, però, una crisi istituzionale e politica: il ruolo del presidente è ipotecato da periodici scandali di per sé insignificanti. Prima Nixon, poi Carter, quindi Reagan. I rapporti con l'Europa sono critici, il sistema monetario nato a Bretton Woods non esiste più: il dollaro deve fare i conti con lo yen e con il marco; quanto prima anche con la lira. La sterlina e il franco contano sempre meno. I vincitori della seconda guerra mondiale debbono trattare con i vinti.
Per riaffermare la logica di Yalta, Mosca e Washington cercano un accordo sulle «guerre stellari». Sperano di ricondurre l'Europa a «terra di nessuno»: una sorta di grande Finlandia o, peggio, di grande Svizzera, potenza economica e basta. Grande mercato senza più memoria storica, luogo di consumo e di riproduzione. Ma debbono fare i conti con il «bacino del Pacifico», con i Paesi di nuova industrializzazione. Debbono fare i conti con le aspirazioni egemoniche di nazioni giovani: il Brasile, l'India, l'Australia, l'Indonesia. Debbono fare i conti con un pianeta che non si divide più tra Est ed Ovest, tra i sostenitori dello statalismo comunista e i fautori del libero mercato; debbono fare i conti con un pianeta che non riconosce più i Paesi-guida, che è frammentato, alla ricerca di nuove aggregazioni, alla presa con una nuova rivoluzione tecnologica che sovverte le tradizionali gerarchie internazionali.
Per noi europei si aprono prospettive diverse. Parlare di alleanza con il Terzo Mondo non ha senso, perchè non esiste più il Terzo Mondo. Non esiste più come politica, non esiste come realtà: il mito di Ghandi e di Tito è finito.
Si può -e si deve- invece sviluppare una politica verso i «nuovi poli» che ne hanno riempito il vuoto: la Cina delle quattro modernizzazioni, il Giappone dell'era post-industriale, le «quattro tigri» asiatiche, i tre colossi dell'America Latina (Brasile, Messico, Argentina), le «nuove terre» dell'Oceania che potrebbero riservare nei prossimi decenni le maggiori sorprese, i Paesi del sud-est asiatico che s'avviano, come l'Indonesia, verso una fase delicata, foriera di sviluppo o di nuove forme di colonizzazione, l'India con le sue colossali contraddizioni di potenza nucleare e di povertà endemica; e poi ovviamente i Paesi arabi, pochi dei quali sono riusciti a porre le basi per sopperire alla fine dell'«oro nero», e l'Africa australe dominata da Pretoria, l'unica zona del continente nero, se si eccettuano la Nigeria e la Costa d'Avorio, ad avere un tasso di sviluppo positivo.
C'è quindi l'immenso problema del debito mondiale. Alcuni Paesi -soprattutto quelli del Centro e Sud America- sono ormai indebitati per intere generazioni. Producono solo per pagare gli interessi sui debiti. Intere nazioni sono in mano di poche banche private, il Fondo monetario internazionale fissa le regole, ma non tiene conto dei bisogni. La sofferta denuncia di Ezra Pound nell'usura diventa pienamente attuale. L'Europa non può stare a guardare: non può accettare la logica dei banchieri, né diventare uno strumento per il controllo finanziario dei Paesi in via di sviluppo.



Autonomia e potenza


Il pieno inserimento nell'unità europea non può distogliere l'Italia dai compiti autonomi e individuali che le appartengono quale grande potenza. Tale infatti l'Italia è tornata ad essere, malgrado tutto, per forza propria, senza e contro il volere dei suoi governanti, superando le resistenze e le rivalità dei suoi alleati. La sua potenza, in questa fase, si esplica solo sul piano economico, dove si è ormai collocata ai primissimi posti nel mondo. La sua inconcludenza politica, la sua ambiguità diplomatica, la sua debolezza militare creano dunque una situazione di grave squilibrio, sempre indecorosa, e spesso non priva di pericoli.
La sua forza economica, infatti, spinge l'Italia verso un ruolo di preminenza che poi non è in grado di sostenere; la carica di responsabilità da cui rifugge, le crea intorno un vuoto che dovrebbe ma non vuole e in larga misura non può riempire. Queste gravi carenze si rivelano soprattutto nell'area mediterranea, dove l'Italia -guardando ormai la Francia verso altri orizzonti- è di gran lunga la nazione più prospera e più progredita, ma non certo la più forte e -sotto certi aspetti- nemmeno la più influente e importante. Non è certo l'integrazione in Europa e la lealtà atlantica a legarle le mani, poiché all'una e soprattutto all'altra l'Italia viene meno assai spesso, con un triplo e quadruplo gioco intessuto di furbizie e di slealtà che tende penosamente a parare ì rischi cui lo squilibrio tra la sua debolezza e le sue dimensioni la espone.
Quella che manca, all'Italia, è la capacità di intuire una sua autonoma capacità di intervento e di guida, che orienti e riunisca i popoli mediterranei in un ritrovato equilibrio, nel segno di una missione e di un destino comune. Questa azione, se concepita e svolta, non contrasterebbe né con gli impegni europei, né con il rispetto dei trattati e dei patti. Sarebbe invece un valido complemento degli uni e degli altri, perchè assicurerebbe all'Europa una capacità di slancio e di penetrazione verso il sud, e darebbe all'Occidente una valida copertura sul debole e insicuro versante del Mediterraneo.
Ma per dare ai popoli che ci attorniano la percezione di una direttiva autorevole e sicura l'Italia dovrebbe anzitutto possederla in se stessa. E poiché finora tutto l'orizzonte al quale sa guardare è quello delle curve della produzione e dei livelli dei cambi, non può certo additarlo agli altri. Molti degli squilibri che affliggono il Mediterraneo e devastano il Medio Oriente derivano dal vuoto che l'Italia provoca al centro dell'area. Vuoto di potere, che solo il ritrovato senso del suo ruolo e della sua funzione potrebbe colmare.



Potere economico e potere politico


Il palese contrasto tra l'espansione della potenza economica e l'inconsistenza politica incide con maggiore evidenza sul volto che l'Italia mostra all'esterno, ma ha le sue radici all'interno dove si manifesta con effetti non meno gravi. All'origine dello squilibrio è l'intreccio tra politica ed economia, inevitabile in un sistema slegato, disorganico e approssimativo come il nostro. Priva di una norma che ne delimiti i compiti e ne regoli i rapporti -norma che non si volle istituire o restituire perchè la si ritenne non solo inutile ma deplorevolmente «fascista»- la sfera economica e la sfera politica tendono per via naturale a sopraffarsi e prevalgono l'una sull'altra a fasi alterne.
Nei primi anni del dopoguerra si ebbe l'era del centrismo, in cui le forze del rinascente capitalismo industriale strapparono al potere politico leggi apposite, strumenti operativi e interventi finanziari, finalizzati unicamente ai loro interessi e alla loro espansione. Venne poi la fase opposta del Centro-sinistra, in cui l'imprenditore divenne un nemico pubblico, l'iniziativa privata una malattia da curare, il profitto una colpa, e l'intero processo economico venne falsato e poi paralizzato dall'invadenza dei grandi Enti pubblici e dai loro bilanci trionfalmente in rosso. Segue ora, da circa dieci anni, una fase ulteriore in cui il caos e il vuoto politico sembrano aver avuto un effetto benefico e tonificante sul sistema produttivo che, non più minacciato da «riforme» e confische, ha trovato la forza di riorganizzarsi e riprendersi. È una fase di sviluppo, di produzione in ascesa e di consumi crescenti, nella quale però prevalgono l'egemonia dei grandi feudi privati, il disordinato spirito di sopraffazione dei gruppi rivali, le spericolate scalate in Borsa, le alleanze e sudditanze internazionali, la tracimazione in campo editoriale e televisivo, la nascita di grandi "trust" che assoggettano i vari settori economici e -naturalmente- la tendenza degli operatori a considerare i partiti e le relative correnti come parte del proprio «portafoglio» ed il parlamento come una dipendenza operativa, delegata ad approvare leggi di comodo.
È una fase in cui il sistema economico in ascesa sottomette e usa il potere politico in crisi. Ma è anche una fase aspramente conflittuale, in cui il potere politico attraverso la mano del Fisco sequestra più di metà del reddito nazionale per mantenere l'inefficiente struttura dirigistica e assistenziale creata nel periodo precedente e rimasta tuttora in piedi, e per alimentare il colossale sistema di clientele sul quale poggiano le sue strutture. Il potere economico, così, benché prevalente, mal sopporta e denuncia la pressione a cui è sottoposto e che gli sottrae buona parte delle sue disponibilità e risorse, mentre il potere politico reagisce con «stangate» episodiche e disarticolate che colpiscono le grandi strutture produttive ed i singoli cittadini.
Di fronte a questo disordinato incontro-scontro, la nostra posizione deve essere chiara e senza indulgenze. Noi non possiamo accettare un tipo di sviluppo in cui il potere del danaro imprime gli impulsi determinanti alle grandi correnti della vita sociale, e discende quindi a imporre limiti, disponibilità e persino comportamenti, valori e abitudini alla vita privata. Ma è altrettanto evidente che, pur sostenendo il primato della politica, in un regime in cui il potere si identifica con le oligarchie partitocratiche, noi non possiamo sostenerne la pretesa di forzare il corso dei processi economici e distorcerne a proprio beneficio le leggi.
Rifiutare l'egemonia del capitale, il primato della produzione, il dispotismo e la frenesia del consumo, non può e non deve condurci a sottovalutare la straordinaria importanza del pensiero e dell'impegno economico nella società moderna, e non ci può spingere a cadere in una sorta di antieconomicismo misticheggiante che certo non varrebbe a riabilitare la funzione politica. La potenza della collettività nazionale si raggiunge anche con il corretto impegno degli strumenti economici, nel momento in cui però ridiventi ben chiaro quali sono i fini e quali sono i mezzi. Fini politici e mezzi economici, in un rapporto di gerarchia funzionale, che i modelli anglosassoni di democrazia neocapitalistica tendono a rovesciare. Il problema è quello di ritrovare un punto di equilibrio, di ricondurre ciascuna delle due sfere alla propria naturale funzione: la politica a garantire le condizioni per uno sviluppo economico libero ma anche equo e armonico, l'economia a produrre non solo potenza per sé ma anche benessere per tutti.



La difesa degli interessi legittimi


Questi obiettivi vanno perseguiti non solo nella visione strategica che tende, anche qui, a realizzare un'«alternativa al sistema», ma anche e soprattutto nell'azione a breve e medio termine, e cioè negli interventi politici e legislativi da un lato, nella ricerca di consensi, di punti di appoggio, di vie per la penetrazione nel mondo produttivo e nel tessuto sociale dall'altro. Sul piano legislativo bisogna avversare -come in larga parte si è fatto e si fa- tutte le tendenze liberticide e pianificatrici, gli intralci alla iniziativa e alla creatività, la distrazione di risorse dai naturali flussi economici a quelli artificiosi degli interventi pubblici, l'impoverimento generale provocato dalla rapina fiscale. Ma bisogna anche -e questo avviene assai meno spesso- contrastare le tendenze monopolistiche dei grandi gruppi a danno dei produttori medi e piccoli, denunciare gli sconfinamenti e le sopraffazioni dell'alta finanza, imporre la trasparenza delle proprietà azionarie, ostacolare i grossi regali legislativi che vanno a cadere sull'uno o sull'altro potentato economico.
Questa azione si lega naturalmente alla difesa degli interessi sacrificati dall'incontro-scontro tra il grande capitale e il potere politico: commercianti, professionisti, artigiani, agricoltori, piccola e media proprietà edilizia. In questi settori sono state condotte notevoli battaglie, ma senza duraturi successi, perchè le categorie interessate tendono a non allontanarsi più del necessario dall'ambito del potere, e accettano l'aiuto di una forza di opposizione solo come deterrente per strappare il massimo dei vantaggi e poi ritornare all'ovile.
Non bisogna per questo abbandonare un campo che ci è proprio e che corrisponde ai nostri obiettivi lontani e vicini. Bisogna però da un lato incidervi sistematicamente con un'azione continuativa che non dimentichi se stessa prima ancora che la dimentichino gli altri e dall'altro immettersi in una più vasta attività di mobilitazione e di raccolta di tutte le categorie -disoccupati, sottoccupati, senza tetto, pensionati, indigenti- che la disorganicità del sistema economico lascia ai margini del processo produttivo, e la chiusura mafiosa del sistema partitico priva di ogni protezione e tutela.
Non c'è, in Italia, una maggioranza di "clienti" e di raccomandati. C'è, invece, una larghissima maggioranza che paga il prezzo dei favori politici anziché incassarlo, una maggioranza che non chiede nulla -o chiede solo le giuste, doverose prestazioni delle strutture politiche e burocratiche- ed a cui ci si può appellare in nome di una chiara, convincente rappresentazione del pubblico interesse. Viviamo in un sistema clientelare che cerca voti attraverso i piccoli favori di massa e cerca finanziamenti attraverso i grossi favori ai feudatari economici. E tuttavia, in base a una legge algebrica, è chiaro che nessun sistema di questo tipo può giungere a privilegiare più interessi di quanti ne leda. E per quanto cresca il numero di chi passa sotto le forche caudine, resta sempre una maggioranza tagliata fuori dalla logica del sistema, che può essere condotta a prendere coscienza di sé.



Verso la società post-industriale


La società nella quale dobbiamo operare è molto cambiata in questi anni. La trasformazione è tuttora in corso: cambiano gli equilibri geopolitici, la funzione delle istituzioni, il concetto di rappresentanza, i sistemi di comunicazione e di mobilitazione politica. Sono mutati in questi anni anche -e soprattutto- i temi del dibattito. Quelli tradizionali -libertà, autorità, statalismo, liberalismo, socialismo, borghesia, proletariato, proprietà, classi- sono superati, anche se non ancora scomparsi. Altri si sono affermati e mobilitano le coscienze. Riguardando le cose concrete, ma anche le grandi scelte di vita. Uno spaccato di questa evoluzione lo fornisce l'esperienza dei referendum che hanno soprattutto un valore simbolico, come dimostra il referendum sulla scala mobile: in apparenza un conflitto tra lavoratori dipendenti e gli altri, in realtà un rito di passaggio tra una società fondata sui valori del '69 e un'altra espressione del postindustriale. La nostra incapacità a comprendere in tempo la natura ben diversa dei referendum che si sono succeduti dal 1974 in poi ci ha posto in una situazione di difficoltà nello scegliere prima, nel gestire i referendum poi.
Cambia la natura stessa dei conflitti sociali. Agli scontri classici del mondo industriale -i conflitti produttivi: salari, impieghi, posti di lavoro- da circa quindici anni cominciano a sostituirsi i conflitti sull'ecologia, fonti energetiche, istruzione. Ed oggi sopravanzano i conflitti morali ed etici. Si discute sempre meno di politica economica e di riforme scolastiche. Si discute sempre più di manipolazioni genetiche, diritti dei padri, ora di religione. Si affacciano alla ribalta tematiche apparentemente non-politiche. A cominciare da quelle sui limiti della scienza: la bioetica, l'ingegneria genetica, l'inseminazione artificiale, l'eutanasia, la stessa ricerca sulle fonti energetiche. E poi, ancora, la natalità: la scomparsa di intere razze, l'esplosione demografica di altre, la «crescita zero» in Italia e in Europa, l'immigrazione selvaggia che cambia il volto delle nostre città. La preservazione delle singole culture -della specificità dei popoli- di fronte alla colonizzazione planetaria che muove da Los Angeles sull'onda dei nuovi mass-media. Il potere di quest'ultimi: immenso, incontrollabile, che non conosce frontiere. Il pericolo di nuove forme di controllo che l'evoluzione tecnologica rende possibile: manipolazione delle coscienze, ma anche programmazione genetica; creazione di una società senza segreti, quindi senza libertà. La grande questione ecologica che, come sostiene qualcuno, nasce dalla insofferenza della nostra società verso se stessa. O, meglio, dal desiderio di ricreare le proprie radici, dalla ribellione contro una società senza Storia, dal desiderio dell'Heimat, della Patria. Non a caso tutto ciò muove dalla Germania: da una società espropriata della propria storia, umiliata come nazione, sradicata dalle proprie radici.
Poi c'è il rapporto tra tecnologia e politica: la rivoluzione informatica che ha ridisegnato tutta la società, che crea nuovi ceti, nuove gerarchie internazionali. Che muta il rapporto dell'uomo con lo spazio e con il proprio ambiente di vita. Che impone il problema del tempo libero. Che sconvolge i sistemi tradizionali di informazione e scolarizzazione. Che inventa nuove «materie prime», il potere della conoscenza, del sapere sull'avere.
Ma l'era informatica non si è ancora dispiegata e già vi sono le prime avvisaglie della nuova «rivoluzione biologica». Siamo entrati nei confini della ingegneria genetica, si profetizza già l'addomesticamento dei ceppi microbici, si parla della biometallurgia, della possibilità di produrre biomasse naturali (legno, piante) o artificiali (colture di lieviti, di idrocarburi per produrre proteine), di realizzare colture biologiche (vere e proprie officine chimiche). E poi, sarà la volta del «nuovo colonizzatore»: di colui che dovrà partire alla conquista delle profondità marine e dello spazio. Sappiamo ancora poco della possibilità di realizzare su scala industriale l'acquacoltura, di sfruttare gli enormi giacimenti sottomarini; sappiamo anche meno (quasi nulla) degli spazi infiniti del cielo. Eppure le giovani generazioni di oggi dovranno vivere e governare anche l'avventura galattica della colonizzazione dello spazio.
È in questo immenso scenario, con questi interrogativi, con questi problemi da affrontare e governare, che dovremo confrontarci. Il nostro partito deve porsi il problema dei limiti dello sviluppo: dei suoi obiettivi, dei suoi strumenti, delle sue conseguenze. Deve capire, che i mutamenti vanno guidati, non subiti. Deve assumere una «cultura di governo» per non subire le scelte altrui.



Nuove elites e nuovi poveri


La rivoluzione informatica che si è dispiegata in questi anni ha profondamente cambiato il volto sociale del Paese. La classe operaia sta uscendo di scena, perde la sua omogeneità, diminuisce di anno in anno. Gli stessi operai che rimangono nelle fabbriche robotizzate non sono più semplici «avvita bulloni». Tendono a specializzarsi, ad assumere una propria professionalità.
È la stessa figura del lavoro dipendente ad essere messa in discussione, ogni prestazione lavorativa tende ad assumere un carattere semi-autonomo, in cui conta sempre meno la quantità di ore di lavoro impiegate e sempre più l'intensità e la qualità della prestazione.
Si profila all'orizzonte un nuovo lavoratore polivalente (operaio, tecnico e scienziato nello stesso tempo) che necessita ovviamente di una nuova politica della formazione e di una nuova cultura del lavoro. L'evoluzione della società smentisce la tesi marxiana del "bipolarismo classista". Non assistiamo alla concentrazione, in due vasti campi nemici, di due classi ostili l'una all'altra: la borghesia e il proletariato; ma all'espandersi dei ceti medi, ad una maggiore richiesta di professionalità e di selezione. È la stessa concezione delle classi che diventa inadeguata a comprendere l'attuale mobilità sociale. Ovunque viene rivalutato il concetto di partecipazione, sia nel campo economico che in quello politico. L'etica vincente -come dimostra l'esperienza giapponese- non è più quella conflittuale del mercato, ma quella della trattativa, della conciliazione volta ad evitare scontri che sarebbero dannosi ad entrambe le parti.
Ciò che unisce i nuovi soggetti sociali -in buona parte legati al terziario avanzato o al quaternario- è la richiesta di professionalità e di personalizzazione dei rapporti socio-economici. Su questa strada anche «vecchie professioni» -da quella medica a quella dei dirigenti statali- stanno abbandonando la logica egalitaria degli anni Sessanta. È sintomatico quello che sta accadendo nelle ferrovie italiane, dove a protestare è l'«elites» dei macchinisti, anche contro il parere dei sindacati ufficiali e dei lavoratori appartenenti ad altre qualifiche. È verso questo mondo nuovo che riscopre la «diversità» che deve orientarsi la nostra azione, per dare rappresentanza e legittimità ai nuovi soggetti sociali. In tal senso, non va sottovalutato l'esempio di metodo che ci ha fornito il fascismo. Come Mussolini raccolse attorno a sé le nuove elites culturali, politiche, professionali ed artistiche -le avanguardie di quel processo di modernizzazione- così oggi dobbiamo riuscire a rappresentare il nuovo, l'emergente, il non-garantito, dando voce a coloro che si affacciano alla ribalta della Storia.
Se il fascismo riuscì a coniugare le aspirazioni delle nuove elites, dei «produttori» in senso lato, con le delusioni dei "combattenti" per la vittoria mutilata, oggi lo sforzo deve essere quello di rappresentare da una parte i nuovi ceti frutto della rivoluzione informatica e dall'altra i «nuovi poveri», coloro che avvertono la necessità di dare un senso alla propria vita. Senza con ciò dimenticare, ovviamente, che esiste ancora una povertà antica: fatta di bisogni reali, come dimostra il rapporto Gorrieri, ma fatta anche -occorre dirlo- di bisogni indotti e artificiali, che non vanno esauditi ma svelati.



Per un nuovo modello di partito


Strumento essenziale per agire sui diversi livelli della politica interna, estera, economica e sociale è un partito efficiente. Strumento tuttora insostituibile, benché la rapida trasformazione della società abbia messo in crisi il concetto stesso -e quindi la forma strutturale- del partito, così come si è andato concretando e irrigidendo nel corso degli anni. Il nostro partito risente di questa crisi non meno degli altri, ma accusa anche i segni di un logoramento che deriva dalle sue particolari vicende, e dal troppo lungo periodo di stasi e di incuria a cui si è abbandonato.
Il problema generale e «storico» della trasformazione e dell'adeguamento della forma-partito (sempre che quella forma si possa conservare) rispetto al mutamento dei tempi, deve certamente essere posto fin da questo congresso, anche se visibilmente mancano la preparazione e gli studi preliminari per affrontarlo e risolverlo.
Si può invece risolvere immediatamente il particolare problema dell'invecchiamento e della degenerazione delle nostre strutture politico-organizzative, che devono essere liberate dalle incrostazioni che attualmente le paralizzano.
Va detto subito che questo compito deve essere affrontato direttamente dal congresso, con una radicale riforma dello Statuto da completare durante il congresso stesso, abbandonando il deleterio costume delle deleghe «aperte» al comitato centrale e agli altri organi direttivi: sia perchè questo metodo aberrante ha privato lo statuto -e cioè la Carta fondamentale del partito- del suo principale requisito che è la certezza, sia perché, come vedremo e come quasi tutti ormai riconoscono, la necessità di una riforma investe per primo il comitato centrale stesso che il congresso dovrà eleggere, e che quindi deve essere "riformato" prima del termine dei lavori.
Così come ora si presenta, la struttura del partito è un edificio mastodontico, antiquato, di tipo ottocentesco. Essa è pervasa dall'illusione che sia possibile costruire una rigida organizzazione di massa volta a rendere tendenzialmente militante l'intera area del proprio consenso. Ma se pure è mai esistita, l'era dei partiti di massa è finita ed il nostro, pur avendo aspirato ad esserlo, partito di massa non lo è mai stato. Interessi, costumi, correnti culturali, aggregazioni sociali si formano ormai per altre vie, i messaggi passano per canali diversi, schemi generali di interpretazione e di unificazione non esistono più. Occorre prenderne atto, e fare del partito un organismo più snello ed elastico, in grado di decidere e di intervenire rapidamente sui molteplici aspetti di una realtà frammentaria, in osmosi costante con la società civile.
Va dunque innanzitutto compiuto un lavoro di smantellamento delle sovrastrutture, la cui farraginosa inutilità è largamente dimostrata. Interi capitoli dello Statuto vanno aboliti, e in primo luogo quelli che riguardano la cosiddetta «organizzazione di categoria e di ambiente» e il "Consiglio nazionale del lavoro". Eguale discorso vale anche per i "Comitati per i problemi della donna", poiché le donne non sono un capitolo a parte della politica ma sono oggetto e soggetto politico non meno degli uomini, e va semmai favorita, ma non in via statutaria, la loro presenza in tutti gli organi direttivi del partito.
Va poi rinnovata la struttura vera e propria, che conserva la sua base nell'organizzazione territoriale. Le sezioni, le federazioni e le segreterie regionali devono essere liberate delle loro bardature burocratiche, e restituite alle loro funzioni di organi politici, elementi di propulsione, elaborazione e indirizzo, e soprattutto di guida per chi rappresenta il partito nelle assemblee elettive. La loro funzionalità va valutata in base alla loro capacità di assolvere questi compiti, non in base agli iscritti che sono in grado di raccogliere. Una sezione che non è in grado di funzionare su questo piano va sciolta e sostituita, o chiusa. Saranno poi le strutture territoriali, snellite e rinnovate, ad assumere e pilotare iniziative di penetrazione e di presenza negli ambienti culturali, economici e professionali, ma sempre con l'obiettivo di interessare, influenzare e guidare, non di irreggimentare.
 


Gli organi direttivi


Vale anche per il centro quello che si è detto della periferia, e cioè che gli organi del partito devono avere funzione e contenuto politico prima che preoccupazioni organizzative. Attraverso i suoi organi centrali, il partito deve guidare e controllare l'opera dei suoi rappresentanti parlamentari, che oggi hanno finito invece per assumersi in pratica il compito di determinare ed esprimere la politica del partito.
La ripresa del controllo del partito sui suoi eletti passa certamente attraverso la rinascita della funzionalità e del prestigio dei suoi organi, ma deve anche essere assicurata attraverso il rigoroso rispetto del principio dell'incompatibilità fra le diverse cariche elettive, principio che non preveda alcuna eccezione. Sempre a questo fine, va eliminato il deleterio costume di ricandidare automaticamente gli eletti, per cui una carica, una volta ottenuta, comporta una sorta di diritto acquisito alla riconferma. Un limite ad un troppo alto numero di rielezioni successive potrebbe anche essere istituito, sia pure in linea di massima e con le necessarie cautele.
Per assicurare la funzionalità e il prestigio degli organi direttivi occorre infine una vera e propria operazione chirurgica per liberarli della pletora che attualmente li paralizza e ne rende impossibile il funzionamento. Il nuovo Statuto deve dunque prevedere un comitato centrale drasticamente ridotto nel numero dei suoi membri, tutti eletti dal congresso, che tenga a scadenza regolare vere e proprie sessioni di quattro-cinque giorni su tutti i problemi generali di indirizzo politico; una direzione nazionale eletta dal comitato centrale, parimenti ridotta nel numero dei componenti, che si riunisca almeno una volta al mese e ogni volta che c'è un fatto di rilievo su cui decidere; una segreteria nazionale ristrettissima, eletta dalla direzione, con funzioni esecutive, che collabori quotidianamente con il Segretario in una gestione sostanzialmente collegiale.
Va abolito l'Ufficio politico, doppione della Segreteria, istituito solo per ufficializzare il potere dei capicorrente, e per svuotare tutti gli altri organi. Può invece essere eventualmente istituito un Consiglio nazionale, con funzioni rappresentative e consultive, molto vasto, in cui trovino posto e voce tutte le diverse istanze del partito e che si riunisca una o due volte l'anno. Va infine rivista la composizione del Congresso nazionale, nel quale devono confluire solo delegati eletti, con l'abolizione di ogni partecipazione di diritto: per fare in modo che anche l'appartenenza alla classe dirigente del partito non sia più una rendita di posizione, ma venga sottoposta periodicamente a verifica.
L'attuazione delle decisioni degli organi direttivi passa necessariamente attraverso una struttura organizzativa organica e funzionale. Il Dipartimento Organizzazione va perciò riordinato partendo dalle due essenziali mansioni che deve svolgere; la gestione di quello che si può definire «l'elettorato stabile», attraverso la raccolta di dati e l'individuazione dei settori d'intervento; e la diffusione tra gli iscritti e gli elettori della linea politica e degli orientamenti del partito. La prima di queste funzioni si può considerare «in entrata», l'altra «in uscita». A controllo dell'elettorato stabile va naturalmente innestata l'altra fondamentale attività di espansione e di acquisto di nuove fasce elettorali.
La struttura organizzativa ha un ruolo fondamentale per quanto riguarda la classe politico-amministrativa intermedia: essa deve essere selezionata non in funzione del controllo della gerarchia politica bensì tramite incentivi non materiali che educano progressivamente i militanti che entrano nella vita di partito.

 


Una fase nuova per il F.d.G.


La Giovane Italia e il FUAN negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, il "Movimento Studentesco" nel '68, le organizzazioni «pacifiste» e quelle «verdi», "Comunione e Liberazione" in questi ultimi anni: tutte queste esperienze ci dimostrano che solo le organizzazioni giovanili non direttamente collegate ai partiti, anche se talvolta di essi emanazione, sono riusciti a mobilitare le energie giovanili, a incidere nella realtà politica, a creare modelli di vita. Quando nel 1970 decidemmo di sciogliere la "Giovane Italia" per fondare il "Fronte della Gioventù" rispondemmo ad una realtà politica e sociale che era mutata. Il «ghetto» esisteva già da alcuni anni, anche se per noi quel periodo fu il più lusinghiero dal punto di vista elettorale. Di lì a poco si sarebbe scatenata l'aggressione antifascista: le sedi assaltate, le piazze proibite, i nostri militanti aggrediti ed uccisi. Occorreva difendersi; preservare il nostro «spazio vitale», creare una barriera -anche fisica- contro gli avversari. Una forte organizzazione giovanile rispondente direttamente agli ordini del partito non era solo auspicabile: era necessaria. Solo grazie alla esistenza del Fronte della Gioventù, alla abnegazione dei suoi militanti -e talvolta al vero e proprio sacrificio di alcuni- fu possibile resistere ad un mondo politico che voleva la nostra scomparsa. Non c'è nulla da rinnegare di quella esperienza: bella, esaltante, formativa. Ora però il panorama politico è mutato: nessuno ci aggredisce più; il problema delle sezioni non è più quello di aprirle e di difenderle, ma semmai di farle riempire, di ridare loro una funzione; la società esterna non è più refrattaria ai nostri valori, ai nostri messaggi, alla nostra stessa presenza. Occorre quindi approfittare del mutato clima politico per riprendere -nel migliore dei modi- il dialogo con le nuove generazioni. Per farlo, riteniamo poco produttiva l'attuale configurazione del F.d.G., che a nostro avviso ha compiuto -e quindi esaurito- il compito per il quale era nato come organizzazione. Si tratta di dare il via ad una nuova fase, più confacente al clima politico di questi anni e agli obiettivi che il partito si deve porre. L'esperienza stessa del F.d.G. di Roma -molto attivo, senz'altro, in questi anni- ci dimostra che una associazione parallela (in tal caso, "Fare Fronte") può ottenere dei risultati maggiori di quella di una organizzazione immediatamente riferibile ad un partito.
Crediamo che sia venuto il momento di tornare alle «origini»: di ricreare una organizzazione giovanile autonoma -non più divisa tra studenti e universitari- che abbia come referente il nostro mondo politico, ma che non sia con questo direttamente legata, e diremmo anche da essa «condizionata». Occorre avere il coraggio di «liberare» le energie giovanili, di dar loro la possibilità di realizzarsi, se è il caso di dissentire. Proprio per questo pensiamo che non debba essere il partito in quanto tale a porre le coordinate di questa rifondazione del mondo giovanile: deve essere lo stesso Fronte della Gioventù, i suoi dirigenti, i suoi militanti, i suoi iscritti: deve essere il prossimo congresso nazionale del F.d.G., da convocarsi entro il mese di marzo, aperto il più possibile a tutte le realtà giovanili del nostro mondo. Solo quella sede è appropriata per discutere a fondo dei problemi dei giovani e per dare il via ad una nuova politica giovanile.



Conclusioni: Stato organico e partito organico


Una forte ispirazione ideale, che ritrovi le sue fonti e si ricolleghi alle sue origini, ma sappia anche rinnovarsi creativamente ogni giorno, deve essere alla base della rinascita e del potenziamento del partito.
Con legittimo orgoglio dobbiamo rivendi care a noi stessi la lotta sostenuta fin dalle nostre origini per opporci all'involuzione del sistema ed al suo naturale, logico precipitare verso il punto d'approdo finale de comunismo. Questa lotta va proseguite perché il sistema, benché in crisi, anzi proprio perché in crisi, potrebbe riprendere a proseguire il suo cammino. Il pericolo non è ancora scomparso, malgrado le condizioni critiche e la perdita d'identità che travagliano il PCI.
Ma questa stessa azione, se unilateralmente concepita e pregiudizialmente condotta, nasconde un serio pericolo che già manifesta i suoi effetti. Per troppo tempo si è accreditata l'immagine di un partito anticomunista perché conservatore, fautore di governi «forti» e magari indulgente con le dittature militari latino-americane o di altri continenti. Questo ha operato una insidiosa e travisante confusione sulla nostra essenza ideale e culturale più genuina. Occorre quindi eliminare ogni equivoco e, sulla base del confronto e del dialogo, vanno individuati i limiti oltre i quali il Movimento finirebbe per snaturarsi, e quindi per rinnegare la sua fisionomia rivoluzionaria.
La nostra comunità deve essere preservata da ogni scoria «migliorista» postulando con nitidezza l'idea sociale e corporativa ed il progetto di edificazione di uno Stato organico, nettamente anticomunista ma anche anticapitalista e antiborghese. Anzi, anticomunista perché anticapitalista e antiborghese. Si deve far vivere fra noi la tensione spirituale nel rifiuto della massificazione edonistica. Al messaggio politico dobbiamo affiancare quello spirituale: oltre che alternativa politica dobbiamo essere alternativa culturale, quali portatori di un messaggio etico e ideale.
Uno stato organico non è certamente uno stato totalitario, né tanto meno autoritario. Non esistono da una parte lo Stato e dall'altra i cittadini, presi isolatamente, che lo compongono. Nella realtà naturale e sociale i cittadini non vivono da soli, ma esistono, lavorano, pensano, in famiglie, in territori, in aziende, in categorie professionali, in associazioni culturali, politiche, religiose, in scuole ed in università.
Secondo la teoria dello Stato organico che discende direttamente dalle modifiche allo Stato corporativo derivate dalla RSI, tutte le associazioni, categorie, gruppi di aziende etc, hanno il diritto di organizzarsi autonomamente, spontaneamente, se si vuole anche in maniera diversa, una dall'altra. Ma tutte assurgono alla dignità di organi pubblici e debbono essere rappresentate negli organismi dello Stato che le comprende, partendo dal basso, con i loro bisogni, i loro interessi, le loro iniziative in raggruppamenti sempre più sintetici fino ad arrivare alla sintesi estrema della legge vincolante per tutti.
Questo modello si differenzia dallo Stato autoritario (e fu un errore del fascismo voler imporre vertici, strutture alle libere associazioni), ma è anche l'esatto contrario dei modelli parlamentaristici nei quali il cittadino partecipa, a suffragio universale, e quindi isolato, ad eleggere il vertice che poi si scompone e si disperde in mille rivoli, in mille centri disgreganti di potere e di spesa.
La nostra concezione è quindi quella di uno Stato costruito dalla base verso il vertice, per sintesi successive, con la reale partecipazione -non assembleare, ma qualificata- dei cittadini alle decisioni che li riguardano, al limite delle competenze personali.
Molte volte negli anni si è parlato di dare al partito una struttura corporativa: qualche tentativo si è anche fatto, ma è sempre fallito. E non poteva che essere così. Le categorie, le imprese, le associazioni, agiscono nello Stato, non nei partiti, non sono componenti dei partiti. Le componenti dei partiti sono soltanto le componenti politiche, e queste dovrebbero non solo essere rappresentate ma dovrebbero costituire gli organi stessi del partito.
Nel partito, cioè, gli iscritti, i simpatizzanti, devono potersi liberamente organizzare in gruppi diversi, a seconda delle ideologie, delle strategie, delle tattiche, degli obiettivi; tutte le componenti hanno il diritto di essere rappresentate negli organismi decisionali del partito per esporre le loro opinioni su tutti i problemi, teorici e pratici.
Il dialogo sia sempre aperto, e in una condizione di civile confronto si prendano le decisioni, senza maggioranze precostituite, ma creandosi le maggioranze, e diverse, volta per volta, sui singoli problemi, nei singoli casi. Naturalmente l'occasionale minoranza sarà vincolata alle decisioni concrete delle occasionali maggioranze. E se i rappresentanti delle componenti non perderanno il contatto con le rispettive basi, si riuscirà ad arricchire la dialettica e le conclusioni, senza litigare, senza diventare nemici nello stesso partito.
Il partito organico si differenzia dal cosiddetto partito unitario, dove l'unità è solo apparente e di vertice e le componenti politiche sono sostituite dai gruppi di potere interno che portano alla disgregazione del partito stesso; ma si differenzia anche dal partito di correnti, dove le correnti diventano gruppi di pressione, nemiche una all'altra, in conflittualità permanente al centro, ma molto di più alla periferia, dove potere e opposizione sono permanentemente in lotta, con atteggiamenti politici esterni molto spesso contraddittori.



Conclusioni: un'idea dell'Italia


Non possiamo veder chiaramente nel nostro animo e nei nostri compiti senza prima ridarci un'idea dell'Italia, della sua identità nazionale, della sua struttura sociale, della sua funzione in Europa e nel mondo. Questa idea dell'Italia deve essere ricostruita partendo dalla sconfitta, che aveva cancellato le ambizioni di potenza ereditate dal Risorgimento, e le aveva sostituite con più modeste prospettive di sopravvivenza e sviluppo in un quadro di sovranità limitata, entro più vaste aggregazioni di popoli che per noi, assegnati dagli accordi di Yalta alla metà occidentale del mondo, si identificavano nella sostanza con l'Impero americano.
Per alcuni fondamentali aspetti, la situazione del 1945, sancita da quegli accordi, non si è ancora modificata. L'Europa è rimasta da allora divisa lungo la linea di incontro fra le armate sovietiche e quelle anglo-americane. Lo status degli Stati europei è tuttora modellato secondo il sistema introdotto dagli eserciti che vi si sono insediati, prima come occupatori, poi come alleati: capitalistico da una parte, sovietico dall'altra. Due vaste aree dell'Europa si sono così riorganizzate in due distinti sottosistemi, ciascuno dei quali fa capo agli USA e all'URSS.
Molto lontano è l'auspicio, lanciato da De Gaulle, di un'Europa estesa dall'Atlantico agli Urali.
Il problema, naturalmente, non è quello di chiudere gli occhi di fronte alla realtà, e negare che i Paesi caduti nell'altro sottosistema sono andati incontro a sorte peggiore: per venti-trent'anni metà del mondo politico e culturale italiano lo ha negato, ma oggi, dopo che i socialisti si sono ricreduti per primi, nemmeno i comunisti osano insistervi più. Il problema, per noi, è quello di non appagarci e assopirci nel ringraziare la sorte che ha fatto fermare la riga divisoria di Yalta a oriente dei nostri confini, ma di avere la forza di valutare gli aspetti negativi della nostra situazione, che sono comunque pesanti, e che vanno affrontati per quelli che sono.
L'adesione allo schieramento occidentale ha comportato per l'Italia una revisione autocritica della propria esistenza nazionale. Accettando l'Italia la razionalità della propria sconfitta (il fascismo, l'errore, l'America, la «liberazione» e la salvezza) pacificandosi con il proprio destino, il popolo italiano ha finito per trasferire oltreoceano il senso della sua stessa esistenza nazionale. Il posto tenuto dall'idea di Patria nel sistema risorgimentale, poi proseguito dal fascismo, viene sostituito dal riferimento alla società americana. Ma riversare la propria esistenza nazionale in un modello di civiltà che in definitiva si risolve nel protestantesimo militante -e che non solo il fascismo, ma nemmeno le tradizioni popolari, da quella cristiana a quella socialista avevano mai riconosciuto- significa per l'Italia il precipitare in un universo sconosciuto. Si diventa altri: persino antropologicamente mutati.
Questo, naturalmente, non avviene solo in Italia. Dopo il 1945, i popoli dell'Europa occidentale vengono indotti a "purificare" la propria memoria storica, sostanzialmente annullandola. Viene ispirata negli europei la convinzione che quella memoria sia alla base delle loro sventure, dei drammi, delle ecatombi: e nasce così il desiderio di non pensare più al passato, di tuffarsi nel presente, di formarsi sull'altrui modello di vita, democratico, razionale, efficiente, rassicurante: «Liberati dei tuoi ricordi -si dice all'uomo europeo- e dimentica ciò che fosti, diventerai migliore».
Il grande trasloco dallo Stato nazionale al nuovo ordine avviene in Italia sotto la guida della DC, «partito americano» per eccellenza, validamente aiutata dai partiti minori e poi anche dai socialisti nelle lunghe stagioni del centrismo e del centrosinistra, e fiancheggiata di fatto dai comunisti, oppositori di comodo e sostenitori non sempre occulti. La DC svolge il suo ruolo in tutti i campi, non solo in quello politico, ma anche in quello morale. Sotto la sua guida quarantennale, l'Italia è divenuta il Paese meno cristiano d'Europa. Gestita quasi senza interruzione da ministri democristiani, la scuola educa i giovani all'indifferenza, alla cultura del nulla. Persino nel cinema, nel clima da essa creato, scompaiono i valori dell'impegno, della serietà e del coraggio, e nasce la figura dell'italiano medio, ridicolo, velleitario, perennemente sconfitto, impersonato nelle macchiette di Sordi e De Sica.
Quale la via d'uscita? Sarebbe infantilismo politico pensare alla rottura dei patti e delle alleanze, all'uscita dalla NATO. Bisogna invece comprendere che la subalternità culturale, l'adeguamento all'altrui modello di vita rende vana la stessa alleanza. Un popolo spento, rassegnato, senza memoria, diventa un peso per lo stesso alleato. Quando manca il senso della comune identità e del comune destino si diventa non più popolo ma popolazione, gruppo di apolidi: sballottati dai costruttori di storia, dagli americani, dai russi, dagli iraniani, dai sauditi, dai libici. Si chiede pateticamente «pace e petrolio» per continuare a vivere dimenticando di essere vivi.
Certo, non si può negare che l'esasperazione dei nazionalismi europei dopo le due guerre mondiali ha imposto una fase di riflessione che in un primo tempo sembrava potesse sfociare in un superamento delle realtà nazionali. Alla vigilia del 2000 emerge però l'estrema difficoltà di organizzare modernamente grandi aggregati umani prescindendo dalla nazione. Dove la coscienza nazionale si attenua, anche la capacità di governo si dissolve nei particolarismi di un neo-feudalesimo regionalistico, campanilistico, partitocratico, sindacatocratico, entocratico e nel predominio dei grandi potentati finanziari e internazionali.
Anche in Italia questa coscienza comincia a farsi strada, e si avvertono segni di risveglio nazionale nei diversi strati della società, e persino in alcuni nuovi atteggiamenti dei partiti. Di fronte ad essi, il partito della vocazione nazionale non può porsi in un assurdo atteggiamento di ottusa gelosia come se ne temesse la concorrenza. Deve invece assumersi una funzione di stimolo, indicare non solo una via di risanamento e di rinascita ma anche una possibile e credibile alternativa a chi ha gestito finora il potere traendo la sua legittimazione non tanto dal voto degli italiani quanto dall'investitura straniera. L'Europa, purtroppo, non può costituire un'alternativa immediata. Essa non esisterà se non la sorreggerà la volontà di indipendenza, di libera espressione politica, di pace attiva nei singoli popoli europei: illudersi che un organismo europeo supplisca di per se stesso alla forza vitale delle nazioni è una futile illusione, e spesso un artificio di comodo.
Ma oggi la vita nazionale si immerge nei rapporti internazionali, e ancora più ne dipenderà per le grandi direttive che investono la pace e la guerra.
La scelta è dunque chiara. O accettare le dimissioni dalla storia, e per questo nulla è meglio della DC e dei partiti maggiori e minori che le hanno fatto e le fanno corona. O seguire una nuova strada, quella che noi da sempre indichiamo, che ridisegni un'idea dell'Italia, e restituisca alla nazione la sua realtà di soggetto politico. Per creare, al posto degli Imperi cadenti e vuoti, una nuova, armonica, vitale comunità di popoli.



 


Promotori "Proposta Italia"


Domenico Mennitti,

Giuseppe Niccolai,

Tommaso Staiti di Cuddia,

Altero Matteoli,

Carlo Casalena,

Pino Specchia,

Enzo Erra,

Adolfo Urso,

Umberto Croppi,

Melisenda de Micheli Vitturi,

Gaetano Pellegrini Giampietro,

Marco Cellai,

Giulio Conti,

Fabio Fatuzzo,

Paolo Tringali,

Mauro Mazza,

mperio Abbenda,

Adelaide Airoldi Catalano,

Gianfranco Alessandrini,

Carlo Aprile,

Dionisio Baiguini,

Giovanni Bataccia,

Mario Benvenga,

Valerio Bertuccelli,

Antonio Bidoli,

Benito Bollati,

Giuseppe Bonanno Conti,

Valerio Boschi,

Carmelo Briguglio,

Pietrangelo Buttafuoco,

Cesare Camozza,

Fernando Cargiani,

Antonio Carli,

Gaetano Casino,

Alberto Castellacci,

Lino Cavallaro,

Giuseppe Certo,

Matteo Condorelli Anfuso,

Filippo Condorelli,

Roberto Crafa,

Fernando Crovace,

Fulvio De Bosio,

Raffaele De Maria,

Antonio De Matteis,

Pasquale Di Lorenzo,

Dino Fabbretto,

Salvatore Fallone,

Michele Falcone,

Gabriele Fergola,

Leonardo Fonte,

Paolo Frigeri,

Cesare Fuligna,

Giancarlo Gastaldi,

Giovanni Gentile,

Giulio Giri,

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Bruno Gruosso,

Gualtiero Gualtieri,

Nicola laia,

Alberto Indri,

Giuseppe Leone,

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Angelo Lettieri,

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Renato Lo Presti,

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Ferruccio Magrini,

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Antonio Mancino,

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Francolando Marano,

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Danilo Michelacci,

Giangiacomo Milella,

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Peppe Nanni,

Carlo Nicolato,

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Fedele Pampo,

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Vittorio Pieretti,

Luigi Pieri,

Leonardo Pinto,

Fabio Pistarelli,

Riccardo Poli,

Eduardo Raguso,

Enzo Raisi,

Bruno Rassu,

Danilo Ravenni,

Rosario Rinaldi,

Marco Rivera,

Michele Saccomanno,

Sergio Sanesi,

Sandro Sartori,

Giuliano Sarzi Sartori,

Bernardino Teglio,

Lodovico Tornabuoni,

Antonio Trizza,

Giuseppe Turini,

Luca Ventoloro,

Roberto Ulivi,

Giovanni Vezzosi,

Franco Vita

Ringraziamo Ghiss e "Proposta" per il materiale di questa pagina