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LA VERITÀ
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Quel fascista di sinistra

Marcello Veneziani (LA
VERITÀ 25
ottobre 2019)
A trent’anni giusti dalla sua morte suscita polemiche a Pisa, sua città natale,
l’intitolazione di una rotatoria a Beppe Niccolai. Sinistre e Anpi indignati
chiedono di negare la piazza al “fascista”. La giunta di centro-destra aveva
ecumenicamente intitolato una via a un comunista, a un democristiano e a un
missino.
Chi era Niccolai? Un politico galantuomo, un missino eretico che sognava di
ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e combattere insieme contro
la mafia e il potere, i potentati economici e la servitù americana. Beppe fu un
limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento,
assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori.
In principio Niccolai fu tra i fondatori del Msi nel segno di “legge e ordine”.
Poi si andò spostando verso una sinistra nazionale e spirituale, auspicando di
ricucire la frattura del ’14 coi socialisti, poi spingendosi fino a quella del
’21 coi comunisti. Non condivise però la linea di Pino Rauti di sfondare a
sinistra; sognava altre sintesi.
Niccolai morì il 31 ottobre dell’89, nove giorni prima che cambiasse il mondo,
col Muro crollato e la caduta del comunismo, e da noi la fine della prima
repubblica. L’anno prossimo sarà il centenario della sua nascita.
Quando morì, Niccolai lasciò un vuoto, ma era lo stesso vuoto che lo circondava
quando era in vita. Beppe dissentiva da Almirante, e spesso era all’opposizione
nell’opposizione, distante pure da Rauti. L’avevano sistemato in una teca, con
l’etichetta di coscienza critica, per venerarlo e accantonarlo. Niccolai era
pisano e perciò destinato, per Dante, a vituperio delle genti. E vituperio fu
con le sue idee provocatorie. Ma a conoscerlo era amabile e inquieto, tutt’altro
che un fascistone prepotente con le certezze granitiche, in bianco e nero.
Fascista lo era stato davvero ma sulla sua pelle: volontario in Africa, e poi,
per fedeltà al suo fascismo, prigioniero degli americani nel fascist criminal
camp ad Hereford, come l’artista Alberto Burri, lo scrittore Giuseppe Berto e
Roberto Mieville, futuro capo dei giovani missini della prima ora.
A Pisa fu l’antagonista storico di Adriano Sofri, che mobilitò Lotta continua
per impedire un suo comizio il 5 maggio del ’72. Negli scontri con la polizia
morì un anarchico, Serantini, e anche per vendicare lui pochi giorni dopo fu
ucciso Calabresi. Ma Niccolai difese il “nemico” Sofri quando fu accusato
d’omicidio. Da parlamentare fece memorabili interventi in commissione antimafia
contro le collusioni politiche, soprattutto democristiane, e fu elogiato anche
da Leonardo Sciascia, allora parlamentare di sinistra. Denunciò le stragi e le
responsabilità dei servizi segreti; e riuscì a scucire la verità ai magistrati
veneziani sull’aereo Argo 16 della nostra aeronautica abbattuto dagli israeliani
nel novembre del ’73 a Venezia uccidendo i militari italiani a bordo, accusati
di aver salvato alcuni terroristi arabi che preparavano un attentato a un aereo
di linea israeliano. Un’operazione filo-araba condotta dall’allora Ministro
degli esteri Aldo Moro.
Nel 1988 Niccolai fu espulso dal Msi: fu il primo atto compiuto da Fini leader.
Beppe aveva fatto votare alla direzione del partito un ordine del giorno contro
i potentati economici che aveva ripreso da un comitato centrale del Pci: Fini
aderì convinto con l’Msi. Poi Niccolai raccontò al Corriere della sera la
beffarda verità e Fini lo cacciò perché all’epoca aveva orrore delle
contaminazioni con la sinistra; fu poi riammesso grazie ai buoni uffici di
Tatarella ed altri. Ma il suo scopo non era goliardico, non voleva prendere in
giro il suo partito, ma dimostrare che i pregiudizi ideologici impediscono a
volte convergenze su temi condivisi.
Incontrai Niccolai perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci,
fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro, che poi pubblicai con la
prefazione di Indro Montanelli. Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata 500
guidata da un militante di Cecina, Altero Matteoli, divenuto poi ministro. Nel
sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano attorcigliati Niccolai e
Tatarella; benché ragazzo, mi avevano lasciato il posto davanti, come si usa per
cavalleria con le donne, i disabili e gli intellettuali. Niccolai maneggiava i
quaderni di Ricci con religiosa devozione. Ci vedemmo altre volte, accomunati
dal gusto ardito dell’eresia e dalla rivoluzione conservatrice, da amici comuni
come Giano Accame e il pisano Gino Benvenuti; ci scoprimmo ambedue figli di
presidi di liceo, cresciuti con una buona biblioteca in casa. Quando fui
silurato dalla direzione editoriale di Ciarrapico nell’87, perché considerato di
nuova destra e con simpatie per il socialismo tricolore di Craxi, scrisse un
pezzo solidale sul suo foglio, l’Eco della Versilia e lo ribadì pure al
congresso missino di Sorrento nel 1987, dove fu la voce stonata nel congedo di
Almirante dalla guida del Msi.
Negli ultimi anni, quando interruppero la sua graffiante rubrica sul Secolo
d’Italia, gli affidai una rubrica su Pagine Libere, che ribattezzammo Rosso e
Nero, in onore dell’omonima rivista di Alberto Giovannini. Beppe non era un
vecchio arnese, nel Msi fu con l’ala modernizzatrice di Mimmo Mennitti, voleva
aprire il ghetto missino, dialogare col Craxi patriota e sognava di ricucire con
la sinistra. Beppe raccontava che l’ultimo Mussolini aveva raccomandato ai suoi
fedelissimi: se crolla il fascismo, seguite Pietro Nenni. Beppe fu uno spirito
critico e appassionato, pensante e romantico, magari impolitico. Era un marziano
allora, figuratevi ora. Ad avercene…
Marcello
Veneziani (LA
VERITÀ 25
ottobre 2019)
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