Rosso e Nero
anno 1984

7 gennaio 1984 17 gennaio 1984 27 gennaio 1984
4 febbraio 1984 18 febbraio 1984 13 marzo 1984
17 marzo 1984 24 marzo 1984 3 aprile 1984
27 aprile 1984 1 maggio 1984 8 maggio 1984
15 maggio 1984 19 maggio 1984 1 giugno 1984
5 giugno 1984 31 luglio 1984 17 novembre 1984
8 dicembre 1984 15 dicembre 1984 22 dicembre 1984

 

7 gennaio 1984

Pertini uno e due


La stampa «moderata» lancia al cielo grandi lamenti: «ma questo non è il Pertini che conosciamo!». Nel libro "Memorie" di Alessandro Lessona (Sansoni editore, Firenze), a pagina 73, trovo descritta questa vicenda:
«Altro episodio che accadde durante la mia permanenza a Savona fu quello riguardante l'on. Sandro Pertini. Il fratello di lui era ufficiale nella legione della milizia col grado di centurione: i rapporti fra i due fratelli erano pessimi non solo per ragioni politiche, ma anche per motivi familiari. Il Pertini fascista non si peritava a dipingere il Pertini socialista con le più fosche tinte e con giudizi offensivi. L'atteggiamento cosi sfavorevole, assunto da un membro della famiglia, contribuiva ad infiammare sempre più l'ostilità già molto accesa verso l'antifascista Pertini fra l'elemento dello squadrismo savonese. La casa natale del Pertini era a Sassello, un piccolo paese del retroterra montano. Quivi viveva il Pertini fascista con la vecchia madre. Il fratello Sandro vi capitava assai raramente. Un giorno, però, l'on. Pertini improvvisamente apparve a Savona: fu disgraziatamente riconosciuto da alcuni squadristi, i quali lo ingiuriarono e percossero malamente. Il Pertini, vistosi a mal partito, si sottrasse alla foga dei suoi assalitori fuggendo e venne a cercare protezione ed aiuto alla Federazione fascista. Io ero a Roma, ma il mio collaboratore e amico, Aurelio Archenti, che mi sostituiva durante le assenze, lo accolse cordialmente, stigmatizzò con veementi parole l'incidente e si dichiarò pronto a tutelare la incolumità dell'onorevole. Gli ordini miei erano tassativi e l'Archenti era, per indole e per disciplina, uno scrupoloso esecutore. Io non volevo più violenze, dacché il Governo era in nostro potere, ed avevo già dato esemplari punizioni a tutti coloro che avevano mancato al rispetto che si deve agli avversari o, peggio, avessero manifestato intenzioni di ricorrere a vie di fatto. L'Archenti, dunque, promise a Pertini che lo avrebbe fatto accompagnare fino all'autobus in partenza per Sassello poiché, soggiunse, non riteneva prudente che egli si trattenesse più a lungo a Savona in quel giorno. Poco tempo dopo l'Archenti ricevette una lettera cortese dell'on. Pertini con la quale lo ringraziava dell'accoglienza premurosa e del trattamento cavalleresco usatogli. Passarono gli anni, molti anni, e venne la guerra, la sconfitta e la liberazione. L'Archenti si trovava a Milano e, nella sua qualità di squadrista ante-marcia, era continuamente in pericolo. Il caso volle che proprio l'on. Pertini fosse in posizione di comando a Milano. L'Archenti allora, ricordando l'episodio savonese, pensò di rivolgersi a lui per avere un valido testimone del suo equilibrato, se pur doveroso, comportamento. Il Pertini lo ricevette, ma non dette segni di riconoscerlo. L'Archenti cominciò a dirgli che aveva avuto il piacere di incontrarlo a Savona. Ma, non dando ad addivedere il Pertini di ricordarsene, pensò che fosse opportuno esibire la lettera che aveva ricevuto dallo stesso Pertini al tempo dell'incidente di Savona. Con sua grande sorpresa vide il suo interlocutore andare sulle furie e dirgli che non aveva alcun motivo di riconoscenza ma, semmai, di rimprovero, per avere egli, Archenti, impedito a lui in quel giorno a Savona di godere della sua libertà di cittadino. "Ella mi ha messo al bando dalla mia città!". L'Archenti rimase di sasso: riprese la lettera, se la mise in tasca ed uscì salutando un Pertini sorprendentemente diverso da quello precedentemente conosciuto».
* * *
«Giovanni Spadolini ha energicamente rimproverato il senatore repubblicano Libero Gualtieri, di fronte ad altri esponenti del partito, per una dichiarazione sul Libano. Il ministro della Difesa si è lamentato per questa «libertà d'azione» del parlamentare su una materia tanto delicata: «ti invito formalmente a non fare più dichiarazioni sul Libano. Tu del resto non puoi capire nulla anche perché non hai fatto il servizio militare». ("l'Espresso", «Sul Libano parlo io»)
Ora sarebbe interessante sapere «quando e dove» il Ministro della Difesa, Giovanni Spadolini, ha prestato servizio militare.
* * *
«E di Mussolini ne parla con suo padre?». «Certo, come no? Su Mussolini le nostre opinioni concordano. Io stimo Mussolini. Ho molta ammirazione per la sua figura di uomo politico "nuovo", forse perché non ho vissuto quel periodo. Però ho ascoltato i dischi dei suoi discorsi: la dichiarazione di guerra all'Etiopia, la dichiarazione contro la Francia e Inghilterra, quel grido "Vincere e vinceremo", mi ha sempre provocato tensione, forse paura, però mi piace. Il fatto che la gente, anche se solo emotivamente, partecipasse alla vita del paese, che l'Italiano fosse fiero di sentirsi italiano, erano tutti fenomeni importanti. Mussolini è l'uomo politico più importante del secolo, come si fa a coprirlo solo di fango? Era un uomo di straordinaria carica vitale».
("Gente", n. 50 ,23.12.83, "Il Presidente del Consiglio Bettino Craxi in un racconto inedito del figlio Vittorio").
* * *
«Perchè ha deciso di candidarsi nelle liste del PSI, per le recenti elezioni e come ha accolto il suo fallimento?».
«Io non ho deciso niente. Sono un socialista ereditario, mio padre era Segretario della sezione socialista di San Zenone sul Po. Il partito mi ha chiesto di andare in questua di voti e io non potevo rifiutarmi. Se fossi stato eletto sarebbe stata una bella fregatura, perché io guadagno più d'un deputato o d'un senatore e ho una famiglia gravosa da mantenere. Ho accettato anche perché stimo Craxi, che è il miglior socialista che abbia avuto l'Italia dopo Benito Mussolini, uomo di grandissima statura».
(Gianni Brera, "Giornale di Sicilia", 20.10.1983)
* * *
«Solo una volta, nel corso della lunga conversazione, il viso ha uno scatto che tradisce la vivacità della sua tiroide. È quando parla del soldato tedesco. Io conosco, mi dice mentre conversiamo dell'attuale momento di tensione Est-Ovest, il soldato tedesco. Sono arrivato con lui, come tenente della Prima Divisione Panzer, alle porte di Leningrado nell'autunno 1941. L'anno seguente, sempre con i carri, ci battevamo a meno di cento chilometri da Mosca: i russi ci erano superiori di numero come tre a uno, eppure avevamo raggiunto due storiche capitali. Nell'inverno 1944-45 partecipai all'offensiva delle Ardenne. Li gli americani erano cinque contro uno: per poco non li ributtammo nel Mare del Nord. Ancora oggi quelle virtù di coraggio e di tenacia, ormai a disposizione di tutta l'Europa Occidentale, sussistono e si appoggiano ad una organizzazione che non è inferiore a quella di un tempo. Che giorno è oggi? Venerdì: ecco se oggi, venerdì, il nuovo ministro della difesa Woerner pigiasse un bottone, mercoledì prossimo vi sarebbero in armi 1.200.000 tedeschi di meno trenta anni, ben addestrati ed equipaggiati e motivati. Una aggressione sovietica sul fronte centrale non sarebbe una passeggiata ...».
(«Colloquio con Schmidt: come nacquero gli euromissili», "Corriere delta Sera", 30.12.82)
* * *
L'ex-cancelliere tedesco Helmut Schmidt è socialista. Come Sandro Pertini. Si notano le differenze.

 

17 gennaio 1984

Palmiro Togliatti e un «atto scellerato»


C'era qualcosa di più significativo nella vita di Umberto Terracini, il leader rifiutato, scomparso di recente, che valeva la pena di essere ricordato. Nessuno lo ha fatto e ciò ci conferma come la falsità, l'ipocrisia come sistema, in breve la doppiezza, non siano solo caratteristiche del PCI, ma di tutto il mondo politico italiano.
L'episodio che riferiamo, e che tutta la stampa ha taciuto, nel ricordare Umberto Terracini, risale al marzo 1928. È un episodio sconvolgente. Fa da «paradigma», da modello, nel dimostrare a quali estremi giunga, all'interno dei partiti comunisti, la lotta per il potere.
I protagonisti sono, da una parte Antonio Gramsci e Umberto Terracini, dall'altra Palmiro Togliatti e Ruggero Grieco.
* * *
Si tratta di questo. È il marzo 192S. A Mosca Stalin espelle dai partito Trotskj, Zinoviev e Kamenev. Palmiro Togliatti e Ruggero Grieco si trovano a Mosca. Orbene, a Antonio Gramsci e a Umberto Terracini, reclusi nel carcere di San Vittore sotto l'accusa di eversione contro lo Stato, arrivano due lettere (vedi "Rinascita" n° 32 del 9.8.68) a firma di Ruggero Grieco. Si faccia bene attenzione al particolare: quelle lettere, da Mosca, vengono inviate, non attraverso i canali clandestini, come il PCI era solito fare dati i tempi, ma per via normale. Vengono imbucate a Mosca, con tanto di francobollo, con tanto di indirizzo (carcere di San Vittore Milano), con i nomi dei destinatari (Antonio Gramsci e Umberto Terracini) e del mittente (Ruggero Grieco).
* * *
È evidente: chi spedisce quelle lettere, vuole che siano lette, oltre che dagli interessati, anche dal magistrato che, contro Gramsci e Terracini, ha spiccato mandato di cattura per eversione contro lo Stato.
* * *
Che c'è scritto in quelle lettere di Grieco che, fra l'altro, si premura di far sapere che scrive a nome di Togliatti, scusandolo per la sua nota «avarizia» nello scrivere, degna, dice Grieco, di un rabbino?
Le epurazioni staliniane in atto, non solo vengono giustificate, ma esaltate. Aver eliminato la opposizione e ogni altra voce di dissenso, scrive Grieco, è un atto responsabile in un momento in cui la minaccia di guerra all'URSS è fatto reale. In questi frangenti, sottolinea Grieco, «non si può giocare all'opposizione».
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Fermiamoci su questa frase: «non si può giocare alla opposizione». Grieco, scrivendo in questi termini a Gramsci e a Terracini, intendeva informarli su quanto accadeva a Mosca, o viceversa il riferimento, partendo dal comportamento di Stalin, era personale?
Il riferimento è personale. È diretto a Gramsci e Terracini che, fin dal 1926, non si erano peritati di esternare il loro profondo dissenso dai metodi con i quali Giuseppe Stalin conduceva il partito. «Trotskj, Zinoviev, Kamenev, hanno contribuito ad educarci per la rivoluzione, sono stati nostri maestri, non possono essere espulsi», aveva scritto Antonio Gramsci in una lettera indirizzata a Stalin, tramite Togliatti, lettera mai consegnata.
* * *
Ma il «brutto» di quelle lettere che, scientemente, Palmiro Togliatti voleva che cadessero nelle mani delle autorità fasciste, stava nel fatto che Grieco, dando quelle notizie, indicava Antonio Gramsci, non lo si dimentichi in concorrenza con Togliatti per la nomina a capo della Segreteria del PCI, come uno dei più alti dirigenti del comunismo internazionale. Il che veniva a vanificare la difesa dello stesso Gramsci che -in attesa di essere processato- si era difeso dicendo che non faceva parte dell'esecutivo del partito, cioè era sì comunista, ma figura di secondo piano.
Il che, in parole povere, significa che Palmiro Togliatti, per sbarazzarsi del suo concorrente alla Segreteria del partito, non si peritava di denunciare Gramsci alle autorità che stavano per processarlo «per banda armata»!
* * *
È un'accusa pesante quella che il sottoscritto rivolge a Palmiro Togliatti. Me ne rendo conto. Potrebbe sfociare nella calunnia. Ma che cosa è che mi fa insistere nella tesi prospettata?
È lo stesso Antonio Gramsci che viene in aiuto a quanto da me affermato. Infatti, in una lettera indirizzata alla cognata Tania del 5 dicembre 1932, Gramsci ritorna sulle strane lettere del Grieco datate 1928.
«Ricordi», scrive Gramsci, «che, nel 1928, quando ero nel giudiziario di Milano, ricevetti una lettera di un amico molto strana» e «ti riferii che il giudice istruttore, dopo avermela consegnata, aggiunse testualmente: "onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera"». «Tu stessa», insiste Gramsci, «mi riferisti un altro giudizio dato su questa lettera, giudizio che culminava nell'aggettivo "criminale"».
«Si trattò -si chiede Gramsci- di un atto scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo. Può darsi l'uno e l'altro caso insieme; può darsi che chi scrisse (Grieco - N.d.R.) fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro (Togliatti - N.d.R.), meno stupido, lo abbia indotto a scrivere ...».
* * *
Umberto Terracini non sarà da meno. Infatti, rispondendo a Grieco, nel commentare quella frase, per cui Grieco si accingeva a scrivere per conto di Togliatti in quanto costui era «avaro nel prendere la penna», commenta: «Per scrivere, oltre al francobollo, occorre un certo quid di sentimenti e di impulsi non cedibili e permutabili».
* * *
È una vicenda quantomeno crudele. Fra compagni. Nessuno se ne è ricordato, commemorando Umberto Terracini.
* * *
«Come prestigio l'Università in Italia è una istituzione definitivamente sepolta. Consigli dì facoltà e di istituto sono assemblee di spettri, veri e propri uffici di collocamento di mano d'opera abusiva o eccedente».
«Usano il sangue degli studenti per celebrare riti sacrificali di auto-legittimazione».
«Gli accademici sono dei nìcodemiti, parlano in codice. Se ti dicono sì, vuol dire di no, e viceversa. Le loro regole sono, in generale, puramente mafiose: di cooptazione degli amici, o di guerra tra capizona».
«Le Università, invece di essere laboratori, funzionano come sentine in cui si distillano i vizi più torbidi. Per fare la ricerca all'università devi bussare a quattrini al tavolo dei partiti. Attraverso Comuni e Regioni possono finanziarti. La condizione non scritta ma inesorabile è di non dare fastidio. È il prezzo che si paga per la commessa che ricevi».
(Salvatore Sechi, professore presso l'Università di Bologna, politologo, già iscritto al PCI) ("il Giorno", 29.XII.1983).
* * *
«Se non hai la rete protettiva di un partito, conti come la schiuma della terra. Sei una pizza da immagazzinare».
(idem)
* * *
«Siamo precipitati morbidamente in un sistema di tipo sovietico-consociativo, dove la reticenza di massa viene chiamata pluralismo, la spartizione democrazia, la tolleranza (eventuale) libertà».
(idem)
* * *
«Se dici a voce alta (o peggio scrivi) ciò che dici in privato, diventi un appestato. Odio i conformismi. A Bologna, dove vivo da più di dieci anni, ho trovato la capitale sudario del più soffocante regime di partito».
(idem)
* * *
"Il Corriere della Sera" (5.1.84), in un neretto riquadrato, molto vistoso, ci fa sapere che sarà interrogato dai giudici savonesi, che stanno indagando sul caso Teardo, Franco Gregorio, ex-funzionario di segreteria del Quirinale, allontanato dopo che il suo nome era apparso negli elenchi della P2 e oggi rinchiuso nel carcere di Imperia con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.
«Se conoscevo quella gente» (alludendo ai socialisti finiti in galera), ha fatto sapere il Gregorio, «è perché fino a qualche anno fa frequentavano il Quirinale».


27 gennaio 1984
Inquinamento mafioso


Giuseppe Azzaro, vice presidente della Camera, è un galantuomo, nel vero senso della parola. Ho lavorato con lui, per anni, nella Commissione antimafia e ho avuto modo di saggiare l'uomo, in più occasioni. Non ci sono dubbi: la sua denuncia è sincera. Si sente che gli è sgorgata dal cuore. Non ne poteva più e ha parlato. Il problema ora è di sapere se avrà altrettanto coraggio per andare fino in fondo. Intanto ascoltiamo alcune delle sue accuse.
* * *
«Negli affari di mafia si cerca sempre la testa del serpente. Si tenta disperatamente di individuare quello che tira le fila, ma rimane sempre nell'ombra. Tutto questo è importante, tuttavia quando se ne è tagliata una ne rispunta subito un'altra. Allora perché non proviamo a mettere a nudo e sconfiggere il sistema di connivenze e complicità che rende possibile l'infiltrazione mafiosa in tutte le amministrazioni pubbliche? È patetica l'affermazione del sindaco di Catania quando dice che la sua città non è mafiosa. Ma che significa? I comitati di affari esistono anche nell'amministrazione».
("la Repubblica", 14.1.84)
* * *
«Il sistema è collaudatissimo. Alle imprese che stanno per vincere gli appalti si chiede di gonfiare i preventivi per fare entrare anche la tangente che è diventata una componente del costo. Si tratta di una maggiorazione che mediamente si attesta al 15 per cento e che alla fine viene pagata dai cittadini. La mia sensazione di parlamentare siciliano è che ormai non sia più possibile alcuna azione amministrativa che non sia collegata con tangenti e bustarelle. La mafia segue da vicino l'evoluzione economica della società, sta dovunque vi sia un interesse parassitario. Poi esercita la violenza, la corruzione. È questo il problema numero uno. In Sicilia, prima o poi, bisogna capirlo».
(idem)
* * *
Cos' Giuseppe Azzaro. Ma solo in Sicilia? O il sistema ha ormai dilagato dappertutto?
Qui siamo a Torino. È appena scoppiato lo scandalo delle tangenti che ha travolto la Città, capitale del perbenismo piemontese. Ascoltate queste dichiarazioni:
«Un giovane industriale scoppia a ridere: tangenti? Scandalo? Ma se Io sapete benissimo, ogni galantuomo che commerci in qualcosa lo sa, che se si vuole vendere, bisogna ungere, gratificare, assecondare spartizioni umilianti, distribuire secondo il più aggiornato manuale del parassitismo politico, che prevede le percentuali, non solo ai partiti, ma anche alle correnti, alle sottocorrenti, alle famiglie. Torino dovrebbe fare eccezione? E perché? Forse i nostri magistrati non sanno che larga parte dell'indotto Fiat è taglieggiato da parassiti che chiedono la tangente? Millantatori? Si, alcuni sono millantatori. Ma ci sono anche interi uffici che pretendono la mazzetta. Chieda, chieda, quali umiliazioni debbono sopportare grandi e medie aziende costrette ad includere nei costi dei loro prodotti le mance per i singoli uomini e i partiti politici».
("la Repubblica", 9.3.83)
* * *
Sempre a Torino. Questa volta è un lavoratore che parla. «Guardi che il sistema della corruzione non è nato mica l'altra settimana. Giusto ieri sera ho incontrato un mio amico che aveva il problema di trovare un lavoro al figlio. Gli dico: ohe, Arturo, come va? E quello: bene, il mio ragazzo lo assumono alla SIP. Ma ho dovuto tirare fuori otto milioni. Capito? Ed è la regola».
("a Repubblica", 9.3.83)
* * *
Torino, Catania, Palermo, Roma, Milano, che differenza fa? Partito eguale mafia, mafia eguale partito. Citerò degli avversari. Il siciliano Girolamo Licausi: «Ormai la mafia è il cardine della vita politica italiana». Meglio sarebbe dire: incarnazione. Il comunista Giancarlo Paietta: «È sempre più difficile discernere il confine fra politica e criminalità».
Ed allora? Che ne facciamo di questa Repubblica mafiosa? La teniamo così, in modo che Sandro Pertini possa, confrontandosi con il fango che ci sommerge, continuare a dire che lui, e solo lui, è bravo?
* * *
Ma ritorniamo a Giuseppe Azzaro. Ce la farà? Io ho i miei dubbi. Si, Azzaro è galantuomo, ma è anche uomo di partito, intriso, spesso, di quel «mal democristiano» che lo porta a cercare coperture nel PCI.
«Bisogna fare un patto contro la mafia con uomini credibili», ha affermato Azzaro, «non ricattabili, capaci di prendere decisioni rapide e impedire l'ulteriore degenerazione del sistema, evitando che si cada sempre più nelle mani della mafia. Da questo fronte è assurdo escludere il PCI».
* * *
Perchè questo accenno, così nobile, al PCI, ad un partito che, proprio in Sicilia, sul piano della moralità pubblica, non se lo merita?
Cosa teme Azzaro? Che i comunisti gli ricordino che lui è stato l'estensore della relazione (davvero ignobile, me lo consenta, onorevole Azzaro!) di maggioranza sul caso Sindona? Che ha scritto, lui di suo pugno, che nella vicenda del bancarottiere, accusato di assassinio, «non vi è in alcun modo la rappresentazione di un momento di degrado delle istituzioni», né che «ai suoi torbidi disegni si piegarono esponenti politici o amministrativi»? Teme che gli rimproverino che, con la sua relazione, ha assolto tutti: il governatore della Banca d'Italia Guido Carli, i dirigenti del Banco di Roma, il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti che indicherà in Sindona il salvatore della lira, i segretari di partito che da Sindona presero i soldi, i banchieri vaticani che ordirono il disegno di salvataggio per sventare il crack, le collusioni fra il sistema-Sindona e la P2?
Temeva tutto questo, ed allora, per salvare la Sicilia dalla mafia, ha invocato l'aiuto del PCI?
Onorevole Azzaro, mi creda, i comunisti, non meritano la sua attenzione. Non sono dei moralizzatori. Non ne hanno la stoffa. Infatti, anche sul caso Sindona, sono stati zitti per ben cinque anni. Dal 1974 al 1979. Nessun documento in Parlamento, in questi anni, chiede indagini rigorose sul bancarottiere, con firma PCI. Infatti -e lei onorevole Azzaro lo sa- quel silenzio del PCI su Sindona aveva un solo ed univoco significato: quello di non creare noie a Giulio Andreotti, amico di Sindona. E, in contemporanea, del PCI. Io do una cosa a te, e tu dai una cosa a me.
* * *
Comunque l'onorevole Azzaro una prima cosa può ottenerla. Il 26 gennaio 1972 il Consiglio di Presidenza della Commissione antimafia ascoltò il dott. onorevole Alberto Alessi, democristiano, che aveva chiesto di essere sentito. Da quella audizione ne è venuto fuori un documento di 22 pagine. Però, quando si è trattato di renderlo pubblico, il dott. on. Alessi ha posto il veto. Il tutto è rimasto top secret.
In quel «memoriale» ci sono i nomi. Ebbene, onorevole Azzaro, un primo passo: faccia in modo che quanto, a suo tempo, fu affermato dall'on. Alessi, sia reso pubblico. Un primo passo, ho detto. Verso la verità.
* * *
È tornata di attualità la vicenda della Raffineria ISAB di Melilli (Siracusa). Un affare, non è una novità, di tangenti. Il Presidente della Regione Sicilia, l'on. Santi Nicita, è caduto proprio perché quel vecchio brutto affare di dieci anni fa, è... ribollito.
Già, ma in quell'affare anche il PCI ha preso i soldi. Domandi anche questo, onorevole Azzaro: come mai il giudice di Siracusa Roberto Campisi non abbia ancora provveduto ad inviare al Senato l'autorizzazione a procedere nei riguardi di Emanuele Macaluso, direttore de "l'Unità"?
Onorevole Azzaro: il senatore Macaluso è un uomo credibile, tale da dare concretezza al fronte anti-mafia?
* * *
Dalla Sicilia ai soldi riciclati della mafia nel Casinò di Saint Vincent.
Enzo Biagi, giornalista principe, ha preso una lodevole iniziativa. Essendo fra i vincitori del premio Saint Vincent di giornalismo, premio alimentato dai soldi del Casinò, ha scritto ai colleghi, vincitori come lui del premio, di restituire quei soldi cosi chiacchierati.
È una iniziativa da apprezzare.

 

Pare
non debba dirsi Italia
ma lo sfascio.
È un fatto che si allunga
urge studiarlo
perché esiste,
dopo sarà tardi.

(Eugenio Montale)

 

 

4 febbraio 1984
Berto Ricci: l'anticonformista e il credente


2 febbraio 1941: cadeva, combattendo contro gli inglesi, a Bir Gandula, in Cirenaica, Berto Ricci, fiorentino, poeta, scrittore, matematico.
Sono passati 43 anni dalla sua morte. Fu un fascista anticonformista, sanguigno, strafottente, spavaldo. Nella storia della letteratura italiana contemporanea il suo nome rimane. Lo stesso commentatore, nutrito di cultura marxista, è costretto a citarlo, a ricordarlo.
Il foglio da lui fondato e diretto si chiamò "l'Universale" (Gennaio 1931 - Agosto 1935).
* * *
Una sua nota -che intitolava "Avvisi"- del 3 giugno 1931: «Certe nostre noticine di cronaca locale, innocentissime del resto, non sono andate a genio a certi goletti duri di nostra conoscenza: son piaciute, in compenso, a vinai, meccanici, macellari. Benone. Noi facciamo questo "Universale" assai più per i vinai e i meccanici che per i goletti duri. E proseguiremo con quella schiettezza fiorentina che dà noia, pare, a tanti galantuomini indigeni e forestieri e seguiteremo a dir bene e male di quel che ci piace e non ci piace. Troppa gente c'è oggi in Italia che batte le mani a tutto e a tutti, e approva ogni cosa, e crede, o mostra di credere, che discutere un editto d'un podestà sia come discutere il regime, il che non è fascismo, anzi servilità vilissima e antifascismo morale. Che in Italia manchi la libertà è una frottola straniera: ma aiutata, purtroppo, da molte deboli schiene italiane».
* * *
In tempi di revisione del Concordato, la stampa è tornata a parlare della Chiesa e della sua storia. Ebbene, fate un po' un raffronto fra ciò che la stampa scrive oggi (dolciastre considerazioni!) e la noticina che, sempre in materia di Chiesa, scrisse Berto Ricci il 3 luglio 1931, cioè 53 anni fa.
«Noi preferiamo il clero dei tempi di Papa Innocenzo e di San Francesco, crudele e cuncubinario ma anche capace di sacri e profani eroismi, a questa grande burocrazia di onesti impiegati, e piccoli risparmiatori che somigliano maledettamente, nel tono e nei modi, e nella vita, a pastori protestanti; e ci ricordano un po' troppo le sagome ottocentesche dei nostri amici del cattolico e poetico Frontespizio, simili a comparse della Favorita o dell'Emani. Venga presto, per il bene della Cristianità, un Papa gagliardo e rivoluzionario che sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi la religione, lasci alle donnacciole le polemichette puntigliose, riporti nel mondo l'alito del Vangelo, riceva si i pellegrini d'America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere e entri, Vicario di Cristo, nelle case di San Frediano».
* * *
Giovanni Ansaldo nel suo "Dizionario degli Italiani illustri e meschini" (edizioni Longanesi, 1980), parlando di Berto Ricci, così scrive:
«Carattere risentito e fiero, non privo di una certa faziosità toscana, ma incapace di bassezze e di piccinerie, mente temprata dagli studi matematici e aperta ai più alti entusiasmi della poesia, il Ricci, in due piccoli periodici pubblicati a Firenze, "l'Universale", e poi "Campo di Marte", espose le sue idee in articoli brevi e taglienti che contrastavano stranamente con lo stile dei tempi. Mussolini in alto, come l'uomo che esprimeva meglio le esigenze di grandezza politica del popolo italiano, ma trattato senza piaggeria. E puntate di ogni sorta contro i gerarchi ai quali ricordava che «una adunata non è una Austerlitz» e ironie inesorabili contro le mani che applaudano tutto. Detestato da molti federali, sospettato di sovversivismo dai ministri che parlavano di andare verso il popolo, il Ricci fu sempre Ietto, e, entro certi limiti, protetto da Mussolini; al quale doveva apparire la personificazione dèi tipo d'uomo che il fascismo avrebbe dovuto creare, per adempiere davvero le proprie speranze».
* * *
Indro Montanelli, nella prefazione al suo "Primo tempo" (Casa Editrice Italiana, Milano 1936) scrive:
«Questo "Primo tempo" è nato quando non si parlava della guerra d'Africa, quando chi scrive aveva la stessa età o quasi del protagonista; il secondo tempo, e cioè la definitiva formazione di un anima e di un carattere in clima fascista, la racconterò dopo la guerra, se a Dio piaccia. Anzi, nel "Primo tempo", più del formarsi di una coscienza si narra di uno stato d'animo; e gli stati d'animo sono storia dell'animo e variano, e niente più di una guerra vale a superarli.
L'adesione incondizionata di tutta la nostra gioventù a Mussolini non è ossessione, come spesso si pensa Oltralpe e Oltreoceano, se bene la figura di Mussolini sia di tale grandezza da giustificare anche l'ossessione: ma è coscienza chiara della Rivoluzione (la maiuscola è di Indro Montanelli - n.d.r.) che in Lui (la maiuscola è di Indro Montanelli - n.d.r) si identifica. Coscienza che si forma: che si forma attraverso prove, talvolta attraverso sbandamenti e inabissamenti; ma sempre tesa verso un ideale che nella storia della società umana non trova riscontri. E può darsi che nello stato d'animo di Valerio (il protagonista del libro di Montanelli - n.d.r.) qualcuno ritrovi il proprio. Qualcuno che poi vuol dire molti. Questo libro -conclude Montanelli- è dedicato a Berto Ricci, uomo nuovo di Mussolini, senza deteriorazioni né ideali né sentimentali; a Diano Brocchi, a Guido Comis, a Romano Bilenchi, a Giuseppe Bianchini, della stessa razza».
(Indro Montanelli, 5 Gennaio 1936, anno XIV)
* * *
Ricordiamo oggi Berto Ricci, a 43 anni dalla sua morte, chiedendogli, ancora una volta, perdono per non essere stati, nemmeno in questo secondo dopoguerra, all'altezza della sua predicazione, della sua vita di credente, di Italiano purissimo.
* * *
Ho iniziato con il ricordo di Berto Ricci; un ricordo bello, virile, pulito. Non mi va scendere ora a commentare fatti che ci tocca vivere. Preferisco ritornare alla memoria, alla memoria storica. I giornali ci informano che dei sommozzatori israeliani hanno ritrovato, nelle acque di Haifa, lo scafo del Sommergibile "Sciré", con i resti dei 59 marinai italiani che, nell'agosto del 1942, perirono insieme alla loro nave, una delle più gloriose e prestigiose della Marina italiana, protagonista di imprese leggendarie. In primo luogo quella di Alessandria d'Egitto del 19 dicembre 1941 quando lo "Sciré", dopo una navigazione da manuale, al comando del Principe Valerio Borghese, emerse davanti al Porto di Alessandria, centrando il punto esatto da dove doveva iniziare la missione dei siluri-umani che doveva portare all'affondamento delle corazzate inglesi Queen Elisabeth e VaIiant.
La TV di casa nostra, anche recentemente, esibendo agli Italiani 1983 gli episodi più salienti delle battaglie combattute nella 2a guerra mondiale dai nostri soldati, si è lungamente soffermata, con perverso compiacimento, sulle sconfitte subite e sofferte dagli Italiani, in terra, in mare, in cielo. Nulla da eccepire. È un copione che rispetta la direttiva: la fuga dalla storia, il compiacimento del disimpegno, l'esaltazione del: tutti a casa!
Per ricordare i 59 marinai dello "Sciré", da 42 anni sepolti nella carcassa del loro sommergibile nel mare africano, caduti perché fedeli al dovere, al quale erano stati chiamati, non andrò a pescare possibili riconoscimenti fra le carte dell'Italia ufficiale, uscita dalla storia. Per ricordarli, ricorrerò ad un grande patriota che, 42 anni fa, nel momento drammatico per la propria Patria, l'Inghilterra, assumeva su di sé tutte le responsabilità del comando, promettendo agli inglesi: sofferenze, lacrime, sangue. Per rimanere nella storia.
Ebbene Wiston Churchill, parlando ai Comuni, in seduta segreta, nell'ora più difficile per l'Inghilterra sull'orlo della sconfitta, riferendo sulle dure prove a cui il Paese era sottoposto, così descrisse l'affondamento della Queen Elisabeth e della Valiant, da parte dei marinai italiani:
«Un altro colpo mancino stava per esserci vibrato. All'alba del 19 dicembre, mezza dozzina di Italiani, che indossavano scafandri di forma insolita, furono catturati mentre nuotavano nel porto di Alessandria d'Egitto. Estreme precauzioni erano state prese contro i vari tipi di uomini torpedine o di sommergibili comandati da un solo uomo che avevano tentato di penetrare nei nostri porti. Non solo vi sono reti e altri sbarramenti, ma scariche subacquee vengono ogni tanto fatte esplodere sulle rotte di sicurezza. Ciò nonostante, questi uomini erano riusciti a penetrare nel porto. Quattro ore dopo si verificarono delle esplosioni nelle chiglie della Queen Elisabeth e della Valiant, provocate da bombe adesive, applicate dai marinai italiani con straordinario coraggio e ingegnosità, il cui effetto fu di aprire delle larghe falle nelle chiglie delle due navi, mettendole fuori combattimento». (Wiston Churchill, Camera dei Comuni, 23 aprile 1942).
* * *
Sulla bara-ossario dello "Sciré", idealmente, scriveremo queste parole dell'avversario illustre, dello statista combattente, del patriota indomito che ai Marinai italiani rende cavallerescamente, omaggio. Per il loro valore. Per il loro coraggio.
Per il resto, lasciamo lo "Sciré" là dove è. Sono d'accordo con l'ammiraglio Giuseppe Rosselli Lorenzini che fece la guerra sui sommergibili: «Per un marinaio non esiste tomba migliore del mare». Lasciamoli là. In pace. Questa Italia non capirebbe.


18 febbraio 1984
I burattinai sul «loggione»


«La mia prima fondamentale opinione è questa: la loggia P2 è un elemento del sistema massonico. Un sistema che, scoperti gli elenchi della P2, si è cercato di tenere in piedi puntando su Roberto Calvi, al cui fianco erano stati messi personaggi come Carboni, fiduciario di Corona e Pazienza, proprio per assicurare una continuità. Il delitto Calvi può essere nato all'interno di una certa criminalità legata a questi personaggi».
* * *
È la diagnosi che Bettino Craxi rilascia davanti alla Commissione P2 (8.2.84). Se è vero, ed io ritengo sia vero, che secondo Craxi, fra P2 e massoneria ufficiale esiste una strettissima continuità, mi meraviglia il fatto che il Governo sia ancora in piedi. E mi spiego.
* * *
Quando gli elenchi vengono trovati nella villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi il 17 marzo 1981, è in piedi il Governo Forlani (DC-PSL-PRI-PSDI). Sulla vicenda degli elenchi non consegnati, o consegnati in ritardo, spunta la «questione morale», sulla quale Giovanni Spadolini costruirà l'orditura che lo porterà a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio. Le dimissioni di Forlani sono del 6.5.81; il veto di Spadolini per il reincarico a Forlani e, subito dopo, l'investitura di Spadolini da parte di Pertini, sono del 28.6.81. Cioè voglio dire che Giovanni Spadolini diventa presidente del Consiglio, sfruttando vistosamente una faida massonica, ma che faida, in fondo, non è. È un semplice trapasso di poteri.
* * *
La continuità della P2, ormai sputtanata, afferma Craxi, è assicurata da Corona, tramite Carboni e soci. È un passaggio di consegne. Cadono certe teste, ma ne risorgono di nuove, senza che nulla cambi. E se è vero che Giovanni Spadolini, da presidente del Consiglio, aiuta l'amico fraterno e di partito Armando Corona a salire sul seggio di Gran Maestro della massoneria; è altrettanto vero che Corona continua, sotto il governo Spadolini, le «operazioni» che, ieri, erano di esclusiva pertinenza di Lido Gelli. E con gli stessi metodi. Servendosi di personaggi, come Carboni e Pazienza, che della criminalità organizzata sono espressioni.
* * *
Giovanni Spadolini non può venire ora a raccontarci di avere «scaricato» Armandino Corona. Troppo facile oggi, a sputtanatura avvenuta. Ma prima, quando «Armandino» girava per il Palazzo con il placet repubblicano e aveva rapporti, tramite i faccendieri Carboni e Pazienza, con Ciriaco De Mita, con l'editore Caracciolo, con monsignor Hillary, tutti personaggi impegnati a... proteggere Roberto Calvi (e i soldi di cui disponeva) e a mettere le mani sull'impero editoriale dei Rizzoli, quando tutto ciò accadeva, subito dopo che Corona era stato ricevuto (e lodato) al Quirinale, per Spadolini andava bene, benissimo. Le precisazioni, le ricusazioni sono venute. Sì, ma dopo. Quando Calvi altro non era se non un relitto. Il relitto che si doveva poi trovare appeso sotto il ponte dei Frati neri, a Londra. Alle due di notte del 17.6.1982.
* * *
E quando Craxi afferma che «Flavio Carboni rappresenta il filo della continuità della protezione massonica, il fiduciario di Corona presso Calvi», che altro vuol dire se non che il punto nevralgico dì tutta la vicenda P2 è questo, e cioè che, più che Licio Gelli, sono Flavio Carboni, sono Corona e soci, ì Belzebù della situazione?
* * *
Il banchiere Calvi» -afferma Bettino Craxi- «quando crolla la P2, ricerca, sul medesimo binario massonico, la ricostituzione di una rete protettiva. Trattando della questione del "Corriere della Sera", per esempio, si arriva (è sempre Craxi che parla) ad una sistemazione proprietaria, in cui l'Istituzione (la P2, o meglio la massoneria in genere - N.d.R.) compare a titolo di garante nella figura di un fiduciario, cui viene intestato gratuitamente dai proprietari un pacchetto azionario che diventa arbitro della situazione, il famoso 10,2%, che, è inutile farla lunga, era il pegno dato all'Istituzione (la P2 - N.d.R.) come garanzia che arbitrerà il governo di questo controllo».
* * *
Che vuol dire Craxi? A chi e a che cosa si riferisce? Presto detto: al periodo in cui Tassan Din diviene, con quel 10,2% e per conto della P2, arbitro della situazione circa il destino del "Corriere della Sera" e delle altre testate Rizzoli. Craxi si riferisce, per precisare meglio, all'accordo siglato il 29 aprile 1981 fra il gruppo editoriale Rizzoli e il presidente della finanziaria Centrale, Roberto Calvi. In quell'accordo -che Craxi afferma pilotato dalla P2- vi sono due punti, il 5° e il 6°, in cui gli azionisti, nelle mani tutti del piduista Tassan Din, indicano come «garante» il repubblicano e attuale ministro delle Finanze Bruno Visentini, affidandogli anche il compito di trovare altri azionisti.
* * *
La notizia dell'accordo "Calvi - Rizzoli - Corriere della Sera - Visentini", di cui parla Craxi, qualificandolo operazione P2, è così commentata da "l'Espresso" (3 maggio 1981):
«I primi elogi sono arrivati dai tre ministri finanziari: Andreatta, Reviglio e La Malfa, i quali erano stati informativi tempestivamente da Angelo Rizzoli; poi ha telefonato Adalberto Minucci, della direzione del PCI, anche egli per complimentarsi e giovedì, infine, il presidente Pertini ha confidato al vicedirettore del "Corriere" Gaspare Barbiellini Amidei, invitato a colazione al Quirinale, che quella era la migliore notizia che avesse ricevuto nella giornata».
* * *
Ci si chiede nei giorni di quell'accordo (29.4.81): ma chi sono i soci che hanno portato, o si sono impegnati a portare i loro denari alla Rizzoli?
Risponde Bruno Tassan Din, il piduista secondo Bettino Craxi: «Sono impossibilitato a soddisfare queste banali curiosità, neanche io so chi siano questi industriali e comunque non c'è da preoccuparsi dal momento che la Rizzoli è diventata una azienda sana (sic! - N.d.R.) e chi vi entra deve sottostare alle regole fissate da uno statuto fresco di stampa fatto apposta per impedire agli azionisti di interferire nella compilazione dei giornali della casa» (leggi P2 - N.d.R.).
("l'Espresso", 3.5.1981)
* * *
Ora Bettino Craxi, presidente del Consiglio in sostanza, afferma: Guardate, quell'accordo "Calvi - Rizzoli - Visentini" era un accordo massonico. Lo portava avanti la stessa P2 che, benché sotto accusa, si era «rigenerata» sullo stesso tessuto (massonico). Tanto che la sistemazione proprietaria è fatta in modo tale che il suo fiduciario (della P2), precisamente Bruno Tassan Din, fra l'altro vicino al PCI, è messo, azionariamente, nella condizione dì gestire il governo del gruppo Rizzoli.
E Pertini esclama: «Ma questa è la più bella notizia della giornata!».
* * *
Spadolini, Corona, Carboni, De Mita. Monsignor Hillary (del Vaticano), Caracciolo-Scalfari, Calvi, Visentini (e soci).
È uno spaccato che l'attuale presidente del Consiglio mette, di sua iniziativa, sotto accusa, dicendo alla Commissione P2:
È lì che dovete cercare. E lì che c'è il Belzebù. Fino ad ora le vostre indagini sono risultate fasulle, perlomeno scontate. Hanno puntato su falsi scopi, o quanto meno su vicende di cui già conoscevamo tutto. Quello che deve venire fuori è ben altro. È la P2 rigenerata sul tessuto massonico ufficiale, quella che dovete mettere sotto torchio. Ed è una P2 che opera. Eccome se opera! Non solo ai soliti livelli, ma perfino nella Commissione P2. Bando, perciò, alle ipocrisie. E ai salvataggi pilotati. Anche i radicali la smettano di fare i puri. Perché hanno fatto silenzio (e continuano a fare silenzio), per esempio, sul caso Zilletti? Chi vogliono coprire? E perché si tace su Lorenzino? E perché De Mita, amico di Carboni, viene risparmiato? E le bobine di Carboni? Dimenticate nel cassetto? E perché mai?
* * *
Questo il senso (chiarissimo) delle dichiarazioni di Bettino Craxi davanti alla Commissione P2.
Mi sono chiesto all'inizio, come faccia il Governo a restare in piedi in una situazione simile.
Infatti quando Craxi chiama Corona allude a Spadolini. E Spadolini è ministro della Difesa nel governo Craxi. Quando Craxi parla del tentativo di Calvi dell'aprile 1981 di sistemare il "Corriere della Sera" con una operazione concepita dai piduisti di vertice, chiama in causa Tassan Din, ma allude a Bruno Visentini, che di quella operazione era indicato come garante. E Bruno Visentini è ministro delle Finanze nel governo Craxi.
Quando Craxi parla insistentemente del faccendiere Flavio Carboni, faccendiere di Corona e legato alla malavita, chiama in causa Ciriaco De Mita, di cui Carboni sì fece sponsor elettorale nei riguardi dell'altro gruppo editoriale, "l'Espresso-Repubblica". E nella fase della elezione a segretario nazionale della DC, e durante l'ultima competizione politica del giugno 1983.
Se a tutto questo aggiungete che Forlani, che si volle «fuori» nel maggio del 1981 per questioni morali, è in questo governo vicepresidente del Consiglio, accanto a Craxi, Spadolini e Visentini, credo che ve ne sia abbastanza per dire: ma che razza di governo è questo? Mai come adesso gli Italiani sono stati presi per i... fondelli.
* * *
Per riassumere. Da Calvi si sono fatti dare i soldi: la DC, il PCI, il PSI. Hanno preso i soldi i Rizzoli, vicini al PRI; Tassan Din, vicino al PCI; Flavio Carboni vicino alla massoneria di Corona, amico di Spadolini. Con i soldi di Calvi sono stati pagati gli stipendi ai giornalisti del "Corriere della Sera". Sette miliardi ha avuto da Calvi il presidente dell'Olivetti Carlo De Benedetti, amico di Berlinguer e di Scalfari, per andarsene dall'Ambrosiano dopo un... parcheggio, nel suo consiglio di amministrazione, di appena due mesi.
Ora Craxi dice: è qui che dovete guardare. Belzebù è qui. Prendersela con il solo Licio Gelli non ha senso. Ma la Commissione sulla P2 guarda da tutt'altra parte. Non cerca la verità.
* * *
È la tesi di Lido Gelli «fascista» che mette su la P2 onde operare il «golpe»? Dove è andata a finire? Nessuno è rimasto più a sostenerla. Gli riderebbero sul muso. A Gelli, e ai suoi simili, piace «questa» Repubblica. Immensamente. Tutte le porte gli erano aperte: dal Quirinale a Palazzo Chigi, al Vaticano. E dove troverebbero l'eguale?
 

13 marzo 1984
Si sta avverando la profezia di Moro?


Qual'è, a mio modesto parere, la chiave di lettura, la più appropriata, del recente congresso nazionale della DC?
È che si avvera la profezia di Aldo Moro: «Senza di me non farete più nulla. Muoio, se così deciderà il mio partito, ma questo bagno di sangue non andrà bene né a Zaccagnini, né ad Andreotti, né alla DC ...».
(Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro, pagina 110, volume II, Doc. XXIII, n° 5)
* * *
Senza di me non farete più nulla. «Ho un immenso piacere di avervi perduto e mi auguro che tutti vi perdano, con la stessa gioia con la quale io vi ho perduto».
(idem, pagina 154)
E qui la chiave di lettura del congresso. Aldo Moro era l'unico uomo politico capace di guidare, nelle sue tortuosità, un partito come la DC, partito che lui stesso aveva costruito a sua immagine. Fin dal 1962. Trasformandolo da partito social-cristiano a partito di potere. È lui che, autentico prestigiatore della crisi della decadenza, trova, inventa le formule perché la DC resti, eterna, al potere.
* * *
E lui che tiene in sella tutti i capi storici della DC, a cominciare da Andreotti. Sono le sue «formule» magiche che evitano alla DC la frana totale. Sono le sue formule stregate che, consentendo alla DC di riprodursi come potere (la nuova fede) in qualsiasi circostanza, perfino nella sconfitta, decompongono gli altri, i propri dirimpettai. Qui è la grandezza di Aldo Moro. Qui sta la sua consapevolezza: Volete che io muoia? E sta bene. Ho capito. Voi ritenete che, scomparso Moro, proprio sulla sua morte, riscatterete, rinnoverete, rigenererete la DC. Voi ritenete, servendovi del mio cadavere, di cogliere l'occasione storica di riprodurre la DC, il suo eterno potere. Ebbene, io vi dico che sbagliate. Perdendomi, vi perderete. Non farete più nulla, volendo la mia morte. Sarà la vostra fine.
È ciò che Aldo Moro scrive dalla prigione delle BR.
* * *
Fateci caso: sul frontone del cimitero di campagna in cui Aldo Moro viene seppellito, c'è una scritta impressionante: "Nemini parco". Cioè non perdono, non risparmio nessuno. Un motto attribuito alla imparzialità della morte, che prima o poi arriva per tutti. Ma Aldo Moro dice le stesse cose ai suoi amici democristiani. In una lettera a Zaccagnini, allora segretario della DC, scrive: «Non creda la DC di avere chiuso il suo problema liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa. Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità, né uomini di partito ...» (idem, pagina 104).
* * *
«Io ci sarò come punto irriducibile di contestazione». È la profezia. Si faccia attenzione: è da allora che la DC non trova più una bussola orientativa. Incespica. Brancola. Cade. Pensava di riscattarsi sulla morte di Moro, ma è la morte di Moro che la fa franare. Anche all'EUR è una frana...
* * *
Piccoli: «De Mita deve sapere che se vorrà decidere da solo dovremo scegliere insieme».
Bisaglia: «Non mi piacciono le tentazioni monocratiche del Segretario. Io chiedo una direzione collegiale del partito».
Zaccagnini: «Caro De Mita avrai in noi dei sostenitori convinti, ma gelosi della loro autonomia di giudizio».
("Corriere della Sera", 26.2.84)
* * *
Moro, lui solo, con la sua insuperabile arte levantina, avrebbe potuto tenerli insieme. Non c'è più. E De Mita non è Moro. E i tempi di De Mita non sono più quelli di Moro. Siamo passati ad un'altra fase storica. Si chiude con Moro un'epoca di disfacimento. Il tempo delle mollezze, delle mediazioni a qualunque costo, che ci hanno regalato crisi, viltà, morte, si è consumato. Ho l'impressione che la ruota della storia, anche per l'Italia che ne è stata espulsa, si rimetta in moto. Siamo alle scelte. A scelte dure. Ecco perché la DC, la molle, la mediatrice DC di Aldo Moro, costruita sulle macerie delle ideologie e impastata dell'unità del potere, non serve più. I tempi si fanno trasparenti. La doppiezza è di ieri.
* * *
Giulio Andreotti, dalla tribuna del congresso DC, ha sostenuto, incondizionatamente, la candidatura di Ciriaco De Mita. È stato il suo, fra quelli pronunciati dai Capi storici della DC, un intervento senza riserve a favore dell'uomo politico avellinese.
Anche qui soccorre Aldo Moro. «Un regista freddo, imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana», scrisse Aldo Moro di Giulio Andreotti.
Un regista freddo. Giusto. Perché tutti hanno capito che l'intervento di Giulio Andreotti, più che al congresso DC, puntasse «a mettere qualche mattone in più alla scala che sta costruendo e che dovrebbe, quando sarà il momento, farlo salire al Quirinale».
("la Repubblica", 1.3.84)
* * *
«La sinistra DC rimprovera a De Mita, fra l'altro, di non aver dato nemmeno un cenno di risposta al discorso di Zaccagnini che ha rappresentato un vero e proprio programma politico». ("la Repubblica", 1.3.84).
Aldo Moro: «La pallida ombra di Zaccagnini, indolente senza dolore, preoccupato senza preoccupazioni, appassionato senza passioni, il peggior segretario che abbia avuto la DC».
(Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro, pagina 153, volume 11, Doc. XXIII, n° 5)
* * *
«A Piccoli gli sono rimasti Gava, Gaspari, Pontello, tutti fedeli sostenitori di Ciriaco De Mita». ("la Repubblica", 1.3.84)
Aldo Moro: «Onorevole Piccoli, come è insondabile il suo amore che si risolve sempre in odio. Lui sbaglia da sempre e sbaglierà sempre, perché è costituzionalmente chiamato all'errore».
(idem, pagine 153-154)
* * *
«Parla Galloni e chiede a De Mita di tenere la DC al riparo dell'ambiguità socialista e dalle aspirazioni dei laici alleati. Per De Mita senza riserve, perché De Mita e Zaccagnini sono una cosa sola». ("la Repubblica", 29.2.84)
Aldo Moro: «Onorevole Galloni, volto gesuitico che sa tutto, ma, sapendo tutto, nulla sa della vita e dell' amore».
(idem, pagina 154)
* * *
«Eccolo il rinnovamento di De Mita. Ha sfasciato tutto. Ma come ha potuto lui, speranza della sinistra e del rinnovamento ideologico, diventare ostaggio di Gava e Bisaglia?».
(Calogero Mannino, "Corriere della Sera", 1.3.84)
* * *
«Ciriaco De Mita dice di apprezzare l'inchiostro indipendente, il giornalismo non dimezzato. Sono balle, replica Donat Cattin. Il 22 gennaio l'ex petroliere Monti è a pranzo da Bisaglia e ci trova Ciriaco De Mita. Notevoli rimostranze di De Mita per gli scritti di Enzo Bettiza e Francesco Damato su "la Nazione" (di proprietà di Monti - N.d.R.) Monti se ne va impensierito. Viva la libertà di stampa!».
(Giampaolo Pansa, "la Repubblica", 28.2.84)
* * *
Nella vita di Ciriaco De Mita c'è un destino che lo porta, alla vigilia di prove importanti, ad incontrare i padroni della carta stampata. E da quegli incontri ne esce, puntualmente, sputtanato.
Anche alla vigilia dell'altro congresso DC (1982), che lo vide eletto, per la prima volta, segretario nazionale della DC, fu invitato a cena. E si trovò accanto, oltre all'editore de "La Repubblica" e de "l'Espresso" Carlo Caracciolo, anche il Gran Maestro della massoneria Armando Corona e Monsignor Hillary del Vaticano. L'abitazione (via Guidi) in cui l'incontro avveniva: quella di Flavio Carboni, un portaborse, oggi in galera, imputato di reati vari, fra i quali l'omicidio.

 

17 marzo 1984
Cadaveri e assassini eccellenti


Michele Pantaleone, il famoso mafiologo, insiste. Sia nella prefazione al libro di Michele Falzone "La mafia: dal feudo all'eccidio di via Carini" (Flaccovio editore, 1983); sia su "Pagina" (febbraio-marzo 1984), porta spavaldamente avanti la tesi, per cui la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia, che ha chiuso i suoi lavori il 4 febbraio 1976, decidendo di tenere segrete le schede da essa stessa compilate, e riguardanti i politici, ha praticamente detto «no» alla verità.
* * *
Nel dicembre u.s. a Reggio Calabria, nel convegno promosso dalle Regioni Sicilia e Calabria sulla «mafia», Michele Pantaleone, ripetendo dalla tribuna la tesi su esposta, e con un vigore che andava al di là di ogni misura, venne avvicinato dal sottoscritto. E gli fu fatto presente, con tutto il garbo possibile e senza, per carità, difendere l'operato della Commissione Antimafia di cui avevo fatto parte, che non era possibile dare corso alla pubblicazione di quelle schede perché compilate, in gran parte, anche su denunce anonime, non verificate. E tanto vera era la mia affermazione che proprio la scheda intestata a Michele Pantaleone, di cui ero in possesso, dimostrava che proprio lui, se le schede fossero state pubblicate, sarebbe stato il primo ad essere «sputtanato». Perché si ha voglia di dire che quelle sono calunnie; nei tempi odierni vigoreggia il motto: calunniate, calunniate, qualcosa resterà.
* * *
Michele Pantaleone non si è dato per vinto e, per giunta, mi rilascia la dichiarazione che segue:
«Onorevole Giuseppe Niccolai, componente la Commissione Antimafia. Mi riferisco alla sua dichiarazione fatta poco fa relativa alla scheda in suo possesso.
La invito e La autorizzo a pubblicarla e segnalarmi il giornale sul quale sarà pubblicata.
Colgo l'occasione per sollecitare la sua benevola attenzione per un suo intervento in sede parlamentare per la pubblicazione di tutte le altre schede delle quali si fa cenno nella relazione dell'antimafia alle pagine 140 e 141, voi. XXIII n° 2, septies.
La prego gradire cordiali saluti. Reggio Calabria, 17 dicembre 1983, ore 17,15 f.to Michele Pantaleone».
* * *
Ripeto qui quello che a Pantaleone dissi a voce. E cioè che nel mio comportamento non vi era nulla che potesse essere interpretato come ostilità nei suoi riguardi. Anche perché quando in Commissione Antimafia venne discussa (5.2.75, pagina 1041, Doc. XXIII n° 2, VII legislatura) la richiesta di dare, o no, tutto ciò che noi, come Commissione, avevamo raccolto sul ministro Gioia, alla 2a Sezione Penale del Tribunale di Torino, dove era in corso il procedimento intentato per calunnia dal ministro Gioia contro Michele Pantaleone, fu proprio il sottoscritto (solo!) a presentare un ordine del giorno che autorizzava la Commissione antimafia «a mettere a disposizione dei magistrati torinesi i documenti in suo possesso e da consultare con le modalità concesse ai membri della Commissione».
* * *
E se quell'ordine del giorno venne respinto, Michele Pantaleone non può prendersela con il sottoscritto, ma se mai con l'intera Commissione che non ne volle sapere. Dissero «no» anche Pio La Torre, anche il caro amico mio, l'indipendente eletto nelle liste del PCI, il magistrato Cesare Terranova, entrambi poi assassinati dalla mafia.
La sinistra, dunque, fu compatta nel dire no. Ed è qui che faccio io un primo rilievo a Michele Pantaleone. E cioè quello che, nelle sue analisi sulla mafia, ha sempre evitato di scrivere alcunché che potesse nuocere all'immagine della sinistra politica, anche quando questa «sinistra» puzzava (tremendamente!) di mafia. Michele Pantaleone, il mafiologo lo fa un po' a senso unico. A sinistra non guarda, non vede, non sente. È davvero un peccato.
* * *
Ma torniamo alle schede. Pantaleone mi autorizza a pubblicare la sua. Sono in imbarazzo. Pubblicare o non pubblicare?
Decido di no. Le notizie raccolte nella scheda sono talmente rozze che le lascio lì. D'altra parte lo stesso Pantaleone conosce perfettamente quanto in quella scheda c'è scritto; al punto che, nel lontano febbraio 1975, quando il periodico "Il Settimanale" pubblicò parte di quello che in quella scheda c'era scritto, sporse querela per diffamazione (anzi: come è finita quella vertenza?).
Ora la domanda è lecita: quando Pantaleone chiede perentoriamente, e in nome della verità, che tutte le schede vengano rese pubbliche, e sono le stesse per cui lui si lamenta e querela, che dovrebbero dire gli altri «politici» che, al pari e come lui, in quelle schede sono rappresentati?
* * *
E bene quindi che Michele Pantaleone lasci in... pace quelle schede. Invece può fare un'altra cosa, se lo crede. Non io, ma Alberto Giovannini, ne sono certo, e prontissimo a mettergli a disposizione il giornale per quanto lui vorrà replicare. Si tratta di questo.
Michele Pantaleone, uomo di sinistra da sempre, nella citata intervista su "Pagina", afferma:
«Sono convinto che gli ultimi omicidi, le cui vittime sono state "eccellenti", sono stati commessi per la volontà di mandanti "eccellenti"».
Ebbene, la frase: «Non ci sono cadaveri eccellenti senza assassini eccellenti», non è di Michele Pantaleone, ma del prof. Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale assassinato. E tale frase è contenuta in questa riflessione (lucidissima!) apparsa su "la Repubblica" (18.XII.82) sotto il titolo «Pax mafiosa»:
«La mafia, è bene ricordarlo diventa più potente nel decennio in cui cresce, e non di poco, la sinistra. C'è un interrogativo più inquietante. Quali sono i princìpi che regolano tattiche, strategie, formule, e soprattutto alleanze, della sinistra in quel periodo? Forse le leggi della politica che lì essa pratica sono le stesse in cui può navigare il potere mafioso? Il fatto è che è cresciuta la compenetrazione della mafia col potere e per questo si possono colpire le istituzioni. Non ci sono, cadaveri eccellenti senza assassini eccellenti. Se ciò è vero, ed è vero che il salto qualitativo si realizza nel decennio, c'è a sinistra un approccio al potere e alla politica che va criticato impietosamente. Senza di che la denuncia delle responsabilità democristiana resterà sacrosanta quanto inefficace».
* * *
Provi un po', Michele Pantaleone, a rispondere al quesito di Nando Dalla Chiesa: perché mafia e sinistra crescono insieme? Perché il salto qualitativo della mafia si realizza nel decennio in cui la sinistra politica aumenta il suo potere?
È nel contesto di questo interrogativo che occorre porne altri e tutti molto inquietanti.
È proprio vero che Pio La Torre e Piersanti Mattarella si erano posti fuori ogni «compromesso»?
È vero: sono caduti sotto il piombo mafioso. Ci togliamo il cappello. Però il doveroso atto di omaggio si ferma qui. La morte non può impedirci di ricercare la verità, di capire come stanno le cose. Non ci può impedire, per esempio, di scrivere, in contrasto con le gazzette democratiche, che la relazione di minoranza presentata dal PCI, a firma di Pio La Torre, è una relazione che non cerca affatto la verità, ma il compromesso con la DC. La data dice tutto: 2 febbraio 1976. Chi governava? Aldo Moro. E in Sicilia l'alleanza DC-PCI vigoreggiava. Anche negli appalti.
* * *
Sedici dicembre 1974, la Commissione antimafia è scesa in Sicilia. Per indagare. Pio La Torre (siamo in Prefettura, e scorrono i tempi del compromesso storico) dichiara:
«Do atto che in questi ultimi tempi nella DC siciliana c'è un processo critico, autocritico, di ripensamento e quindi c'è uno sforzo di rinnovamento che si tenta in mezzo a mille difficoltà, di portare avanti ...».
«Non vi è dubbio che la presa della mafia e il suo potere capillare di controllo sull'elettorato in Sicilia, si siano ridotti e di sono ridotti per tutto quello di progresso e di sviluppo che in Sicilia c'è stato».
Così Pio La Torre nel dicembre 1974. Cresceva la sinistra, e secondo Pio La Torre, insieme a questa crescita, si riduceva la mafia, e tutto perchè DC e PCI andavano sottobraccio.
Ahimè, sono venuti poi gli assassinati eccellenti, uno di questi, Pio La Torre. Nando Dalla Chiesa, che è uomo di sinistra: «Il fatto è che, con la crescita della sinistra, la compenetrazione della mafia col potere è aumentata, ed è per questo che si possono colpire le istituzioni. Non ci sono cadaveri eccellenti senza assassini eccellenti».
Michele Pantaleone è pregato di rispondere. E per ciò che riguarda l'assassinio di Pio La Torre dia, intanto, una guardatina approfondita all'appalto riguardante la costruzione del Palazzo dei Congressi in Palermo. Un appalto di diversi miliardi. Una ditta, cara a sinistra, data per vincente, e che poi non ce la fa... Le interrogazioni a Palazzo dei Normanni. Un materiale da raccogliere. A Michele Pantaleone non mancano certo le entrature per osservare «bene» come sono andate le cose.

 

24 marzo 1984
Impronte digitali sporche di petrolio


Procedimento penale n. 1774/80 R. G. Garrone Riccardo più 44.
Di che si tratta?
Diciamolo con le parole contenute nella requisitoria del Pubblico Ministero dott. Dolcino Favi, della Procura della Repubblica di Siracusa.
Gli elementi di prova che l'istruttoria ha evidenziato, e che riguardano la costruzione della Raffineria ISAB del gruppo Garrone di Genova, in Melilli (Siracusa), prospettano, per i loro contenuti, «un caso scolastico di corruzione».
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Caso scolastico di corruzione, da manuale. Il "Secolo d'Italia", su questa vicenda, c'è tornato più volte; ora c'è la requisitoria del PM che ci racconta la storia. Possiamo parlarne con giudizi più pertinenti.
I fatti risalgono a 10 anni fa. La Guardia di Finanza di Genova, su disposizione della Magistratura, effettua il 10/1/74, indagini presso dirigenti del gruppo petrolifero Garrone onde accertare violazioni di legge in materia di prodotti petroliferi.
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Dai cassetti salta fuori un tabulato in cui sono indicate delle spese extra non documentabili; spese impegnate nel corrompere ministri, giornali, partiti, uomini politici, portaborse. Il tutto, perchè alla società ISAB venissero concesse, velocemente e senza storie, le licenze di legge per costruire la raffineria di Melilli.
Direte: roba vecchia. Si, è roba vecchia ma non è male ritornarci sopra. E per due ordini di motivi. Il primo, ahimè, per rinnovare il ricordo della vergogna di avere, attraverso tangenti, massacrato uno dei paesaggi più suggestivi d'Italia, il golfo di Melilli. Il secondo perché, fra coloro che pigliano i soldi per favorire l'operazione-massacro dei petrolieri c'è, inequivocabilmente, anche il PCI.
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La cifra globale, elargita dai corruttori ai corrotti, e che si è riusciti approssimativamente a quantificare, ammonta a due miliardi e 677 milioni (valori del 1971).
Come al solito la parte del leone la fa la DC nazionale. A tale riguardo, il magistrato, nella sua requisitoria, ci fa sapere che «era noto negli ambienti imprenditoriali che la DC, a livello nazionale, concordava tangenti con gli interessati, in misura di lire 350 lire per tonnellata di concessa raffinazione».
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Ma le elargizioni, oltre andare alla DC, entrano, nelle tasche dell'ex-ministro, ora defunto Gioia; del ministro, ora in carica, Nino Gullotti, oltre a personaggi dell'Assemblea Siciliana come l'ex-presidente dell'Assemblea Nicita Santi, funzionari, sindaci, presidenti di amministrazioni provinciali, perfino della Confindustria. Poi, nel tabulato ritrovato, fra i beneficiati, il PCI, il PSI, il PSIUP, il giornale comunista "l'Ora" di Palermo. Pigliavano i quattrini con il compito di dire «si» all'operazione-massacro e di tenere «buona» la pubblica opinione.
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E i pagamenti, scrive il magistrato, avvengono contestualmente al rilascio delle licenze, delle modifiche del Piano Regolatore, dei decreti regionali. Infatti il versamento di due miliardi e 19 milioni ai corrotti, avviene alcuni giorni prima del decreto assessoriale n. 537 del 21.5.71 dell'assessore Savino Fagone, che concede la licenza all'ISAB, quella fondamentale, e dalla quale dovevano partire poi tutti gli altri atti di legge.
Prima il malloppo, poi il decreto.
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C'è di più. Lo scrive il magistrato. L'assessore regionale allo Sviluppo economico, Giovanni Tepedino del PRI (il partito della moralizzazione!), se la prende con gli uffici perchè (testuale) «non si lasciano condizionare sufficientemente dalle sue pressioni».
Non solo, ma il parere, obbligatorio per legge, dell'assessore Tepedino fu «apertamente» (sic) contrattato nei suoi contenuti con l'ISAB e il decreto 90/4 del Presidente della Regione, che serviva per legittimare atti amministrativi precedenti e poneva le basi per il rinnovo della licenza dopo la scadenza triennale, fu comunicato all'ISAB prima della sua emanazione.
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E facevano le cose in famiglia. Si è scritto che l'ISAB sborsa due miliardi e 19 milioni, subito dopo che l'assessore Savino Fagone, socialista, poi condannato per truffa e peculato, emana il decreto regionale concessivo. La somma a chi va? Alla DC. E poi, con un «rituale» interno, di cui non si conoscono i criteri, avviene la spartizione: tanto alla DC, tanto al PSI, tanto al PCI, tanto agli assessori Fagone, Tepedino, Mangione, tanto al PSIUP, tanto al giornale "l'Ora", tanto alla Confindustria palermitana. Siamo al livello della «banda». Indiscutibilmente, in queste faccende, è più... nobile la mafia. Almeno i suoi affari non li avvolge nella carta dei princìpi e delle idee, così come fanno i partiti e gli uomini politici. La mafia i quattrini li rapina. E lo dice. Quest'altri rapinano e pretendono di governarci e di farci la morale.
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«Il piano corruttivo», scrive il giudice, «ha interessato tutto il complesso delle forze politiche alle quali di volta in volta i singoli amministratori appartenevano. A parte quanto si dirà la evidenza di un coinvolgimento di tutte le forze politiche, esclusa la destra, a livello regionale, è anche questo un dato conclusivo sul quale non può muoversi alcun dubbio».
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Il coinvolgimento di tutte le forze politiche, eccetto la destra, cosi come il giudice scrive dopo dieci anni di indagini, aveva portato alla ribalta la posizione dell'attuale direttore de "I'Unità", Emanuele Macaluso che, essendo all'epoca dei fatti criminosi, segretario regionale dei PCI, veniva indicato come il probabile percettore della somma arrivata al PCI. A tale proposito sarà bene ascoltare il giudice.
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«Il quinto gruppo di indicazioni (raccolte nel tabulato indicante le somme elargite, tabulato trovato nell'abitazione dei Garrone - N.d.R.) riguardava II PCI, il PSI, e il PSIUP, e ha posto sin dall'inizio -scrive il magistrato Dolcino Favi- notevoli difficoltà per la individuazione concreta delle persone fisiche dei percettori delle somme indicate nel tabulato, e ciò per l'ovvia considerazione che relativamente a queste voci di finanziamento non sono stati indicati i nominativi: di fatto l'indagine si è arrestata di fronte ad un compatto muro di reticenza».
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Così il giudice. Come rimediare? Il magistrato, nella sua requisitoria, fa questa considerazione. I soldi, otre la maggioranza dell'Assemblea regionale, li ha presi anche la minoranza comunista. Su questo, dice il giudice, c'è certezza. Infatti lo stesso PCI è passato dal no alla costruzione della raffineria al si. Ma chi è il percettore diretto di quei denari che, con la sua autorità, fa sì che il Pei si converta dal no al sì?
Il giudice argomenta: e chi può essere se non il segretario regionale dell'epoca? E, dato che segretario regionale del PCI, era, a quel tempo, Emanuele Macaluso, ecco come il nome dell'attuale direttore de "l'Unità" compariva fra i possibili incriminati.
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Ora, come la stampa ha riportato, il Pubblico Ministero ha chiesto al Giudice istruttore di assolvere Emanuele Macaluso. E Io fa con queste testuali parole:
«In sostanza in questo caso il tabulato di per sé, a una obiettiva valutazione, non dà elementi sufficienti alla implicazione di responsabilità che prima che politiche e collettive debbono essere specifiche ed individuali, e pertanto la prova si arresta e non valica il limite della certezza processuale. È ben vero, e ciò occorre ribadirlo, che il tabulato è prova certa della effettività, come più volte si è sopra sostenuto, dei finanziamenti ed è altrettanto prova certa del coinvolgimento dei partiti che vi sono indicati, ma tuttavia la considerazione che sopra si è fatta impedisce di pervenire a questo proposito a conclusioni sufficientemente certe e pertanto deve richiedersi il proscioglimento di Emanuele Macaluso con formula di merito, per non essere stata provata la responsabilità dello stesso o, subordinatamente, con altra formula anche dubitativa secondo l'apprezzamento e la valutazione del Giudice istruttore che potrà considerare insussistenti o semplicemente insufficiente la prova delle responsabilità».
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Il giudice dice: i quattrini il PCI li ha presi. Non ci sono dubbi. C'è certezza. Che li abbia presi Emanuele Macaluso non c'è la prova certa, ci sono dubbi. Nell'incertezza si assolva.
Ma dato che l'on. Macaluso -come ci informa "l'Unità" (17.2.84)- è stato ascoltato dal Giudice, che cosa ha detto quando il magistrato lo ha chiamato a rispondere sulla destinazione al PCI di quei quattrini?
Lui non c'entra? Benissimo, ma il PCI non può dire altrettanto. Ed allora, non a noi ma ai lettori de "l'Unità", l'onorevole Macaluso deve una risposta. Quei quattrini dove sono andati a finire: nelle casse del partito o nelle tasche di qualche militante? Una delle due, la terza, cioè stare zitti, non è possibile. Si tratta, direbbe Enrico Berlinguer, della questione morale. * * *
Il 4 febbraio 1974, nel caldo niello scandalo petrolifero, "l'Unità" scriveva: «Assai grave è quanto ha pubblicato domenica il quotidiano "Corriere della Sera". Questo giornale ha scritto in un suo grosso titolo: tutti i partiti politici avrebbero incassato tangenti. Un tale modo di informare è da falsari. II PCI non solo non c'entra, ma è il partito che ha dato battaglia più aspra contro le sette sorelle e i loro manutengoli».
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Dieci anni fa "l'Unità" dava del falsario a chi accusava anche i comunisti di avere incassato soldi dai petrolieri. Dieci anni dopo, su documenti sporchi di petrolio, in mano alla magistratura, sì trovano le impronte digitali del PCI, del partito «diverso»; del partito del «nuovo modo di governare»; del partito pulito. Che tristezza...

 

3 aprile 1984
«Fummo giovani soltanto allora»


Si è svolto a Firenze, nell'Auditorium del Palazzo dei Congressi, il convegno su: «L'anticonformismo dei fascisti critici: da Berto Ricci a Giovanni Gentile».
Nel corso del dibattito è venuto fuori un articolo di Indro Montanelli scritto per il "Borghese" di Leo Longanesi il 4 febbraio 1955, trenta anni fa.
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Da quell'articolo questa riflessione. È Montanelli che scrive: «Quando decisi di voltar le spalle al fascismo e andai a parlarne con Berto Ricci, questi mi disse: pensaci bene. Per non arrossire di fronte a noi stessi e l'uno di fronte all'altro, se imbocchi questa strada, devi batterla fino in fondo, sino al confino o sino all'esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico. Lì per lì -scrive Montanelli- quando Berto mi disse che se imboccavo una nuova strada, era mio dovere di batterla fino in fondo, mi parve di essere ben deciso a farlo. Ma poi mi accorsi che, per battere fino in fondo una strada, bisogna sapere almeno qual'è. E io non lo sapevo. Credevo di essere diventato antifascista, ma non era vero. Anticipavo solo di qualche anno quella melanconica cosa che è l'Italia di oggi, l'Italia smaliziata e utilitaria degli Italiani che non ci credono più. È cosi che diventai scanzonato ed entrai nella compagnia dei grandi scettici, cioè di coloro a cui si deve il bel capolavoro di questa Italia. Mi ero illuso di aver trovato una bandiera: ora so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l'unica che seguiterà a sventolare nella mia vita è quella che disertai, prima che cadesse. Fummo giovani soltanto allora, amici miei!».
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Il 14 febbraio 1984, inviando a Indro Montanelli una vecchia, commovente, spavalda lettera di Berto Ricci del 3 aprile 1938, con la quale Berto informava (Romano Bilenchi, Icilio Petrone, Gino Ersoch, Stelio Bassi, Carlo Cordiè, Roberto Pavese, Edgardo Sulis, Alberto Luchini, Eugenio Galvano, Diano Brocchi, Adriano Ghiron, Vasco Pratolini, Indro Montanelli) che avrebbe ripreso la pubblicazione de "l'Universale", tracciandone le direttive, chiedevo al direttore del "Giornale", se erano ancora valide le motivazioni che lo spinsero a scrivere trenta anni fa, ricordando Berto Ricci, in pieno antifascismo trionfante, quelle considerazioni di cui sopra.
Indro Montanelli non ha risposto.
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Torniamo, ahimè, ai giorni nostri. È sempre di scena il nostro Indro. Questa una sua definizione di Giovanni Spadolini: «Un geniale cretino che riesce a spiegare agli altri le cose che non capisce».
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Negli scritti postumi di Giovanni Papini (Arnoldo Mondadori, 1966), c'è una annotazione del 5 novembre 1949 che riguarda Giovanni Spadolini. Dice: «Spadolini, tornato da Roma, mi racconta di aver conosciuto alcuni uomini politici... Guglielmo Giannini, l'inventore del qualunquismo, è tutto ritinto, pare uscito da un caffè chantant napoletano. Ha consigliato a Spadolini di darsi al giornalismo e di prendersi un'amante focosa».
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Giovanni Spadolini ha finora seguito quel consiglio a metà: si è dato al giornalismo (e alla politica) e -dobbiamo riconoscerlo- con successo. Poco manca che comparisca anche nei caroselli pubblicitari della televisione, poi la sua faccia invade, ogni giorno, le case degli Italiani. Non si limita a questo. Sui muri della periferia d'Italia il PRI (di proprietà esclusiva di Spadolini) ha fatto affiggere il seguente manifesto:
«A casa / C'è una lettera / di Spadolini / Riservata / Personale / Rispondigli».
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È davvero instancabile. Manca, fino ad oggi, nella completa realizzazione del consiglio datogli da Giannini 35 anni fa, quello relativo all'amante focosa. Per carità, Giovanni Spadolini, se un approccio avrà con l'altro sesso, lo rivestirà di tutto il perbenismo possibile. Prenderà moglie. Questo è il termine esatto.
Infatti le cronache così dicono. Sarà una nobildonna fiorentina la consorte del «professore-ministro»: editrice, donna dì cultura, piena di fascino e di vitalità. Ce lo auguriamo. Anche perché il professore, ne siamo sicuri, ci guadagnerebbe in scioltezza.
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Nella relazione di minoranza redatta dal sottoscritto in seno alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (4.2.76), è scritto (pag. 1115):
«Si è perfino scritto, e a chiare note, che all'interno della stessa Commissione antimafia operava la mafia; e si è voluto dar corpo a questa accusa, non solo quando all'interno della Commissione sono esplosi contrasti polemici per la presenza di qualche commissario che nelle "carte" dell'antimafia era abbondantemente citato e registrato, ma anche quando, con sapienti e teleguidati dosaggi, sui quali i partiti si guardavano bene dal dare gli opportuni e doverosi chiarimenti, venivano sostituiti nella Commissione senatori e deputati. A tale proposito sarebbe interessante sapere i veri motivi per i quali l'on. Scalfaro lasciò la commissione il 17 aprile 1964, altrettanto interessante sarebbe conoscere il perché il PCI ha voluto (si faccia caso, nel clima del compromesso storico) che la Commissione chiudesse i suoi lavori senza la presenza di un uomo che, nella lotta alla mafia tradizionale, ha avuto un ruolo non secondario: il senatore Li Causi Girolamo».
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Ora la verità sulle dimissioni di Scalfaro (ministro dell'interno) è venuta fuori. Ci sono voluti venti anni esatti.
Francesco Damato (è Giorgio Galli che riporta l'episodio, "Panorama", 12.3.84, pagina 49) nel libro "L'ombra del generale: diario di un servizio televisivo sulla mafia dopo Dalla Chiesa", scrive di una confidenza di Scalfaro, che nel 1983 ricordava: «Non ebbero fortuna le mie proposte in veste di Vice Presidente della Commissione Antimafia: indagini sulle banche e sulle troppe misteriose assoluzioni e, avvertiti i massimi responsabili del mio partito, ritenni più coerente ritirarmi dalla Commissione».
Commenta Damato: «Non è il racconto schietto che mi fece quella notte (del 1976) al Congresso DC che stava per eleggere Zaccagnini: Scalfaro andò subito da Zaccagnini, allora Presidente del gruppo dei deputati democristiani, perché in ogni riunione dell'antimafia venivano fuori accuse e fatti contro esponenti DC in Sicilia: Lima, Ciancimino e altri. Voleva sapere se il partito chiedeva la difesa di quegli uomini. Zaccagnini non se la senti di dargli una risposta. Gli disse che avrebbe dovuto sentire Rumor, allora segretario del partito. Ebbe una risposta tanto poco convincente che chiese di essere sostituito. Scalfaro -è sempre Damato che scrive- me la raccontò per confutare l'immagine che le sinistre avevano dato in quel momento di Zaccagnini come campione di rinnovamento e di pulizia.
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Dell'altro mistero, e cioè del perché il PCI volle fuori dalla Commissione Antimafia, quando questa stava per concludere i suoi lavori, Li Causi, l'eroe antimafioso, nulla si sa ancora ufficialmente, anche se è facile intuire che, dato che in quel momento DC e PCI filavano il perfetto amore, Lì Causi era scomodo; non avrebbe mai messo la firma sulla relazione finale del PCI, una relazione incolore, neutra, scialba, reticente, in breve mafio-democristiana. Era quello il prezzo che il PCI pagava per l'accordo con la DC. E lo pagava in moneta mafiosa.
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Si è fatto un gran rumore (nuovamente!) sulle Esattorie private, in Sicilia. I giornali, a titoli di scatola, mettono ancora sotto accusa la famiglia Salvo e la incolpano delle connivenze le più inquietanti. Mafia, politica, Salvo.
«Gli esattori Salvo sì avvicinarono al clan Greco», titola "la Repubblica" (21.3.84).
A mio modesto parere la vicenda ha dell'incredibile, e non tanto per le notizie in sé, quanto per il ripetersi di vicende sulle quali polizia, carabinieri, magistratura, politici, partiti, ministri, sanno tutto. Da anni. E da anni sì ripete il solito clichè della notizia sensazionale come si fosse scoperto chissà che cosa.
È mai possibile, per esempio, che nel 1984 si ignori che, fin dal 1964, cioè da venti anni, è sotto l'occhio di tutti il verbale (depositato regolarmente in Tribunale!) di una seduta del Consiglio di amministrazione della Sigert (vice presidente Cambria Francesco, azionisti i Salvo) in cui si decide di mettere le riserve di bilancio ed il fondo di rappresentanza a disposizione di un Comitato esecutivo speciale, perché li usi, senza obbligo di rendiconto, per contrastare l'iniziativa legislativa (1964!) all'Assemblea regionale, per la creazione di un Ente pubblico di riscossione delle imposte?
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Cosa significava quella decisione? Semplice: ci vogliono espropriare, dicono gli esattori privati. Ebbene: ecco i quattrini, andate dai politici; dai partiti, dai ministri, riempiteli di denaro, comprateli, in modo che l'Ente pubblico non si faccia! È stato messo per iscritto, con tanto di timbro del Tribunale di Palermo. E questo nel 1964. E dato che dal 1964 ad oggi quell'Ente pubblico non è nato, è evidente che quei quattrini i signori della politica se li sono presi. Eccome se li hanno presi! Tutti quanti.
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I Giornali, con grandi titoli, scrivono che Pertini ha rimosso dall'incarico il Presidente dell'USL di Alcamo, democristiano. Motivo: per via dei suoi legami con i mafiosi Rimi, rappresentava un grave pericolo per l'ordine pubblico.
Siamo al solito copione. Pertini colpisce in basso, mai in alto, se non a parole. Infatti se il Presidente della Repubblica, per il bisogno di moralizzazione che lo pervade, non guardasse in faccia a nessuno avrebbe, e da tempo, fatto dimettere dal proprio incarico, per i loro pubblici contatti con i mafiosi Rimi, un membro della Corte costituzionale e diversi parlamentari, già ministri della Repubblica.
Per essere più chiari ci permettiamo invitare il Presidente della Repubblica ad un'attenta lettura del Documento XXIII n° I, fresco di stampa, della Documentazione allegata alle relazioni finali della Commissione Antimafia, in particolare del Doc. 732, volume IV, tomo 23, pagine 89-404.
Il tutto, come attesta il citato fascicolo numero 732, saltò fuori nella seduta della Camera dei Deputati del 22.7.71 quando il sottoscritto, deputato, denunciò l'incredibile episodio dei ministri della Repubblica italiana in collusione con gli ergastolani fratelli Rimi. Quella seduta era presieduta da Sandro Pertini.

 

27 aprile 1984
Ricordo di Alberto Giannini


Trentadue anni fa, esattamente in questi giorni di aprile, moriva Alberto Giannini. Sotto il titolo «Quel merlo che sfidò Mussolini», "il Giornale", prendendo spunto dal premio di satira politica presso la Galleria d'arte moderna di Forte dei Marmi, ci ricorda appunto Alberto Giannini, il giornalista strafottente e spavaldo che, 60 anni fa, fondando il "Becco giallo", collezionò tredici duelli, minacce, pressioni e bastonature da parte dei fascisti. Celebre la frase di Mussolini: «O noi sopprimiamo il "Becco giallo", o il "Becco giallo" sopprime noi».
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Quanto «il Giornale», per la penna di Diego Gabutti, ci racconta sul conto di Alberto Giannini, non ci piace. Affatto. Specie là dove si racconta del passaggio di Alberto Giannini dall'antifascismo più intransigente e dall'esilio, al fascismo. Quattrini e fame, scrive Gabutti, determinarono «il vergognoso voltafaccia».
Troppo sbrigativo. Alberto Giannini, napoletano, per metà inglese, socialista, è figura di altri tempi e di ben altri (e alti) temperamenti perché i Gabutti odierni, in questo giornalismo di merda possano, non dico rispettarlo, ma comprenderlo.
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Di lui vivo, nel dicembre 1950 ("La Patria degli Italiani" 9. XII. 1950 nella rubrica "Galleria nazionale"), Alberto Giovannini, tracciava questo stupendo ritratto:
«Alberto Giannini, Gennarino il fesso», da 40 anni si batte contro l'ingiustizia e contro il sopruso con la fredda costante, e talvolta feroce, determinazione, che gli viene da antenati i quali, molto probabilmente, erano "teste rapate" di Cromwell.
Il suo tempo, la sua scuola, le sue origini, spiegano più di ogni altra ricerca Alberto Giannini, la sua vita, le sue molteplici apparentemente inconciliabili posizioni politiche, le sue innumerevoli e continue battaglie. Un giorno del 1925 Mussolini disse: «O sopprimiamo il "Becco giallo" o il "Becco giallo" sopprime noi». E il "Becco giallo" fu soppresso e Giannini scappò in esilio. Ma quando in esilio si accorse che il fuoruscitismo, per tornare da trionfatore in Italia, puntava sulla guerra e sulla sconfitta della Patria, abbandonò il fuoruscitismo e si schierò a fianco del suo Paese. L'anima libertaria di Napoli l'aveva portato a Parigi, il sangue delle "teste rapate" («torto o ragione, è il mio Paese») lo riportò a Roma odiato dagli antifascisti, sospettato dai fascisti, discusso da tutti. È nel suo destino e, quindi, nella sua natura. Perciò quando Matteotti fu assassinato fu accanto a Matteotti; quando Mussolini fu trucidato fu accanto a Mussolini; perciò quando i suoi compagni di esilio furono contro la Patria, egli fu contro di loro; e quando i suoi nemici furono perseguitati, soprattutto per aver servito la Patria, fu accanto a loro.
Dicono di lui i fuorusciti: è un traditore.
Dicono i borghesi: è un pazzo. Dicono, infine, i furbi: è uno che piscia controvento. Per noi, invece, la tragedia di questo grande giornalista senza fortuna, altro non è che la tragedia stessa d'Italia degli ultimi quaranta anni. È la tragedia del nostro tempo interpretata, vissuta e scritta da un italiano, da un socialista e da uno spirito libero. È il dramma di un uomo disperatamente portato alla ricerca di una sintesi fra i tre termini supremi della nostra civiltà: libertà, socialismo e nazionalismo.
In fondo, prima ancora di tanti altri, Alberto Giannini merita un posto nella Galleria Nazionale, perché in lui, più che in ogni altro è evidente, la tragedia del nostro Paese che è allo stesso tempo fascista e antifascista. E forse Giannini è l'unico che riesca umanamente a dimostrarci come avrebbe potuto essere il fascismo e come avrebbe potuto essere l'antifascismo».
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Così Alberto Giovannini di Alberto Giannini, il fondatore del "Becco giallo" e del "Merlo giallo". Un personaggio stupendo, irripetibile, indimenticabile. Le «memorie di un fesso, parla Gennarino "fuoruscito" con l'amaro in bocca», si aprono con una frase di Jean Jaurès. Eccola:
«È coraggio cercare la verità e dirla; non subire mai la legge della menzogna trionfante che passa; non fare mai eco, con la nostra anima, con la nostra bocca e con le nostre mani agli applausi imbecilli e ai fischi fanatici».
"Rosso e Nero" ricorda Alberto Giannini. Con commozione.

 

L'amico Beppe Niccolai è -posso dire- la mia «emeroteca vivente», lo non conservo una riga di quanto ho scritto in oltre mezzo secolo di attività, Beppe invece ricorda e, praticamente, conserva quasi tutto. Gli sono grato; soprattutto oggi che ripropone questo «ritratto» di Alberto Giannini, apparso in un settimanale -diretto da Filippo Anfuso e Mirko Giobbe- che ebbe vita breve ma intensa e pulita. Gliene sono grato, anche perché mi consente di completare il «profilo» del grande giornalista scomparso. Infatti, prima di sopprimere il "Becco giallo", Mussolini, attraverso intermediari, offrì ad Alberto Giannini di cedere la testata per un milione di lire: due miliardi e mezzo di oggi. Ma Giannini rifiutò l'offerta, si fece sopprimere il settimanale e prese la via dell'esilio. Uomini di questa tempra non si «comperano» neppure per fame. Ma per la generazione dei Gabutti l'esistenza di «fusti» del genere è inconcepibile. Fortunati noi, quindi, che li abbiamo conosciuti; e qualche cosa, anche da loro, abbiamo imparato!

a. g.


1 maggio 1984
Libri, ministri e contrabbandieri


Indignazione per quattro libri sulla P2 tolti cautelativamente dal commercio. Piero Dini, magistrato a Varese, su richiesta di Umberto Ortolani sequestra: "Un certo De Benedetti", di Alberto Statera; "Corrotti e corruttori", di Sergio Turone; "Il banchiere di Dio", di Rupert Cornwell; "La resistibile ascesa della P2", di Giuseppe D'Alema.
Protesta il PCI. Pecchioli tira dentro anche Craxi. «L'ondata di provvedimenti», dichiara il senatore comunista (che si incontrava, fra il 1975 e il 1979, con i vertici dei «servizi» iscritti alla P2), «contro gli organi di informazione coincide con gli appelli al decisionismo di stampo autoritario».
"la Repubblica" (22.4.84) titola: «La P2 è ancora viva?».
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Ma che sta scritto in questi libri? Sergio Turone, l'autore di "Corrotti e corruttori", libro dal quale Enzo Biagi ha preso spunto per la trasmissione televisiva sulla corruzione (giovedì 19.4, Rete 1, 22.05, Dossier sul film "La caccia"), replica a Giulio Andreotti ("la Repubblica", 22.4).
Infatti, secondo Turone, Giulio Andreotti, intervistato da Biagi sul fatto di avere lui nominato a Comandante della Guardia di Finanza Raffaele Giudice, lo ha «trasparentemente» definito una «carogna». E l'ingiuria, afferma Turone, non me la merito perché Andreotti, con l'aria di smantellare le accuse, le ha confermate. «Che un cardinale gli avesse raccomandato il generale Raffaele Giudice due anni prima dell'avvenuta nomina è irrilevante: è rilevante invece che Giudice sia stato nominato al vertice della Guardia di Finanza proprio da Andreotti e che di quella carica abbia approfittato per rubare miliardi». Cosi Turone.
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Se si trattasse solo di questo, sarebbe senz'altro grave, ma, ahimè, c'è di peggio. È che la nomina del generale Raffaele Giudice, a capo della Guardia di Finanza, viene programmata fin dall'ottobre 1973, attraverso un piano ben preciso, per cui i petrolieri si tassano fra di loro, raccolgono una somma ingente e la distribuiscono, come è detto nella sentenza del Tribunale di Torino (23.XII.82), ai partiti di governo, arbitri della nomina di Raffaele Giudice: DC, PSDI, PSI.
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In breve i contrabbandieri, per avere le spalle coperte per i loro traffici illeciti, pur avendo già «comprato» parte del Comando generale della Finanza (l'Ufficio I, comandato dal generale Lo Prete), non si fermano qui. Vogliono che il comandante in capo della Guardia di Finanza diventi il capo di tutti loro contrabbandieri. E, per ottenerne la nomina, si rivolgono ai partiti di governo. Li pagano, perchè a loro volta, ordinino ai «loro» ministri di eseguire: sia dato il benestare a Raffaele Giudice.
Così avviene. È la più gigantesca frode fiscale che la storia dello Stato italiano ricordi.
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Ma vi è qualche elemento ancora più grave, delle scontate pagine del libro di Turone, perché sta scritto nella sentenza del Tribunale di Torino (23.XII.82), per cui Giulio Andreotti, nelle giustificazioni che dà del suo comportamento, è «inattendibile» quando «nega i pregressi accordi con Tanassi sul nome di Giudice, è inattendibile» quando «ratificando l'operato del generale Viglione, allora capo di Stato Maggiore della Difesa, fa sua una scelta basata su argomenti tecnico-militari che non trovano conferma nella realtà». (Sentenza citata, pagina 182) Il Tribunale va oltre e fra le circostanze «di elevata probabilità» mette anche quella che il nome di Raffaele Giudice non facesse nemmeno parte della terna proposta dai militari, ma che venisse incluso, all'ultimo momento, in sede di Consiglio dei Ministri in cui venne decisa la nomina.
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Dunque, in una Italia dove non si riesce a «programmare» nemmeno il più piccolo lavoro da quattro soldi, tutto va alla perfezione (e in anticipo) quando, beneficiari contrabbandieri, partiti e politici, c'è da sistemare ai vertici del Corpo addetto alla lotta al contrabbando, un contrabbandiere con greca. Il quale, insediatosi per volontà dei ministri della Repubblica italiana, si premura subito, appena preso possesso dell'incarico (pagina 205, sentenza citata) di «ristrutturare» gli uffici del Comando generale, in particolare la centralizzazione delle informazioni, per cui, a segnalazione pervenuta, lo stesso Giudice poteva gestire la cosa, rimuovendo gli ufficiali che non stavano al gioco, omettendo di intervenire là dove si doveva, ponendo altri sbarramenti là dove il «sodalizio» con i contrabbandieri poteva essere smascherato e colpito.
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Una vicenda incredibile, tutta da raccontare, appena si rifletta che è da questa gigantesca truffa fiscale che pervenivano a Sereno Freato, braccio destro dell'onorevole Aldo Moro, lo statista principe, i contributi che consentivano a questi di fare politica, di finanziare la propria corrente, di contare, di essere il più bravo.
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Comunque nessuna preoccupazione. Aldo Moro è morto. Per i vivi, tutto procede regolarmente; la TV di Stato si premura di farci sfilare davanti, a farci la morale su come si amministrano i quattrini degli Italiani, ministri coinvolti in scandali allucinanti, che ci esortano: Italiani, pagate le tasse!
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L'altra sera, durante la trasmissione di Enzo Biagi sulla corruzione, il caso ha voluto che, accanto a Giulio Andreotti, vi fosse l'onorevole Alessandro Reggiani, presidente della Commissione Inquirente.
Ebbene, l'on. Reggiani ha spinto la propria imprudenza (ce ne dispiace proprio perché l'uomo non lo meriterebbe) in difesa, lui presidente della Commissione che giudica i ministri della Repubblica, non solo delle scandalose sentenze assolutorie di cui la Commissione si è resa responsabile, ma dello stesso onorevole ed ex ministro Mario Tanassi, il quale, poverino, secondo Reggiani, non godrebbe, per un difetto di normativa riguardante l'Inquirente, ora che la Corte dei Conti lo manda assolto dal pagare i danni morali arrecati allo Stato per la vicenda Lockheed, di una giurisdizione superiore di appello. Perchè, se così fosse, ha detto Reggiani, Tanassi, potrebbe essere assolto (e portato in trionfo!). Quindi, non bisogna abolire l'Inquirente, ma riformarla, dando ai ministri sotto accusa, qualche garanzia in più per la loro impunità.
Ciò sotto gli occhi di milioni di italiani.
* * *
È incredibile. Nessuno ha fiatato. Nemmeno Biagi. Eppure quando la trasmissione avveniva (19.4) era già da giorni (13.4) di dominio pubblico la lettera del consigliere della Corte dei Conti Bruno Moretti, con la quale il magistrato denunciava le ignobili manovre che si sarebbero verificate, all'interno della stessa Corte dei Conti (massimo organo di controllo finanziario e contabile della pubblica amministrazione) per dare a Mario Tanassi, condannato a suo tempo alla galera, un collegio giudicante a lui favorevole, al punto da farlo presiedere da un consigliere della Corte nominato per meriti politici acquisiti presso il PSDI, essendo stato capo di gabinetto dei ministri socialdemocratici Preti e Schietroma.
Tutti zitti ad ascoltare la concione dell'on. Alessandro Reggiani che, non contento di presiedere una Commissione nel cui seno le assoluzioni scandalose (e bilanciate) non si contano, veniva a dirci, in sostanza, che anche l'unico caso in cui un ministro aveva pagato, era da rivedere.
* * *
Non solo, ma l'on. Reggiani non ha mosso ciglio quando, a due passi da lui, Andreotti dava la sua versione di comodo sulla nomina di Raffaele Giudice a capo della Guardia di Finanza. Non basta, ma si è messo a difendere, nell'occasione, il PSDI dall'accusa di aver preso soldi dai petrolieri.
Ora delle due l'una. Dato che all'esame dell'Inquirente, di cui Reggiani è presidente, c'è il procedimento contro Andreotti per la nomina di Giudice, Reggiani deve dirci se ha letto i documenti del procedimento in corso, oppure no.
Se non li ha letti, significa che abbiamo un presidente di una delle Commissioni parlamentari più delicate, quanto meno disinformato. Giudica, forse, ad orecchio? Se li ha letti, è ancora peggio. Gli ricordiamo solo un particolare: la colletta di denaro con la quale furono corrotte le segreterie amministrative dei partiti di governo (DC, PSDI, PSI), perché nominassero Giudice, è opera del petroliere Bruno Musselli. I quattrini, per quanto riguarda il PSDI, li ha ricevuti l'on. Giuseppe Amadei, più volte sottosegretario alle Finanze.
* * *
Comunque l'on. Reggiani è pregato dì leggere a pagina 189 della sentenza del Tribunale di Torino, più volte citata, quanto segue: «Nell'autunno del 1973 numerosi assegni circolari sono incassati dagli uffici amministrativi di alcuni partiti politici e da personale delle loro segreterie. Lo riconoscono, ora in base all'inoppugnabile presenza di timbri sul retro, ora in forza dell'altrettanto palese presenza di firme di girata per l'incasso, l'on. Tanassi per il PSDI (pagina 747), il capo dei servizi amministrativi del PSI Annibale Paganelli (pagina 748), il segretario amministrativo della DC Filippo Micheli (pagina 749), nonché il cassiere della segreteria stessa Antonio Morelli» (pagina 750).
* * *
Il tutto, onorevole Reggiani, per far si che i ministri dell'epoca, Mario Tanassi e Giulio Andreotti, inducessero il Governo a nominare un contrabbandiere a capo della Guardia di Finanza.
Può un sistema politico scendere più in basso di cosi?
 

8 maggio 1984
Il cavallo di Spadolini


A leggere i commenti della stampa sui lavori del 35° Congresso del PRI, a cominciare da "il Giornale" di Indro Montanelli per finire a "la Repubblica" di Eugenio Scalfari, c'è da rimanere interdetti. "La Voce Repubblicana", organo ufficiale del PRI, non arriva ai toni apologetici di cui si gonfiano i fogli della grassa borghesia italiana: hanno trovato l'uomo (Spadolini); il partito (PRI); la bandiera (l'edera); il rigore, la moralizzazione, la pulizia. È spuntato anche il decalogo della moralizzazione. Dieci punti. Troppi. Ne bastava uno: non rubare.
* * *
Il partito, dunque, diverso; il partito della questione morale; il partito della cultura figlio della cultura; impegnato nel governo, ma non governativo; partito movimento. Il suo posto: centro del centro, in una sorta di visione tolemaica della politica italiana. Al centro di DC e PSI. E anche, in quanto partito della sinistra rispettoso della cultura industriale tra PSI e PCI.
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Il «Partito Tutto». È cosi? Sarà utile riordinare un po' le idee. L'ubriacatura (a quante siamo?) di Montanelli per Spadolini. L'uomo non è nuovo a simili sbandate. Il fondo: «Spunta il sole, canta il gallo, Spadolini monta a cavallo» ("il Giornale", 1 maggio). Un pezzo di bravura, come sempre stilistica. Non si va oltre. Scrisse di lui Fortebraccio: «E di una fragilità psichica morbosa, se fosse un umore ne sarebbe sempre sudaticcio. Ed è da questa fragilità che gli viene una attitudine non rara in certi cinici sfiniti: quella di subire le influenze più degradanti e di restare loro fedeli con ostinato accanimento, reso sempre più rabbioso, quanto più gli appare evidente che sono abiette».
Montanelli non crede in Spadolini, ne subisce l'influenza degradante, e quanto più ne soffre, tanto più l'esalta. Un castello incantato di parole. Ne nasce il partito della moralizzazione. Una bubbola così non si era mai vista. Se c'è un partito corrotto (108 mila iscritti), clientelare, in tante zone mafioso, questo è il PRI. Montanelli ce ne fa l'apologia del partito pulito, rigoroso, carico di pensiero! Dovevamo vedere anche questa!
* * *
Cominciamo con ordine. E con il mettere un punto fermo. Giovanni Spadolini, nel luglio 1981, diventa, per la prima volta e per volontà di Sandro Pertini, Presidente del Consiglio dei Ministri. In contrapposizione a che cosa? Ad Arnaldo Forlani, che è costretto a dimettersi perché, fra l'altro, il suo Capo di Gabinetto compare nelle liste del Venerabile Licio Gelli.
Dunque, le fortune ministeriali di Spadolini hanno un nome: l'emergenza morale scaturita dalla vicenda della P2.
Ma -ed ecco il punto- il nostro «Giovannone» riesce a tenere il vento di questa emergenza, o ne è anche lui travolto?
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Giovanni Spadolini crede di essere montato a cavallo. Ed infatti, lasciata a terra la massoneria perdente, monta sul cavallo che ritiene vincente. E, insieme a Giorgio La Malfa, vola, nel dicembre 1981, a Cagliari. L'aereo dello Stato Maggiore della Difesa lo porta ad abbracciare l'amico del cuore Armando Corona, il cui figlio va a nozze. È un abbraccio intenso, lungo, commosso, di quelli che si danno i sovietici con il bacio bocca a bocca. Spadolini, per Corona, ha avuto delle tenerezze tutte particolari. Per lui, e per lui solo, ha creato, ai vertici della segreteria repubblicana, un posto particolare. Ora è lì, a Cagliari, per le nozze del figlio, ma non solo per queste. Infatti Corona è in corsa nelle elezioni a Gran Maestro della Massoneria. Spadolini è li ad assicurarlo che, anche in quanto Presidente del Consiglio dei Ministri, sarà al suo fianco. Avrà tutto l'appoggio possibile. E così accade.
* * *
Ahimè, il gruppo vincente della nuova massoneria, con il tandem Corona-Flavio Carboni, sarà un disastro, soprattutto morale. Un vero e proprio crollo. Di immagine. Pertini fa finta di nulla. Non è severo come lo fu con Forlani. II governo Spadolini può continuare a governare. Ed è un calvario, anche se stampa, radio, televisione vengano incantati da quel domatore di serpenti che è il nostro Giovannone.
Però non creda Giovanni Spadolini, né il PRI, di averla fatta franca. Flavio Carboni e il suo amico Armando Corona -che sanno tutto sulla morte del banchiere Roberto Calvi- sono destinati a giocare un ruolo molto importante, soprattutto sulla vita (non certo pulita) del PRI. C'è tutta una storia da scrivere, e stia certo Spadolini, la scriveremo.
* * *
Intanto uno spaccato, di cui le cronache non parlano più. È un vero peccato! Aprile-maggio 1981. A Castiglion Fibocchi, nella villa di Gelli, vengano fuori le carte riguardanti la vicenda della restituzione del passaporto a Calvi, restituzione avvenuta il 27.9.80. Sono carte esplosive: dentro, fino al collo, Ugo Zilletti, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Mauro Gresti, procuratore Capo del Tribunale di Milano, il Quirinale, il Governatore della Banca d'Italia. È uno scandalo incredibile. Vacillano i vertici istituzionali. Ebbene, è in quei giorni (24.4.81) che il Direttore Generale della Rizzoli, il piduista Bruno Tassan Din (amico del PCI), annuncia che il banchiere Roberto Calvi, con la Centrale, acquista il 40% delle azioni della Rizzoli-Corriere della Sera. Garante dell'operazione, udite, udite, il Presidente del PRI, il partito della moralizzazione: il senatore Bruno Visentini.
* * *
Scrive l'Espresso (3.5.81): «Tassan Din fa sapere che da quando ha dato notizia dell'operazione, non fa che ricevere applausi. I primi elogi sono arrivati dai tre ministri finanziari: Andreatta, Reviglio e La Malfa, i quali erano stati informati tempestivamente da Angelo Rizzoli (piduista, iscritto al PRI - N.d.R.); poi ha telefonato Adalberto Minucci della Direzione del PCI, e anche egli per complimentarsi e giovedì, infine, il Presidente della Repubblica ha confidato al Vice Direttore del "Corriere" Gaspare Barbiellini Amidei, invitato a colazione al Quirinale, che quella era la miglior notizia della giornata».
* * *
Fateci caso: passeranno dieci giorni e ai polsi di Roberto Calvi scatteranno le manette! Eppure tutti esultano perchè il banchiere ha comprato il "Corriere della Sera"! Da Sandro Pertini al Presidente del PRI, che si fa garante dell'operazione, portata avanti dai piduisti! Intanto dietro le quinte l'accoppiata Corona-Carboni ne fa di tutti i colori. La tortuosità dei rapporti fra politica e criminalità organizzata è tale che perfino la Presidente della Commissione P2, Tina Anselmi, ha un infortunio pesantissimo e dalle conseguenze imprevedibili, anche se il «fronte del porto» politico tenta, sull'accaduto, di fare silenzio. E Visentini? Non gli è mai stato chiesto: ma perchè in quell'aprile del 1981, mentre scriveva articoli di fuoco, con il plauso del PCI, contro i partiti a favore di un governo dei tecnici e degli onesti, metteva la sua prestigiosa figura a garante del patto "Calvi - Rizzoli - Corriere della Sera"?
È rimasto un mistero. Riuscirà la Commissione P2 a scioglierlo? Vorrà Giovanni Spadolini, il moralizzatore, collaborare a cercare la verità? Staremo a vedere.
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Dimenticavamo. Nel dicembre 1970 venne eletto a Palermo, Sindaco di quella Città, Vito Ciancimino. Proteste violentissime. In Parlamento venne chiesto che il «dossier sulla Città di Palermo», preparato dall'allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, venisse discusso in aula. Nel contempo, all'Assemblea Regionale siciliana venne presentata una mozione per le dimissioni immediate del «mafioso» Vito Ciancimino.
Cosa avvenne? Da Roma la minaccia: se fate cadere la Giunta di Vito Ciancimino, io faccio la crisi. Firmato: Ugo La Malfa.
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Già Ugo La Malfa. Ventidue anni fa ("la Voce Repubblicana" 5.12.62 e 12.12.62) Ugo La Malfa, in polemica con il Direttore de "il Resto del Carlino", allora Giovanni Spadolini, dette, della prosa dello storico fiorentino, questi giudizi: «Un pasticciato di banalità e di incompetenza»; «una fumettistica descrizione dell'attuale situazione politica»; «l'ignoranza di Spadolini è tale per cui tutto fa brodo»; «evidentemente Giovanni Spadolini ha da tempo rinunciato al benché minimo sforzo di pensiero e si limita a trascrivere, nei commenti politici, le opinioni che la sua fantesca ricava nei colloqui di mercato. Ma in fin dei conti è un segno della provvidenza della storia che all'opposizione del centro-sinistra presieda una così abissale stupidità». Ripetiamo la firma: Ugo La Malfa.
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Cari amici di partito: di queste povere note che scrivo, fatene veicolo di propaganda, di polemica, di confronto. Devono andare in piazza. Altrimenti avrà la meglio Spadolini, con tutti i suoi megafoni. Coraggio, dunque!


15 maggio 1984
Moralizzatori
 

Era sparito di circolazione. Era da tempo che il focoso ex-deputato del PCI, Giuseppe D'Alema, non compariva più a fare notizia, come il moralizzatore tutto di un pezzo, l'implacabile denunciatore dei corrotti. Non passava giorno senza che una nota di Giuseppe D'Alema comparisse sulla stampa a fustigare gli imbroglioni. Il suo giornale preferito: "la Repubblica". Da ciò sempre sugli scudi del PCI: membro del direttivo parlamentare, presidente della Commissione Finanze e Tesoro della Camera, membro della Commissione di inchiesta sul caso Sindona, parlamentare dal 1963.
* * *
Poi l'incidente: un incidente grave, di percorso. Raccontiamolo fin dall'inizio. È l'ottobre 1982, precisamente il giorno 14. Alla Commissione Sindona, nel Palazzo di San Macuto dove ha la sua sede, spariscono i verbali degli interrogatori che l'avv. Rodolfo Guzzi, ex legale del bancarottiere Sindona, aveva reso davanti ai magistrati milanesi. Guzzi, in quelle dichiarazioni, rivolgeva pesantissime insinuazioni nei riguardi di Giulio Andreotti, all'epoca Presidente del Consiglio, per suoi asseriti tentativi di salvataggio delle Banche di Michele Sindona.
* * *
La notizia della sparizione fa clamore. Le prime pagine dei giornali la ospitano a caratteri di scatola. Ma ecco un «di più». Nei giorni successivi giungono, in busta chiusa, alle redazioni di alcuni giornali, le fotocopie di tre cartelle del fascicolo trafugato. Il presidente della Commissione, l'onorevole Francesco De Martino, subito dopo il furto, dichiara:
«Si possono fare tre ipotesi, la prima è che qualcuno si proponga di distribuire a mano il documento per scopi scandalistici. E allora si potrebbe inquadrare in una guerra fra bande. La seconda congettura è quella di far sapere di essere in possesso del testo per poi venderlo. Ma non ci credo. La terza congettura, personale, è che si voglia esercitare una intimidazione personale nei confronti dell'avv. Rodolfo Guzzi».
* * *
Sul furto, comunque, apre (ottobre 1982) un'inchiesta la Procura di Roma e, dopo sei mesi (aprile 1983), la talpa di San Macuto è individuata. La talpa, per la guerra fra bande ipotizzata dall'onorevole Francesco De Martino, viene appunto indicata nell'onorevole (perché deputato) Giuseppe D'Alema, comunista, di professione moralizzatore. L'imputazione: furto e rivelazione di segreti di ufficio. Reati che prevedono la galera.
* * *
L'onorevole (perché deputato) Giuseppe D'Alema, al ricevimento della comunicazione giudiziaria (aprile 1983), si incazza tremendamente. È una vendetta -grida- è un attacco piduista e mafioso contro il firmatario della relazione di minoranza sul caso Sindona... Protesto in nome della mia cristallina onestà...
* * *
Pare sincero, ma un fatto è certo, ed è che da quel giorno il nome di Giuseppe D'Alema sparisce dai ranghi dei moralizzatori. E anche da quelli politici. Infatti, lo stesso PCI, nelle elezioni ultime del 26.6.83, non lo presenta più. Lo lascia a terra. Depennato. Cosi, bruscamente.
* * *
Perchè abbiamo raccontato questa storia di «furti» nelle severe aule parlamentari «per la guerra fra bande»?
Perché D'Alema è ricomparso, in questi giorni, sulla stampa e, come al solito, strilla, in nome (poteva mancare?) della moralità e della pulizia pubblica. Il pretesto è il provvedimento del giudice di Varese che sequestra quattro libri che parlano male del «partigiano» Umberto Ortolani. Uno di questi libri ("La resistibile ascesa della P2») porta la firma anche di D'Alema.
* * *
E D'Alema invoca giustizia. Afferma, tramite il suo avvocato, che il Presidente del Tribunale di Varese, autore del provvedimento, in quanto ha sottratto (sic! In fatto di sottrazioni D'Alema si che se ne intende) ad altri giudici la loro competenza, deve essere messo sotto inchiesta da parte del CSM ed esemplarmente punito.
Lo afferma D'Alema. E la stampa, come se nulla fosse, ne accoglie le lamentele. Che vergogna.
* * *
Polemiche feroci sulla Commissione per i procedimenti di accusa contro i ministri.
Stefano Rodotà, su "la Repubblica" (5.5.84), la chiama «la vecchia malfamata Commissione Inquirente»; «una Commissione impresentabile in società, ma indispensabile per i bassi servizi che rende»; «Commissione intollerabile, indegna di un Paese civile».
«È vituperata da tutti» -scrive Rodotà- «ma diventa utilissima quando rimane il docile strumento, grazie al quale, i ministri riescono a sfuggire al processo penale».
Ebbene che si fa? Nulla. Il presidente della Commissione, Alessandro Reggiani, dichiara: «Troppe critiche, sono pronto ad andarmene».
Critiche? Queste non sono critiche. Sono accuse sanguinose. Onorevole Reggiani, lei non deve essere pronto ad andarsene. Lei deve andarsene. Affermando quello che lei, da galantuomo sa, e cioè che è uno schifo. Renda questo servizio, onorevole Reggiani. Sbatta la porta e se ne vada, subito. Punti, con il suo gesto, ad un'opera meritoria, che gli sarà riconosciuta da tutti gli Italiani puliti: l'affossamento definitivo della Commissione Inquirente, vera ed autentica fogna maleodorante; indegna, è vero, di un Paese civile.
* * *
Particolare da non dimenticare. Quando nel maggio 1982 in Senato venne il momento in cui si doveva passare dalle belle dichiarazioni ai fatti, per cui la Commissione Inquirente doveva essere interamente riformata, il PSI bloccò la riforma in aula. Con l'aiuto del PRI e l'assenso DC.
Onorevole Spadolini, in quale parte del suo «decalogo» sulla moralizzazione della vita pubblica, collochiamo questa triste vicenda?
* * *
«Passata l'estate, in autunno, Carboni e Francesco Pazienza vennero da me e mi chiesero di poter sentire il povero dottor Calvi: mi dissero che lo stavano accompagnando a fare un giro presso i partiti, perché il dott. Calvi riteneva che l'opinione pubblica, la stampa, le stesse forze politiche lo avessero giudicato assai più severamente di quanto egli non meritasse. Lo ricevetti. Il dottor Calvi mi raccontò la sua odissea della prigionia, il distacco dai familiari, il modo con cui era stato trattato; riteneva che in fondo l'esportazione di capitali all'estero fosse un rischio connesso con il tipo di professione di banchiere, che fosse stato punito più severamente di quanto non meritasse e che comunque, da quel momento, aveva intenzione di dimostrare che non era un esportatore di valuta di professione, ma che era un caso accidentale quello per cui era stato condannato. E qui finì il nostro primo colloquio».
(Armando Corona, audizione della Commissione di inchiesta sulla P2, 29 luglio 1982).
* * *
«Dopo una decina di giorni, ai primi di dicembre, chiese ancora di essere ricevuto e, questa volta, mi pose il problema del professor Visentini, cioè voleva sapere se il professor Visentini aveva smesso definitivamente l'idea di coagulare intorno a sé un gruppo di imprenditori per l'acquisto del "Corriere della Sera", o se invece io pensavo che potesse ripensarci e quale era esattamente la posizione del PRI, come mai aveva impedito al professor Visentini di portare avanti questa iniziativa che, secondo lui, era abbastanza plausibile e lodevole. Spiegai quello che ho detto, che cioè il PRI si dimostrò assolutamente contrario all'acquisto della testata da parte di qualunque partito, a cominciare dal nostro, per cui chiedemmo al professor Visentini che scegliesse: se voleva fare il presidente del partito, non si doveva occupare dell'acquisto del "Corriere della Sera" o, se voleva invece acquistare il "Corriere della Sera" si dovesse dimettere da presidente del partito. Quindi il dott. Calvi sapeva benissimo che la mia posizione era contro questo acquisto da parte dei partiti.
Chiese anche se, in questa posizione del PRI sul richiamo all'osservanza delle norme del Comitato del credito, e quindi al fatto che venivano sconsigliate le banche dall'acquistare testate, ci fosse una censura nei suoi riguardi. Dissi: "No, noi abbiamo richiamato questo; perché le forze politiche lo devono tener presente. Non c'è nessun giudizio su di lei", dopodiché nei mesi di gennaio, febbraio e marzo non vidi più il dott. Calvi, vidi una sola volta, a metà febbraio, il dottor Carboni. A metà io venni a Roma. Fui eletto Gran Maestro il 28 di marzo».
(Armando Corona, audizione della Commissione di inchiesta P2, 29 luglio 1982).
* * *
Per oggi fermiamoci qui. Racconteremo poi gli altri incontri del Gran Maestro Armando Corona con il dott. Calvi, sempre sotto l'ala protettrice di quei due «gentiluomini» che rispondono ai nomi di Flavio Carboni e Francesco Pazienza.
Per il momento ci preme sottolineare come il dott. Armando Corona incontrasse il dott. Calvi nella sua qualità di componente la segreteria del PRI, segreteria che -non lo si dimentichi- aveva al suo vertice Giovanni Spadolini che, in contemporanea, era Presidente del Consiglio.
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Quindi, prima considerazione logica: Armando Corona, quale membro della segreteria del PRI, su espresso incarico anche di Giovanni Spadolini, segretario nazionale del PRI e Presidente del Consiglio, si incontrava con Roberto Calvi. Lo riceveva, lo ascoltava, si parlavano dell'... esportazione valutaria. È evidente che Roberto Calvi andava da Armando Corona, non per divertimento o per ricevere parole, ma per chiedere qualcosa...
Che cosa? Roberto Calvi non può più rispondere, ma Giovanni Spadolini e Armando Corona si.
Forse il «decalogo» sulla moralizzazione impedisce a Giovanni Spadolini di parlare?
Punto 5 del «decalogo»: «I repubblicani non debbono trattare operazioni commerciali, né a livello di ministri né di assessori».

 

19 maggio 1984
La colpa è tutta di Gelli


Le carte dell'Anselmi. Scrivono, fanno rimbombare: sconvolgenti, una bomba. È acqua fresca. È una azione combinata. Perché, se la relazione Anselmi è tempesta, per cui il governo (è stato scritto) potrebbe andare in crisi, che sarà mai la relazione finale che, evidentemente, sulla base delle orchestrate reazioni che si sono oggi registrate, sarà ulteriormente addolcita? Se ci si arrabbia, se si impreca, lo si fa per un fine ben preciso: stemperare, ancor di più, le melensaggini che si sono scritte. Questa è l'azione combinata: si fa chiasso per chiudere il caso. In silenzio, nell'addormentamento generale della pubblica opinione che di queste «sceneggiate» ha capito tutto.
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Ma che c'è scritto in quéste carte? Innanzi tutto una cosa scontatissima: Licio Gelli non è espressamente accusato di avere crocefisso Nostro Signore, ma poco ci manca. È responsabile di tutto: delle stragi, del terrorismo, della morte di Moro, dell'eversione nera e rossa, di avere messo suoi «scherani» ai vertici delle Forze Armate, dei servizi segreti, dell'editoria, delle banche, della Magistratura. Gelli, insomma, ha invaso, come un cancro, l'intero corpo della Nazione e, per vent'anni, ha amministrato, ha ucciso, ha finanziato, ha riciclato, ha deciso, ha giudicato, ha scritto, ha lottizzato, ha governato.
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E la Repubblica? E la Resistenza? E Pertini? E l'antifascismo? E il Parlamento?
Che hanno fatto? Spettatori?
Forse, si sono fatti irretire. Ma è accettabile una tesi simile?
Pensate un po': Sandro Pertini, ligure, è dal 1945 il «Grande Vecchio» della Resistenza nella circoscrizione di Genova, Imperia, La Spezia, Savona. Più propriamente è di Savona, la sua città. E di Savona «democratica», da 40 anni a questa parte, conosce vita morte e miracoli. Figuriamoci del PSI locale, di cui è il santone venerato.
Ebbene, proprio a Savona, nel seno del PSI, nasce, cresce, prolifica una banda di stampo mafioso che, pur di arraffare denaro, non guarda in faccia a nessuno, usa anche il tritolo. Il capo banda, il socialista Alberto Teardo (in galera), è piduista.
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Che dire? Che pensare? Sandro Pertini, al quale qualche amico di casa nostra invia messaggi per chiedere la verità sulla P2, sapeva o non sapeva?
Se sapeva, tanto da ospitare al Quirinale il capo banda Teardo, è una brutta cosa che si qualifica da sé. Se non sapeva (e deve essere senz'altro cosi) è grave lo stesso. Per una semplice considerazione: come si fa a stare ai vertici dello Stato quando, pur vivendo per 40 anni a contatto di gomito con dei manigoldi, non ci si accorge di nulla?
Comunque le carte delI'Anselmi nulla dicono della banda (piduista) Teardo. Quella vicenda, per la nostra Tina, non esiste. La colpa è tutta di Gelli.
* * *
Scrive l'Anselmi, pagina 64 della relazione: «Gelli, sicuramente, influisce sulla nomina del generale Raffaele Giudice, che figura fra gli iscritti alla Loggia, a Comandante generale della Guardia di Finanza: esercita a tale fine interventi sui ministri interessati. Palmiotti (P2), segretario dell'on. Tanassi, all'epoca ministro delle Finanze, si adopera per la sua nomina ...».
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Tutto qui? Tutto qui, per l'Anselmi. E Giulio Andreotti dove lo mettiamo? Ma la nostra Tina li ha letti i documenti pervenuti alla Commissione, o se li è fatti raccontare?
E come fa a dimenticare che fra questi documenti c'è una illuminante sentenza del tribunale di Torino (23.XII.82, volume 000556) in cui è descritto, minuziosamente, l'interessamento di Giulio Andreotti perchè a capo della Guardia di Finanza venisse nominato Raffaele Giudice? Come fa a dimenticare che nella sentenza è scritto che la nomina di Giudice, da parte dei politici, era finalizzata a che il generale trasformasse il Comando generale in un centro di contrabbando, per dare soldi ai partiti?
Silenzio. Dicono che la relazione Anselmi è sconvolgente. Sì, perché colpisce i perdenti (Tanassi), ma salva i potenti (Andreotti). Tanto la colpa è tutta di Gelli.
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Sentite questa. Pagina 67 della relazione. «Indubbiamente alcuni militari agirono anche per interessi personali o parteciparono a traffici illeciti, cui erano interessati direttamente e/o riguardavano uomini politici ad essi collegati: questo può desumersi dal coinvolgimento dei generali Giudice e Lo Prete e del capitano Trisolini, in fatti come quelli attinenti al traffico dei petroli, per i quali pendono vari procedimenti avanti l'autorità giudiziaria ...».
Tutto qui? Ma è proprio fanciullescamente ingenua questa Anselmi! Ma come: lei, così intima di casa Moro, non sa che parte dei proventi di questi illeciti traffici pervenivano, via Lo Prete - Musselli - Freato, alla segreteria particolare dell'on. Aldo Moro? Non sa che quei soldi, che caratterizzarono la più gigantesca truffa fiscale che la storia d'Italia ricordi, contribuivano a costruire l'immagine del grande statista pugliese?
Già, dimenticavamo. La colpa è tutta di Licio Gelli.
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Proseguiamo, pagina 66 della relazione. «Anche dopo la riforma dei servizi segreti nel 1978, i capi dei servizi risultano tutti negli elenchi della P2: Grassini capo del SISDE, Santovito capo del SISMI, Pelosi capo del CESIS ...».
Si, ma perchè l'Anselmi (questa smemorata) dimentica di scrivere che tali nomine, su dichiarazione dello stesso senatore del PCI Amerigo Boldrini, furono tutte concordate con il PCI, in incontri che avvenivano (1975-1979, così data Boldrini) in alcune sedi «coperte» dei servizi segreti? Perché dimenticare di scrivere che quelle nomine furono concordate fra Amerigo Boldrini, Ugo Pecchioli e il generale (piduista) Gianadelio Maletti, condannato in ordine alle vicende riguardanti la strage di Piazza Fontana?
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Sicché, secondo l'Anselmi, Licio Gelli, servendosi dell'eversione nera, operava per un progetto di governo che escludesse il PCI ma, nel frattempo, lo stesso PCI si premurava di concedere il suo nulla osta perché ai vertici dei servizi segreti venissero nominati militari, tutti iscritti alla Loggia P2.
Ma si può essere, lo dico alla toscana, più bischeri di così? Secondo l'Anselmi sì. O meglio lei ritiene che agli Italiani si può raccontare tutto ciò che si crede. Ma si sbaglia. E di grosso.
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Cinquantasei pagine (da 99 a 108 e da 1 a 43) della relazione sono dedicate all'editoria, in particolare alla vicenda del "Corriere della Sera".
Ci credereste? Nelle 56 pagine non ricorre mai, nemmeno per sbaglio, il nome del presidente del PRI: il ministro delle Finanze Bruno Visentini. Eppure era il «consigliere» del piduista Angelo Rizzoli.
Non un cenno sulla nomina del senatore Branca, eletto nelle liste del PCI, a garante del "Corriere della Sera", da parte di Angelo Rizzoli e Tassan Din, tutti e due negli elenchi di Gelli; non una parola dei... rapporti fra Umberto Ortolani e il senatore Rino Formica (e sono in ballo bazzecole come 500 milioni); paginette di nessun senso dedicate a Francesco Pazienza e a Flavio Carboni, il mondo viene definito dalla relazione (è piena di humour questa Anselmi) «pittoresco», quando è solo criminale, al punto che Roberto Calvi, per averlo praticato, si ritrova, appeso, sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra.
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Invano, nella relazione, cercherete qualcosa sull'aiuto ricevuto da Calvi dall'allora sottosegretario Pisanu, dagli amici di quella sinistra DC di cui l'Anselmi è gran parte, dal dott. Binetti consulente dell'allora ministro del Tesoro Andreatta, dal Gran Maestro Armandino Corona, l'amico di Spadolini (non un rigo, nella relazione su questo personaggio. Ecco perché il PRI esulta), da Flavio Carboni, socio di Eugenio Scalfari e di Carlo Caracciolo, personaggi, tutti intorno ai quali ruotavano dei malavitosi dello stampo di Danilo Abbruciati e Ernesto Diotallevi.
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Per Tina Anselmi, uscito di scena Licio Gelli, ciò che accade dopo è marginale. Non interessa. Nemmeno il verbale di una conversazione telefonica, verbale che il giudice Domenico Sica, diligentemente, ha fatto, pervenire alla Commissione. Vi si parla dell'uomo d'...affari piemontese Lorenzino De Bernardi, arrestato in una storia di una associazione a delinquere di stampo mafioso, protagonista Pazienza, per aver telefonato all'industriale trentino Mariano Volani, affinché si decidesse a mantenere l'impegno di pagare la tangente a Francesco Pazienza, per una commessa di 60 miliardi per fabbricati destinati alle zone terremotate dell'Irpinia.
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Si tratta di estorsioni. Aprile-giugno 1981: il faccendiere Lorenzino De Bernardi, per conto di Pazienza, contatta l'industriale Volani. «Vuole mettere le mani sugli appalti delle zone terremotate dell'Irpinia? Noi conosciamo la via». Sì, tutto bene: ma chi è il politico (in gonnella o no) che, dietro Lorenzino De Bernardi, è il regista dell'operazione?
Alla Commissione P2, su questa vicenda, perviene la documentazione. Non se ne fa di nulla. L'Anselmi vuole chiudere in fretta. È sua l'affermazione: «In fondo fatti nuovi non modificano l'insieme dell'inchiesta».
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I conti, dunque, per Tina Anselmi sono stati già tutti fatti. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. È la sua filosofia, e non solo sua. Titola "la Repubblica": «Lotta alla P2. Pertini si schiera con Tina Anselmi. Tutta la verità sulla Loggia chiesta dal Presidente della Repubblica».
D'accordo, però il Quirinale dovrebbe farci sapere se la verità, tutta la verità, la vuole anche sul caso Zilletti. Sarebbe interessante saperlo. Visto che ad impedirla, questa verità, sono intervenute la Corte di Cassazione, la Procura del Tribunale e della Corte d'Appello di Roma, nonché il Consiglio superiore della Magistratura, il cui presidente è il Presidente della Repubblica.

 

1 giugno 1984
Michele Sindona e il suo «consigliori»


C'è una lettera di Michele Sindona. È del settembre 1976. È indirizzata all'allora Presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, capo di un governo retto anche dai voti del PCI. Proviene dall'America. La busta reca il recapito: Hotel Pierre, Nuova York. Il bancarottiere inseguito da un mandato di cattura della magistratura italiana, traccia per il Presidente del Consiglio, un vero e proprio programma di azione. Eccolo: contrastare l'estradizione chiesta dai giudici milanesi; esercitare pressioni sull'apparato giudiziario e amministrativo perché recedano dai comportamenti contrari a lui, Sindona; sistemare gli affari delle Banche dichiarate fallite; opporsi alla sentenza di insolvenza. La lettera-programma, dopo avere accennato, che linguaggio tipicamente mafioso, a possibili azioni di ricatto, se le cose si dovessero metter male, termina, inviando al Presidente del Consiglio i «ringraziamenti per i rinnovati sentimenti di stima con lui, Andreotti, anche recentemente, ha manifestato per lui, Sindona, a comuni amici».
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La lettera viene ad assumere particolare rilievo dopo che il "Corriere della Sera" di domenica 20 maggio (come del resto tutta la stampa italiana) ci ha fatto conoscere, in un inserto di quattro pagine, gli atti dell'inchiesta dei giudici di Milano contro Michele Sindona per il delitto di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche di Sindona; atti che sono stati rivelati negli Stati Uniti, nel contesto della richiesta di estradizione in Italia del già «benefattore della lira», così come ebbe ad esprimersi Andreotti in un pranzo in suo onore, organizzato da Sindona a Nuova York all'Hotel Regis nel dicembre 1973.
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Il quotidiano milanese, sotto il titolo «Il delitto Ambrosoli, ecco il dossier su Michele Sindona», scrive: «Alcuni colpi di pistola in una notte del luglio 1979 uccidono un uomo che sapeva troppo, anzi che aveva scoperto troppo; l'avvocato milanese incaricato di liquidare i conti del bancarottiere di Patti. È il punto centrale e tragico di una storia cominciata nel 1974 e sviluppatasi poi, per anni, a tela di ragno coinvolgendo gangsters, politici, banchieri e agenti segreti, massoni e mafiosi: un'enorme piovra contro le istituzioni dello Stato. Soltanto ora, nel 1984, dopo che la magistratura USA ha detto si all'estradizione di Sindona è possibile conoscere la ricostruzione che della grande trama hanno fatto i giudici italiani».
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Dagli atti, 9.1.1979. Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore, riceve nel suo studio una telefonata anonima.
Telefonista: Pronto, l'avvocato? Buona sera, sono io. Senta avvocato, se le può far piacere le volevo dire questo, dato che domani lei ha quell'appuntamento...
Ambrosoli: Si.
Telefonista: Guardi che puntano il dito soprattutto su lei, io la sto chiamando da Roma, sono a Roma, e puntano il dito su di lei come se lei non volesse collaborare...
Ambrosoli: Ma chi sono questi?
Telefonista: Tutti sono pronti a buttar la colpa su lei...
Ambrosoli: Puntino la colpa che vogliono, ma...
Telefonista: Sia il Grande Capo...
Ambrosoli: Chi è il Grande Capo?
Telefonista: Lei mi capisce, sia il Grande Capo sia il piccolo, il signor Cuccia e compagni, danno la colpa a lei. Io lo vedo che lei è una brava persona, mi spiacerebbe...
Ambrosoli: Ma puntano per che cosa, me lo spiega?
Telefonista: Si dice che lei non vuole collaborare ad aiutare quella persona, capisce? Il «grande», lei ha capito chi è, o no?
Ambrosoli: II grande immagino sia Sindona.
Telefonista: No, è il signor Andreotti...
Ambrosoli: Chi? Andreotti?
Telefonista: Si. Ha telefonato e ha detto che aveva sistemato tutto ma che la colpa è sua.
Ambrosoli: Ah, sono io contro Andreotti...
Telefonista: Esatto. Perciò stia a guardare perché vogliono metter lei nei guai. Arrivederci.
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Sempre dagli atti dei giudici. È il 12.1.1979. Nello studio Ambrosoli arriva un'altra telefonata anonima.
Telefonista: Buon giorno avvocato. L'altro giorno ha voluto fare il furbo. Ha fatto registrare tutta la telefonata.
Ambrosoli: Chi glielo ha detto?
Telefonista: Sono fatti miei. Io la volevo salvare ma da questo momento non la salvo più.
Ambrosoli: Non mi salva più?
Telefonista: Non la salvo più, perché lei è degno di morire ammazzato come un cornuto. Lei è un cornuto e un bastardo.
* * *
Dalla deposizione di Henry Hill, trafficante di droga, divenuto collaboratore della FBI. È l'11 febbraio 1983, ore 11.30.
Domanda: Nel corso dei rapporti con William Aricò (un killer di professione, detto lo «sterminatore» accusato di avere ucciso Giorgio Ambrosoli su commissione di Sindona) ha mai avuto occasione di discutere con lui di affari che egli faceva con altri?
Risposta: Sì, in numerose occasioni. Egli mi informò che stava lavorando per Michele Sindona, Nino Sindona, e suo genero o anche cugino. Domanda: Che cosa le disse che faceva Aricò per loro?
Risposta: Omicidi su commissione.
Domanda: Le disse dove egli faceva questi omicidi?
Risposta: Sì, li faceva in Italia.
Domanda: Può stabilire una data approssimativa in cui seppe che Aricò lavorava per Sindona?
Risposta: Sì, era nel settembre-ottobre 1978, quando io ricevetti due valigie di armi... Le armi erano destinate a me. Aricò ne acquistò sei e mi disse che le avrebbe usate per questi omicidi in Italia... (Ambrosoli fu ucciso con una di queste armi - N.d.R.).
* * *
Scrive il "Corriere della Sera" (pagina 16, 20.5.84), «Il 15 e il 25 luglio 1978 Rodolfo Guzzi (avvocato di Sindona, arrestato per estorsione in questi giorni) viene ricevuto a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio. Lo mette al corrente del piano di salvataggio delle Banche di Sindona. Andreotti spiega all'interlocutore che la persona più adatta per valutarlo è il Ministro dei Lavori Pubblici Gaetano Stammati. Il nome di Gaetano Stammati risulterà poi nell'elenco degli iscritti alla P2. È lo stesso on. Andreotti che fissa l'incontro Guzzi e Stammati. II 20 settembre 1978 il ministro dei Lavori Pubblici presenta il progetto di salvataggio a Carlo Ciampi Governatore della Banca d'Italia. È bocciato. Il parere negativo viene riferito tanto all'on. Andreotti quanto all'avvocato. Guzzi». Cosi il "Corriere" ...
* * *
Se mettete a confronto le date, noterete che Michele Sindona, per salvarsi, opera su due fronti: quello politico, in cui il suo «consigliori» è Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio dei Ministri; l'altro, a contatto con la criminalità organizzata dove, attraverso la via della droga, assolda killer di professione per intimidire e assassinare, se la via politica dovesse risultare vana.
Ed è così. Infatti Andreotti non ce la fa. Nemmeno Enrico Cuccia, consigliere delegato di Mediobanca che, minacciato di rapimento dei figli, collabora alla stesura di un piano di salvataggio.
* * *
A dire «no» ai piani di salvataggio-truffa è ancora Giorgio Ambrosoli. Le telefonate con le quali lo si minaccia di morte, non Io fanno recedere, anche se si sente solo, ed è rimasto solo. Episodio inquietante. Settembre 1974: l'impero di Sindona è allo sfascio. Occorre rimettere ordine. Giorgio Ambrosoli è chiamato a Roma dal Governatore della Banca d'Italia, Guido Carli. È convinto di essere chiamato a far parte dello staff di liquidatori che dovranno occuparsi del crack Sindona. Non è così. Da Milano, la sera stessa, chiama la moglie: «Sono solo», dice. La sua voce è preoccupata.
Perché Guido Carli lo lasciò solo? Nell'agenda di Giorgio Ambrosoli si troveranno queste parole: «Pagherò a prezzo molto caro questo incarico, ma per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il mio paese ...».
* * *
Siamo alla stretta finale. Nel gennaio 1979, Giorgio Ambrosoli, dopo avere raccontato a Sarchielli, responsabile dei servizi di vigilanza della Banca d'Italia, le continue minacce di morte che riceve, rifiuta l'incontro a tre fra l'avv. Guzzi e il Governatore dott. Ciampi; incontro caldeggiato dal ministro Stammati. Arriva l'estate. Manda la moglie e i tre figli al mare. Ad un avvocato amico confida: «Mi minacciano di morte. Ho sinceramente paura. Ma non posso tirarmi indietro: ne andrebbe della credibilità dello Stato».
Mercoledì 11 luglio, ore 23.30. Ambrosoli torna a casa. Posteggia l'auto. Scende. Quattro colpi. La sua fedeltà allo Stato viene ripagata così. Con la morte. Come Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ricordate? Così il Generale si espresse, pochi giorni prima di essere assassinato: «Credo di avere capito la nuova regola del gioco. Si uccide il potente quando è diventato troppo pericoloso, ma si può ucciderlo perchè è rimasto solo».
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Sabato 14 luglio 1979, ore 11: i funerali di Giorgio Ambrosoli. Solo tre corone. Manca quella dello Stato. Nessun uomo politico presente. Nemmeno il prefetto.
Così cadono i migliori in questa Italia.
* * *
Ultimo inquietante interrogativo. Lo pone "il Giornale" (19.5.84) in un corsivo di Indro Montanelli. Sotto il titolo «La famiglia Ambrosoli chiede l'intervento di Pertini per l'estradizione di Sindona», ci si chiede il perché il trattato di estradizione tra Italia e USA aspetti, da sette mesi l'approvazione parlamentare. Lentezza della burocrazia parlamentare? Può essere, ma vi è un'altra ipotesi, scrive Montanelli, molto peggiore. «E cioè che, adendo come agiscono, gli esponenti della politica vogliano evitare, finché è possibile il prestito di Sindona all'Italia e la sua comparsa in una delle nostre aule di giustizia. Un Sindona pentito che parli a ruota libera, fa paura. È una ipotesi -scrive Montanelli- che fa gridare al vilipendio, ma smentirla è semplice: si dia rapido corso all'approvazione del trattato e si chiami qui Sindona. Almeno questo lo Stato lo deve all'assassinato Ambrosoli e ai suoi familiari».
Fin qui Montanelli. Un particolare: ministro degli Esteri della Repubblica italiana è Giulio Andreotti.

 

5 giugno 1984
Pietro Longo e la questione morale


Questo il ritratto di Pietro Longo. È di Enzo Biagi, "Panorama" del 17 agosto 1981:
«Pietro Longo mi fa venire in mente l'incompiuta: ha una faccia sbozzata e approssimativa, come quella dei burattini. Eppure, assicura la madre, da bambino era bellissimo. È stato a lungo vicino a Nenni, e pupillo di Saragat, ma non si capisce da chi ha preso. La mamma lo ha incoraggiato alla politica; lui ricorda con simpatia un bisnonno poeta che scappò prima con una sciantosa, poi con Garibaldi. Forse fece più danni la seconda volta. Gli va riconosciuta, senza ironia, molta abilità: è a capo di una specie di Armata Brancaleone, in perenne marcia alla conquista di clienti. Per essere forti, han bisogno di stare al governo; l'opposizione li uccide. Debbono distribuire favori: ideali sono le Poste, le Finanze, i Trasporti. Quando non si può concedere, si può minacciare. È vero che anche i concorrenti non sono degli angioletti, che la croce della DC l'hanno dovuta portare in tanti, e come lottizzatori i compagni del PSI non sono stanchi di dover recitare la seconda parte, ma il sole che sorge è il marchio della più grande agenzia di collocamento nazionale. È la "Gabetti" della supplica: compera, affitta, vende ...».
* * *
Domanda: perché proprio adesso un'apertura di credito al PCI? Risposta: il PCI è in difficoltà perché ci sono forze al suo interno che stanno tentando di cancellare l'evoluzione democratica vissuta in questi anni dal comunismo italiano. E ciò è molto pericoloso. Bisogna fare di tutto per favorire l'ingresso definitivo del PCI nell'Occidente e nell'Europa.
Domanda: e chi potrebbero essere i protagonisti di questa svolta?
Risposta: nonostante tutto, Enrico Berlinguer e gli uomini che gli sono più vicini. Berlinguer in generale è lento e fin troppo prudente. Ma è deciso nelle scelte che contano, come Io strappo con Mosca.
Domanda: quale sarà l'occasione per cominciare a discutere con i comunisti?
Risposta: in primavera ci sarà il congresso del PCI ma in autunno già conosceremo le tesi e i documenti preparatori...
("Panorama", 9 agosto 1982, conversazione con Pietro Longo)
* * *
«Non è sicuro che questa piccola bufera scatenata da Pietro Longo di fine agosto possa lasciare qualche traccia. Egli stesso ha dichiarato del resto di voler riprendere il discorso solo dopo le vacanze: è per settembre o per ottobre quel "dialogo" con il PCI annunciato con tanto anticipo dal segretario socialdemocratico. Dialogo su che cosa? Vedremo. Noi non siamo impazienti, anche se abbiamo da sempre una buona disposizione a dialogare con chiunque abbia da dirci qualcosa di interessante, tanto più che la materia non manca (a Roma, in Campidoglio, per esempio, il dialogo PCI-PSI-PSDI-PRI un risultato lo ha avuto, con la nuova giunta presieduta dal comunista Ugo Vetere ...». ("l'Unità", 3 agosto 1982)
* * *
Pietro Longo comunemente (e razzisticamente) definito «l'anello mancante», è il gioco delle tre carte in politica (con tutto il rispetto per i professionisti che campano la vita a questo modo). Pietro Longo è la politica del borseggio. È il leader politico che guadagna voti sulla galera del suo presidente Tanassi; è l'unico uomo politico che non può sottrarsi all'obbligo di solidarizzare pubblicamente e privatamente con la P2; è il leader dell'arco costituzionale per il quale la Costituzione è poco meno che il tombino nel quale far scivolare, fisiologicamente, il liquame degli scandali nazionali. ("il manifesto", 3 agosto 1982)
* * *
Domanda: ma non siete mica l'unico partito implicato nella P2. Risposta: «Però io sono l'unico Segretario di partito che si trova in questa situazione (negli elenchi della P2 - N.d.R.), sono in certo senso il protagonista politico di questo scandalo che si vorrebbe montare alle mie spalle. E spero che molti mi diano il voto proprio per questo».
(Il Segretario PSDI Longo: «Che imprudenza feci con quella visita di ottobre a Gelli», "Corriere della Sera", 20.6.81)
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«Lei come giudica il rifiuto di socialisti e repubblicani di partecipare alle trattative per la formazione del Governo insieme a Pietro Longo, implicato nella P2?
Sono chiacchiere. Comunque scriva pure che il PSDI non potrà rimanere fuori dal Governo per questo fatto».
(«Chiacchiere, insinuazioni, torbide manovre, il PSDI si stringe intorno al Segretario», "la Repubblica", 12.6.1981).
Infatti il PSDI di Pietro Longo entrerà, a vele spiegate, nel I Governo Spadolini (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI), il presidente della «questione morale».
* * *
La DC ha perso il primo round della crisi e di brutto, ma ora è costretta a far buon viso a cattivo gioco. Lo staff di Piazza del Gesù ieri era impegnato a spegnere il malumore e il nervosismo che serpeggiano nelle fila del partito. «L'incarico a un laico? Non è che ci faccia perdere il sonno... Eppoi, avete visto come Spadolini è subito diventato più prudente sulla P2 appena ricevuto il mandato?». ("la Repubblica", «DC divisa, Piccoli in difficoltà, la sinistra favorevole a un bicolore con il PRI», 12 giugno 1981)
* * *
Da quanto tempo è in politica? «Le mie prime esperienze politiche risalgono addirittura all'occupazione tedesca di Roma quando non avevo neanche nove anni e mia padre mi portava alle riunioni clandestine e mi mandava in giro per Roma in bicicletta a distribuire il materiale propagandistico».
(«Pietro Longo, Interrogatorio di terzo grado», "l'Espresso", 23.11.80)
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Sicché abbiamo Pietro Longo «partigiano» a nove anni. Quale meraviglia allora che a 19 anni Giovanni Spadolini partecipi alla vita della Repubblica di Benito Mussolini?
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Un breve commento alle note che più sopra abbiamo riportato (e che occorre, noi missini, portare in mezzo alla gente). Come constaterete quando per Longo si tratta di conquistare fette di potere, allora sta bene mettersi d'accordo anche con il PCI. Quando ai comunisti preme piazzare un proprio sindaco a Roma, allora anche il voto del «piduista» Pietro Longo non fa schifo, ma è bene accetto. Quando a Giovanni Spadolini interessa portare in porto il suo primo governo, per cui deve trattare con il piduista Longo, manda al diavolo la questione morale. Quando i DC si vedono portar via la sedia del Presidente del Consiglio, imprecano e attaccano Spadolini che, per desiderio di seggiola, dimentica la P2.
È una bella compagnia. Ora Longo chiama Spadolini «nazifascista» e Spadolini replica: «Mafioso»!
Questo è il Governo della Repubblica italiana. E il Presidente della Repubblica, anche lui moralizzatore, sta a guardare. In silenzio.
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E che dire del fatto che noi siamo stati ghettizzati per 40 anni (e ancora non è finita) da gente simile? E lo siamo stati in ordine proprio all'accusa di «nazifascismo», accusa che fa scrivere a Spadolini che, quando si ricorre a simili polemiche, si scende all'imbarbarimento aberrante e miserabile?
Lo sapevamo. L'«arco costituzionale», che anche Spadolini e Longo si sono adoperati a tenere in piedi a fini di potere, non poteva non essere impastato di imbarbarimento aberrante e miserabile. Chi lo ha messo su ne dà oggi le prove. Inequivocabili.
* * *
Sentite questa. «E per quanto forte possa essere il disgusto e l'avversione verso uomini e cose del recente passato in taluni strati della gioventù, non si illudano i liberali e i democratici e i massoni di riconquistare, con i loro dogmi mummificati e svigoriti, l'animo dei giovani. Prova ne sia il fatto che fra i giovani antifascisti più vivi e animosi delle città e fra gli sbandati che, sulle montagne dell'Italia centro-settentrionale, conducono una guerriglia, talora sanguinosa più spesso simbolica, contro i rappresentanti del fascismo, più ancora che contro i tedeschi, non le idee putride e senili del liberalismo attecchiscono, ma i forti, suggestivi, rivoluzionari propositi del comunismo. Segno che il fascismo, nel decapitare gli idoli del parlamentarismo e della democrazia, era andato incontro nel '22 a un bisogno generale, che è vivo ancora oggi. Segno che, se un problema dei giovani esiste per tutti gli innamorati fedeli della libertà, è la scelta fra essere liquidati dalla gioventù fascista o dalla gioventù comunista».
(Giovanni Spadolini, "Italia e Civiltà", anno I, n. 8°, 26 febbraio 1944)
* * *
Diciannove anni, va bene, ma idee (e cuore) ne aveva Giovanni Spadolini, checché ne dica Saragat!
Chi è che si azzarda a dire che Spadolini è senza coglioni?

 

31 luglio 1984
Serviva il sistema


Scrive Tina Anselmi nella sua relazione sulla Loggia massonica P2: «Gli elementi conoscitivi, in possesso della Commissione, inducono a ritenere improbabile che Licio Gelli e gli uomini e gli ambienti dei quali egli era espressione si ponessero realisticamente l'obiettivo politico del ribaltamento del sistema, mentre assai più verosimile appare attribuire loro il progetto politico verso forme conservatrici di più spiccata la tendenza. Comprova questa interpretazione l'esame delle testimonianze e dei documenti sinora ampiamente citati, e se tutto ciò è vero, e tutto di induce a questa analisi, non è azzardato allineare, accanto all'interpretazione più evidente dei fatti, un'altra ipotesi; ipotesi ricostruttiva di pari possibile accoglimento, che la prima non esclude: quella cioè che la politica di destabilizzazione, nella quale Gelli e i suoi accoliti, si inserivano mirava piuttosto, con paradossale ma coerente lucidità, alla stabilizzazione del sistema».
* * *
Fate bene attenzione. L'affermazione di Tina Anselmi è sconvolgente. Per l'autorità della sede da cui viene prospettata, e dalla maggioranza del Parlamento (Camera e Senato) che la fa sua. In questi giorni estivi, alla vigilia della ricorrenza della sanguinosa strage della Stazione di Bologna dell'agosto 1980.
Che vuole dire Tina Anselmi?
Rendiamo il discorso il più chiaro possibile, con l'abituale avvertenza perché le Federazioni che leggano, comprese le più sperdute sezioni periferiche del MSI, vi sappiano costruire una politica, la politica della verità. Sulle stragi.
* * *
L'Anselmi scrive le note riportate nel capitolo «I collegamenti della P2 con l'eversione». Licio Gelli, secondo queste note, uomo dei Servizi segreti, sarebbe stato l'elemento di articolazione nel torbido rapporto tra le istituzioni (la Anselmi descrive i servizi segreti come una setta criminale) e le varie frazioni del partito armato. Vi sarebbe stata quindi una strumentalizzazione, da parte di Gelli e della P2, delle sacche più deliranti del: terrorismo, per ricompattare il sistema con le stragi e con l'assassinio (vedi vicenda di Aldo Moro). Le stragi quindi, scrive l'Anselmi, e la maggioranza del Parlamento approva, hanno matrice moderata.
* * *
È il Sistema che, giocando sul sangue, strumentalizzando «rossi e neri», ricompone se stesso «al centro», ricostruisce la propria immagine moderata, si riproduce immacolato e puro, dopo averne fatte di tutti i colori.
* * *
È la tesi della «strage di stato». Ci siamo arrivati. Ci arriva l'intero parlamento italiano. Nel 1984. Ed ora, le conseguenze? Non ce ne rendiamo conto perché ci siamo sotto. Scrivere che sono sconvolgenti è poco. Ma tutto ciò non deve rimanere patrimonio di pochi intimi, o nel chiuso delle nostre sedi; queste verità che stanno venendo fuori devono essere portate fra la gente. È qui che si misura la vitalità di un partito, la forza del suo messaggio e della sua storia.
* * *
Nella Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia massonica P2 c'è stato, fra il comunista onorevole Achille Occhetto e il senatore socialista Luigi Covatta, questo scambio di opinioni (pag. 442, Resoconti stenografici sedute Commissione, Doc. XXIII n° 2 - ter/15, IX legislature):
Achille Occhetto; «se ho capito bene il senso del tuo ragionamento, poteva esserci una convergenza di interessi tra Est e Ovest per eliminare l'originalità del caso italiano, rappresentato dalla politica di Aldo Moro, cioè di incontro tra una parte della DC e il PCI. Se ha senso questo tuo ragionamento, allora questa parte della DC e il PCI sarebbero le vittime di questo interesse convergente. Questa è l'unica spiegazione che si può dare del tuo intervento».
Luigi Covatta: «A parte il fatto che, caro Occhetto, insieme a qualche altro compagno del PCI, mi hai insegnato, nei giorni del sequestro Moro, che esiste anche la "sindrome di Stoccolma", per cui le vittime spesso sono complici dei loro esecutori, per essere chiari possiamo anche ricordare che all'interno del PCI non mancavano, e non mancano, gli oppositori rispetto a questa linea e che questa linea che si è interrotta, si chiamava eurocomunismo».
* * *
Insomma, veniamo al sodo: chi è che ha assassinato Aldo Moro? L'antifascismo è diviso. Una parte dice: CIA. Un'altra afferma: KGB. Un'altra ancora: CIA e KGB insieme. E Gelli a fare da intermediario. Pesa essere arrivati, in Italia, dietro le salmerie straniere. Fatto sta che nessuno dice che, comunque la cosa si metta, «qualcuno» ha infeudato lo Stato italiano a uno o più servizi segreti stranieri. Gelli, burattinaio dei politici italiani, era a sua volta un burattino di potenti organizzazioni internazionali. Ecco perché l'efficientissima Svizzera ha fatto fuggire dalle sue efficientissime carceri Gelli.
Erano in gioco interessi superiori. Non certo italiani.
* * *
C'è chi afferma che la «questione morale» è tutto. Che da essa dipende se il Paese si salverà, o no.
Senz'altro, ma la questione morale è, a sua volta, dipendente dalla «questione nazionale». Da 37 anni l'Italia è governata da un partito, o da una coalizione di partiti, che non si sono mai posti il problema della sovranità nazionale.
Le credenziali di lealtà nazionale e di indipendenza dall'estero vanno chieste non solo al PCI. Vanno chieste anche, e soprattutto, alla DC, al PRI e al PSDI.
Ecco il punto. Perché è da questo torbido universo che vengono le bombe e gli assassini. Tutta la vicenda P2 (e le sue carte) testimonia quanto affermo.

 

17 novembre 1984
Il compagno Natta in camicia nera


E veniamo ora al caso Natta, segretario del PCI. Il suo caso ha fatto rumore in questi giorni.
Remigio Cavedon, vice direttore de "Il Popolo", attingendo da notizie che "Il Secolo d’Italia" aveva riportato fin dal 13 aprile 1979 (cinque anni fa, e nessuno ci aveva fatto caso. Si vede che registrano e poi mettono, per ogni evenienza, nel cassetto), ha titolato il suo pezzo (6/11/84): "l’ex-fascista Natta vuol mettere le mani sul sistema".
Scagliati cielo. È accaduto il finimondo. "l’Unità" ha prima replicato (7/11/84) con un corsivo dal titolo "Quando il Popolo impazzisce" («i comunisti non scenderanno mai a simili livelli: l’insulto personale, la rissa, la provocazione»); poi, il giorno dopo (8/11/84), con un lungo articolo, rispondendo alla provocazione, ci ha narrato una lunga storia che, simile ad una fiaba paesana, ha ricostruito Alessandro Natta, iscritto (con cariche) al PNF (Partito Nazionale Fascista) fin dal 1937, come l’antifascista più puro e più intemerato.
Ed allora qualche precisazione non guasta.
Scrive "l’Unità", sotto il titolo "1937-1941: l’antifascismo di Natta, fine di una meschina provocazione": «La verità è che il compagno Natta era stato educato, fin dall’adolescenza, all’antifascismo, che diverrà vera e propria milizia appena diciottenne lasciò Imperia per l’Università pisana».
Fermiamoci qui. "l’Unità" è inesatta. Alessandro Natta non lasciò Imperia per l’Università pisana, ma per la prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa (la Scuola che dà Premi Nobel), allora diretta dal filosofo Giovanni Gentile.
«Educato, fin dall’adolescenza, all’antifascismo», scrive "l’Unità".
Oh! Santa bugia!
I posti alla Scuola Normale Superiore, classe di Lettere, per il 1937, erano nove. Selezione, dunque, severissima, con concorso nazionale.
Ora, delle due l’una: o il regime fascista, nel 1937, cioè nel suo fulgore, non guardava alla tessera, ma premiava, grazie a Giovanni Gentile, i meritevoli; oppure, la selezione avveniva tenendo conto della tessera (fascista), che Alessandro Natta possedeva, fin dall’adolescenza («antifascista»). La scelta la lasciamo a "l’Unità".
C’è qualcosa di più. Alessandro Natta, nel 1941 -quando già, secondo "l’Unità", fondava, fascismo imperante, cellule comuniste in quel di Imperia-, annoverava nel PNF un doppio incarico: non uno, ma due.
Infatti, non si limitava a far parte del comitato di redazione della rivista "Il Campano", organo del GUF (Gruppo Universitario Fascista), ma addirittura veniva chiamato a dirigere la cultura: cioè, responsabile del settore più delicato della organizzazione fascista, nell’ambito universitario.
La verità la dice, non "l’Unità", ma Degl’Innocenti Danilo, allora addetto all’organizzazione e che, con Natta, faceva parte del direttorio del GUF pisano: «Alessandro Natta era un ambizioso impenitente. Voleva arrivare. E, per arrivare, dava gomitate incredibili. Fascistissimo. Un primo della classe E, se non fosse stato così, come avrebbe potuto avere quegli incarichi?».
Non la giovane età (a 23 anni si è già maturi); non gli avvenimenti (Natta risulta iscritto alle organizzazioni giovanili fasciste, poi al GUF, poi al PNF); non fa registrare un suo sdegnoso appartarsi, ma ricopre cariche (e che cariche, le più delicate nei settori giovanili del partito): questo è il Natta edizione 1937-1941, attuale segretario del PCI, il partito di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer.
Perché dunque prendersela con Remigio Cavedon che, poverino, non ha fatto altro che riportare fatti certi e accaduti?
E, come sempre, la sbavatura DC, il partito della doppiezza: Remigio Cavedon viene rimproverato da Flaminio Piccoli. «È stato un grave errore» -ha detto Piccoli- «rimproverare a Natta il suo giovanile fascismo».
Ipocrita, per non dire di peggio.
Alla vigilia del referendum sul divorzio, Flaminio Piccoli, a chi gli chiedeva conto, alla TV, dell’accostamento, in quella campagna referendaria, con i «fascisti» del MSI, rispondeva che, per la DC, quei voti erano «colerici».
Anche per quelle parole, giovani meno che diciottenni, sono stati assassinati.
«Uccidere un fascista non è un reato». Allora, nessuna dichiarazione del presidente della DC, contro quella barbarie.
Oggi un ben diverso «colera» infetta (il partito di) Flaminio Piccoli. È nell’occhio del ciclone. E che fa?
Adotta un comportamento sperimentatissimo: quello di mettersi sotto la protezione comunista quando lo sporco ci sommerge. E tenta di salvare Alessandro Natta. Che ne viene fuori? Schizzi di fango.
«Personalmente ho sempre ritenuto che Giovanni Gentile, uno dei massimi responsabili del tradimento degli intellettuali, dovesse finire così». Così dice Alessandro Natta del suo Maestro, il 12 agosto 1984 ("L’Espresso"), appena eletto, tronfio di gloria, segretario nazionale del PCI. (per chi non lo sapesse, Giovanni Gentile, filosofo e docente universitario, ministro della pubblica istruzione 1922/1924 e senatore, direttore della Normale di Pisa e dell’Istituto per l’Enciclopedia Italiana, presidente dell’Accademia d’Italia, fu vigliaccamente assassinato da una banda di partigiani comunisti, il 15 aprile 1944, a Firenze).
Novembre 1984: l’antifascismo di Natta si squaglia, come melma, al sole. Appena tre mesi. Sufficienti però, per chi aveva tacciato Giovanni Gentile, il proprio maestro, di tradimento, per cadere nella merda.

Giuseppe Niccolai

L’articolo di Niccolai era corredato della riproduzione fotografica della nomina di Alessandro Natta al Direttorio del Gruppo Universitario Fascista pisano, tratta dalla rivista "Il Campano", numero di marzo-aprile 1941.
Riporto qui per esteso il testo di tale nomina:
Nomina del Direttorio.
In data 18 marzo u.s., il Segretario Federale ha ratificato la nomina del Direttorio del GUF Pisano, che risulta pertanto così costituito:
- Nardi Pilade Osvaldo, laureato in Medicina e Chirurgia, iscritto al PNF dal 1° agosto 1922, volontario in AOI (Africa Orientale Italiana), tenente medico: Vice Segretario;
- Degl’Innocenti Danilo, laureando in Economia e Commercio, iscritto al PNF dal 23 marzo 1928, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili, sottotenente di fanteria, pilota civile: Addetto all’Organizzazione;
- Natta Alessandro, laureato in Lettere, iscritto al PNF dal 24 maggio 1937, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili: Addetto alla Cultura;
- Lucarelli Antonio, laureato in Legge, iscritto al PNF dal 24 maggio 1934, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili, volontario in AOI, sottotenente di fanteria: Addetto allo Sport.


8 dicembre 1984
Moto di mafia (in Parlamento)


Dal documento XXIII 1/2, IX legislatura, XXV Tomo del 4° volume, pagine 3011 e seguenti, allegato alla relazione conclusiva della Commissione antimafia, la seguente intercettazione telefonica, effettuata per la fuga di Luciano Liggio:
«Turno con orario 14-22 del 6.3.1970, ore 14.35. In entrata, voce di uomo a nome Simone Gatto, risponde voce di uomo, a nome Peppino e parlano:
Simone: Ti ho telefonato per dirti che ho parlato con Pietro e con la moglie di Pietro di quel loro contrasto.
Peppino: Sì, esatto, esatto..
Simone: Io ti volevo proporre una cosa, se ci vediamo domani, in mattinata.
Peppino: Quando vuoi Simone, sinceramente non ti dico che sono lieto di questo incontro, per questa occasione, ma ne sono lieto per vederti Simone.
Simone: Verso le 10, le 10.30. Vieni al Senato, cerca di me. Ti accompagneranno sopra.
Si salutano.
I personaggi: Simone Gatto, già del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente. Vice presidente del Senato. Eletto nel collegio di Trapani e di Enna per tre legislature. Sottosegretario al Lavoro nel 1° Governo Moro, presidente della Commissione Lavoro del Senato. Ha fatto parte della Commissione di inchiesta sulla mafia fin dalla sua costituzione.
Peppino, o meglio Giuseppe Mangiapane. La Commissione antimafia, nella relazione conclusiva, si occupa di lui alle pagine 263, 271, 378, 413, 490, 492, 1039, 1072 e passim, 1268.
Il senatore MacLellan riferisce, nel suo famoso rapporto, che Frank Coppola, «oltre essere un noto criminale, un Killer, era associato nel traffico internazionale della droga a Lucky Luciano, a Giuseppe Mangiapane e a Carlos Marcello, noto gangster ...».
* * *
Quando l'intercettazione telefonica sull'apparecchio di Mangiapane Giuseppe, trafficante internazionale di droga, avveniva, correva il 3 marzo 1970, quattordici anni fa... Dunque quattordici anni fa il Vicepresidente del Senato della Repubblica italiana riceveva, nelle... severe stanze di Palazzo Madama, un trafficante di droga internazionale.
1970-1984: quanti assassini, eccellenti e no, sono accaduti in questi anni?
Andate a vedere se, dopo quell'intercettazione, vi sia stato, al riguardo, qualche provvedimento.
Nulla; si è soffocato tutto, dolcemente... E le lupare hanno continuato a crepitare.
* * *
In data 13.1.1972, con numero di protocollo z23/461-1, corredato da 8 allegati, giunge alla Commissione antimafia, allora presieduta da Francesco Cattanei, il famoso rapporto del Comandante la Legione dei carabinieri di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa su «Francesco Vassallo, costruttore edile», e i suoi amici politici.
Nell'allegato numero 5, citato nella relazione di minoranza dal sottoscritto, si raccontano le vicende della società cooperativa a.r.l. "Banca Popolare di Palermo", fondata nel 1956 da diversi soci, fra i quali Salvo Lima e noti mafiosi, come Prestifilippo Giovanni, nipote del noto mafioso (così Dalla Chiesa nel suo rapporto) Prestifilippo Girolamo, uno dei maggiori esponenti del clan Greco.
Dalla Chiesa, nel rapporto, li enumera, uno per uno, questi soci, con le note caratteristiche accanto: arrestato, pregiudicato, mafioso, elemento pericoloso, appartenente ad organizzazione a delinquere. Accanto al nome di Lima è detto: Lima Salvatore, classe 1928, da Palermo, deputato nazionale per la DC.
L'allegato citato, pubblicato nel Doc. XXIII 1/V, VIII legislatura, volume 4, tomo X (pagine 534-539), dopo avere raccontato l'attività della Banca, gli sportelli aperti in Palermo, Partanna Mondello, Villafrati, Misilmeri, termina cosi: «In merito all'attività della citata Banca, sono state raccolte voci in diversi ambienti relative a finanziamenti ottenuti da personaggi dediti al contrabbando internazionale, in qualche modo collegati ad alcuni soci, non potuti identificare, della Banca stessa».
* * *
Il rapporto, con gli allegati, capita sul tavolo del Presidente dell'antimafia, il democristiano Cattanei, nel gennaio 1972.
Credete voi, che sia stata presa la decisione di interrogare Salvo Lima?
Nemmeno per idea. E dato che Dalla Chiesa sospettava che dietro gli sportelli di quella Banca controllata fra l'altro dal clan dei Greco, si facesse contrabbando internazionale (e non certo di sigarette), quale occasione migliore, per i... notabili di questa Repubblica, se non nominare sottosegretario alle Finanze, con la delega di sovrintendere alla Guardia di Finanza, proprio Salvo Lima?
E così è avvenuto. Chi era (ed è), in Roma, il protettore di Salvo Lima?
Giulio Andreotti. Come volevasi dimostrare.
* * *
Fatto curioso, che affidiamo all'attenzione dei magistrati palermitani. Degli otto allegati al rapporto Dalla Chiesa, già citato, ne vedono la luce solo sei. Due, e precisamente il sesto e l'ottavo, non vengono pubblicati per volontà dell'onorevole del PCI Pio La Torre, assassinato dalla mafia.
Infatti nel volume citato è testualmente detto: «Viene omessa la pubblicazione dell'intero allegato, in quanto, a giudizio del relatore di minoranza, deputato Pio La Torre, le notizie in esso contenute non hanno specifica concludenza rispetto agli argomenti trattati nella sua relazione».
Che c'è scritto in questi allegati rimasti top-secret?
E perché Pio La Torre pose il suo veto alla loro pubblicazione?
Eppure quelle note erano di mano dell'allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa.
* * *
Nell'articolo n. 7, Carlo Alberto Dalla Chiesa, compie una radiografia dell'impresa edile Averna e Geraci, e poi Geraci Saverio e C.
Tra gli affari dell'Impresa, Dalla Chiesa enuncia i seguenti:
17.XI.1961: acquisto dal noto mafioso Rosario Mancino di un'area edificabile, sita nella villa Orleans di Palermo, a prezzo unanimemente ritenuto irrisorio.
15.XII.1961: vendita a Pennino Vincenzo, cugino del noto Ciancimino Vito, di un appartamento in via Tevere, al prezzo dichiarato di 7 milioni.
17.XI.1961: vendita al noto mafioso Angelo La Barbera di un appartamento, in Via Veneto, al prezzo dichiarato di 7.300.000.
9.VI.1962: vendita a La Barbera Salvatore, fratello del più noto Angelo, mafioso, scomparso, di un appartamento in Via Veneto, al prezzo dichiarato di 13.500.000.
3.X.1961: vendita all'on. del PRI Aristide Giumella, di un appartamento in Via Veneto, al prezzo dichiarato di 12 milioni.
Le indagini, scrive Dalla Chiesa, acclararono che. l'impresa si dovette assoggettare a regalare appartamenti ai detti mafiosi La Barbera, e Mancino, al fine di ottenere protezione.
A tale riguardo, e per le singolari coincidenze che si evidenziano a vista d'occhio, l'on. repubblicano (il partito della questione morale) Aristide Gunnella, non è stato mai ascoltato. Anzi. Il PRI, il partito della moralità pubblica, lo ha fatto sottosegretario e, più recentemente, vice segretario nazionale del PRI.


15 dicembre 1984
Torino, la Mecca della tangentocrazìa


Lo scenario: la cappella dell'antico Istituto delle Rosine, in Torino, trasformata in tribunale.
Protagonista: il gran corruttore, il ragioniere Adriano Zampini, piemontese. Gli fanno corona il vice sindaco di Torino, il socialista Enzo Biffi Gentili; il deputato del PSI Giuseppe La Ganga, uno dei vertici del partito; gli ex-assessori alla Regione Piemonte, i socialisti Claudio Simonelli e Gianluigi Testa; l'ex-deputato del PSI Francesco Frojo; l'ex-assessore al patrimonio del Comune di Torino Libertino Scicolone del PSI; il prof. Giuseppe Gatti consulente a più riprese di diversi governi nazionali, già capo gruppo della DC alla Regione Piemonte, vicinissimo al vice segretario nazionale della DC Bodrato; gli ex dirigenti della DC Liberto Zattoni e Giovanni Falletti; Nanni Biffi Gentili, fratello di Enzo, già vicesegretario di Torino del PSI; Umberto Pecchini responsabile Fiat del settore relazioni istituzionali; Giancarlo Quagliotti, capogruppo del PCI al Comune di Torino e Franco Revelli, capogruppo alla Regione per conto del PCI.
Le imputazioni: interesse privato in atti di ufficio, corruzione, associazione per delinquere.
* * *
«È un'ora triste» -scrive il "Corriere della Sera" (27.XI.84), sotto il titolo "Watergate subalpino"- «per la città di Einaudi, di Gobetti, di Gramsci, di Bobbio. Ma c'è chi si consola guardando al resto d'Italia... La corruzione fa leva anche sulle frustrazioni individuali e sulla noia di una città priva di salotti e di terrazze mondane. Un viaggio a Las Vegas -è sempre il "Corriere" che parla- una palettata di caviale, possono far breccia anche nel cuore di un assessore comunista. Piaccia o no, il PCI non rappresenta più un'umanità diversa, un'isola di spartana sobrietà. La cultura del successo, ormai dominante in Italia, è penetrata anche li».
* * *
Vediamola questa cultura del successo, cosi come veniva praticata dal ragionier Adriano Zampini per corrompere una intera città, la città di Torino: Comune, Provincia, Regione, la Fiat, politici, sindacalisti, industriali, banchieri, portaborse.
«Un viaggio a Las Vegas, una palettata di caviale, possono far breccia anche nel cuore di un assessore comunista», afferma il filosofo di sinistra Gianni Vattimo.
Infatti il ragionier Adriano Zampini aveva, al riguardo, una tecnica tutta sua, ma, se ci fate caso, talmente generalizzata in Italia, da non essere affatto difficile ad individuare uno Zampini in ogni città.
* * *
Per me questi viaggi intorno al mondo» -spiega lo Zampini ("l'Espresso" 18.XI.84)- «avevano un obiettivo molto preciso: riuscire in poco tempo a passare con questi personaggi, da quell'amicizia che lega chi fa gli affari insieme a quella, molto più solida, che lega, che viene dall'andare in piscina insieme, dall'ubriacarsi insieme, dal fare porcate insieme (...) I viaggi organizzati da me univano l'utile al dilettevole. Erano ufficialmente spedizioni di lavoro perché si andava a visitare gli impianti da fornire al Comune, alla Regione, ma c'era anche il tempo per divertirsi. E chi è quell'uomo, o quella donna che, così lontano da casa, in mezzo a champagne e caviale, non commette qualche sciocchezza che lo renderà se non ricattabile, quanto meno compromesso agli occhi del corruttore che li accompagna passo passo, pronto a farli star bene, a fare in modo che non si annoino?».
(Adriano Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84)
* * *
«I soldi scorrevano veloci. Una volta, in aereo, era il Concorde, comprai regalini per tutti, spendendo tre milioni. Mi ricordo che feci compilare la distinta al prof. Giuseppe Gatti (già consigliere economico del ministro Bodrato, democristiano di sinistra dell'area Zaccagnini, già capo gruppo DC alla Regione Piemonte, N.d.R.). Rimase allibito dalla cifra, ma non disse niente e, da quel momento, per ciò che mi riguardava, era fatto, era compromesso, cioè pronto a far parte del gioco».
(A. Zampini, "l'Espresso", 18. XI. 84)
* * *
«Un'altra volta, eravamo a Stoccolma, andammo a cena in un locale dove c'era uno spettacolo fatto da uomini travestiti.
Eravamo in sei o sette e spendemmo due milioni e mezzo: bevemmo un paio di casse di Veuve Cliquot e finimmo a palettate di caviale, a tirarci il caviale in faccia ...».
(A. Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84)
* * *
«Sempre sul Concorde un comunista, Raffaele Radicioni, assessore al Comune di Torino, si lasciò andare dopo aver mangiato di tutto (aragoste, caviale ...) e bevuto un bel po' di Brunello di Montalcino (100.000 lire a bottiglia - N.d.R.): "però -disse- questo capitalismo ha anche i suoi Iati positivi" ...».
(A. Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84)
* * *
Una pausa, per riflettere. Chi sta raccontando le vicende su riportate, ha dichiarato di avere versato tangenti per più di due miliardi di lire, e per sua stessa ammissione, si stava accingendo (se i carabinieri non fossero intervenuti a mettere le manette all'intera banda superpartitica) ad intascare illecitamente qualcosa come 20 miliardi di lire, tutti provenienti dalle casse pubbliche di Torino, la Torino rossa, la Torino operaia, la Torino intellettuale, culla dell'antifascismo e della resistenza.
* * *
State a sentire. 23 novembre 1984: il Presidente del Tribunale chiede a Zampini: come ha conosciuto gli uomini che sono seduti, insieme a lei, sul banco degli imputati?
Risposta: ... «Salvini della Siemens Data mi fu presentato da Claudio Bellavista della sinistra del PSI. In cambio io diedi dei milioni per la campagna elettorale della sinistra socialista. Servivano ai candidati Giovanni Astengo e Michele Moretti. Consegnai i soldi (fate bene attenzione! - N.d.R.) in presenza di Nerio Nesi, dell'onorevole Fiandrotti e di altri esponenti del PSI che ringraziarono. Astengo non voleva saperne, ma i soldi erano necessari perché secondo quanto poi disse uno di loro, Nesi aveva venduto (sic! - N.d.R.) la corrente di sinistra a Craxi per la presidenza della Banca Nazionale del Lavoro... Nesi mi ringraziò e mi disse anche di portare la documentazione della mia azienda perché poteva essere utile alla Banca Nazionale del Lavoro, di cui è presidente»..
* * *
Abbiamo notato sulla stampa le smentite del sindacalista Giorgio Benvenuto, accusato da Zampini di avere ricevuto, dal presidente della Federmeccanica Walter Mandelli, 20 milioni di lire «in una scatola di cioccolatini»; abbiamo notato la smentita dell'on. Arcangelo Lobianco, presidente della Coldiretti per l'accusa di tangenti percepite; ma, fino ad oggi, dal presidentissimo della Banca Nazionale del Lavoro, una delle più prestigiose del sistema bancario italiano, non è giunto, al riguardo, nemmeno un rigo. O non ce ne siamo accorti?
* * *
Quando venti mesi fa (2 marzo 1983) scoppiò lo scandalo di Torino, per cui oggi si celebra il processo, Luigi Arisio, deputato, animatore della famosa rivolta dei quadri intermedi, la marcia dei quarantamila, dichiarò: «Ciò che è accaduto a Torino in materia di tangenti è peggiore del terrorismo ("la Repubblica", 7 marzo 1983). Gli fece eco lo scrittore Giovanni Arpino che sul settimanale "Gente" (8.3.83) affermò: «La corruzione dei politici è per Torino la vera morte civile».
Dunque: un super-partito, dalla DC al PCI, al solo scopo di mettere le mani sui soldi dei cittadini.
E la Lookheed della classe politica torinese. La «leggenda» della Torino rossa che occupa le fabbriche, diventa la «favola» della Torino «progressista» che occupa il Comune, la Provincia, la Regione, per rubare.
Che tramonto.
* * *
Quando nel marzo 1983, i carabinieri misero le manette alla classe politica torinese, "la Repubblica" mandò un suo redattore ai cancelli di Mirafiori, a tastare il polso ai lavoratori. Ve le ricordate le risposte?
«E Novelli che cosa vuole? Che aspetta ad andarsene? Aveva il circolo dei ladri intorno a sé e lui dove era? Non vedeva? Se ne vada, se ne vada...». (16.3.83)
«Questa giunta è stata una delusione, creda a me. Lo sa come lo chiamano il sindaco? Lo chiamano "Diego il fiorista", perché da quando c'è lui la città è invasa da fiori ed aiuole, ma non si costruisce una casa». (16.3.83)
«Non bisogna più farli entrare in Comune, venti anni di galera ci vorrebbero, altroché!»
«Vadano a lavorare alle quattro del mattino in fabbrica e a vedere quanto costa sudarsi un milione... Quei porci si fottono miliardi. Ma è giustizia questa? E proprio la giunta rossa doveva permettere queste cose? Al muro li metterei, lo scriva, che li metteremo tutti quanti al muro!» (16.3.83)
* * *
Torino non è un episodio da poco. Ciò che è accaduto a Torino è più importante di ciò che accade a Napoli, a Palermo. La storia è tutta raccontata ora in Tribunale. Le Federazioni del MSI-DN sappiano leggere, in questa vicenda, la lezione che ne scaturisce; ne facciano politica-forte da portare in mezzo alla gente.
Ecco che cosa capita quando i partiti, anziché occuparsi dei problemi della gente, privilegiano la politica come arricchimento, la politica come lottizzazione, la politica come corruzione.
Spregiudicatezza, avventurismo, trasformismo; ma poi vengono le manette.
 

22 dicembre 1984
Visentini e l'ambizione


«Rappresenta uno stile nuovo». «Sembra che voglia redimere i peccatori». «È uno che non pratica la discutibile arte del compromesso». «Ha una dote: sa andarsene».
E giù ancora: «Visentini mette in crisi le coscienze». «Gli operai sono visentiniani». «Rigorista laico». «È ironico, ha gusto, è composto, è colto». «Il suo: un nuovo modo di fare politica».
Così "la Repubblica" del 15.12.84, a firma di Paolo Guzzanti.
* * *
Già, il 13.12, sempre su "la Repubblica", una intervista con Giorgio Ruffolo, presidente socialista della Commissione Finanze, aveva stabilito lo spartiacque: da una parte l'Italia dei bottegai: cialtrona, gentaglia, esercito di evasori fiscali di professione; dall'altra parte, quella di Visentini: l'Italia degli onesti, l'Italia civile, che lavora; che paga le tasse.
I socialisti, sottolineava Ruffolo, sono con l'Italia di Visentini. «La riforma fiscale è cosa nostra, è nella storia del partito: se cade Visentini cade tutto il riformismo del PSI».
* * *
È esatta questa analisi? È vero che esiste questa frontiera: il Paese moderno, civile e il Paese dell'intrallazzo e dell'arrangiamento? E possono i socialisti fare, a tale proposito, la morale, stabilire dove stanno i buoni, dove collocare i cattivi, parlare e discutere di onestà, di correttezza, di rigore amministrativo? Ma Giorgio Ruffolo le cronache scaturenti dal processo di Torino, sulle «tangenti» e altro, le ha presenti? Legge? Ma in che mondo vive?
* * *
Cosa sta accadendo? Come è possibile che «il nuovo modo di fare politica» di Bruno Visentini, il disegno politico che spunta dietro la criminalizzazione dei bottegai, veda, oggi, consenzienti proprio quei socialisti che, appena qualche anno fa, furono i più feroci avversari del «disegno» politico portato avanti dal ministro delle Finanze, arrivando perfino all'ingiuria più plateale?
E come si spiega che il colto, il misurato, il giusto Bruno Visentini se la intenda proprio con quei socialisti, da sempre accusati di essere dei pasticcioni, dei volgari arrampicatori, dei politici da quattro soldi?
Affermazioni false? Andiamo a vedere.
* * *
Ventinove febbraio 1980, proprio alla vigilia dell'introduzione della ricevuta fiscale obbligatoria nei ristoranti, il "Corriere della Sera" pubblica un articolo di Bruno Visentini. Titolo: «Ricevuta fiscale, ma all'italiana».
Prendendo le difese degli osti, Bruno Visentini, già ministro delle Finanze, mette sotto accusa Franco Reviglio, il ministro socialista delle Finanze in carica, l'inventore della ricevuta fiscale. Si tratta, scrive Visentini, di improvvisazione e di esibizionismo.
Il 29 marzo 1980, seconda bordata. Sempre sul "Corriere della Sera", allora organo della P2, Visentini mette sotto processo tutte le iniziative del «socialista» Reviglio: ricevuta fiscale, superispettori, l'imposta sulla seconda casa, il libro rosso degli evasori. «Tutto questo -scrive Visentini- costituisce soltanto la parodia della lotta all'evasione».
Questi i giudizi di Visentini sui socialisti, quattro anni fa.
* * *
Abbiamo scritto che Bruno Visentini ha illustrato se stesso (e le sue proposte), servendosi della... cattedra del "Corriere della Sera", quando il quotidiano di Via Solferino era controllato dalla P2.
Non sarà male ricordare che quello che sta spuntando dietro le quinte della «legge Visentini», e cioè una nuova maggioranza (il governo dei tecnici e degli onesti), è un disegno che il ministro delle Finanze, con quella caparbietà che gli è propria, porta avanti da anni. Di variato c'è solo la componente socialista: quattro anni fa esclusa da simile progetto, oggi ne fa parte. Dallo scontro all'incontro Craxi-Visentini.
* * *
Ricordate? Dicembre 1980, rapimento D'Urso. L'emergenza fa salire dai centri di potere, dal mondo imprenditoriale «impegnato», dalla stampa radicale e piduista ("la Repubblica", il "Corriere della Sera"), richieste e invocazioni di «governi forti», di rimedi eccezionali. Quasi, quasi ci si augura che anche D'Urso faccia la fine di Aldo Moro. Sarà cosi più facile realizzare il disegno autoritario dei tecnici e degli onesti. È in questo quadro che Gelli elabora il suo «Piano di rinascita democratica» (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI-DN), ma è anche in questo contesto che Bruno Visentini (13 ottobre 1980), dalle colonne del piduista "Corriere della Sera", lancia la proposta di un governo omogeneo di capaci e di onesti, con o senza tessera di partito (modo velato per dire: aperto al PCI).
* * *
Aprile 1981, Palermo, Congresso del PSI. Bettino Craxi, replicando alla proposta avanzata da Bruno Visentini circa il governo dei capaci e degli onesti, replica, citando Benedetto Croce:
«L'ideale che cova nell'animo di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive, declamazioni, utopie, è quello di una sorta di aeropago di onestuomini ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del Paese».
In breve Benedetto Croce serve a Craxi per dare del «cretino» a Visentini. È il 24 aprile 1981.
* * *
Non basta. Ottobre 1981, presidente del Consiglio è Giovanni Spadolini, succeduto a Forlani, caduto sulla vicenda P2.
Su "il Sole - 24 ore", Bruno Visentini, in un lungo articolo fa la (sua) storia circa lo scontro, fra le forze politiche, per il controllo politico del "Gruppo Rizzoli - Corriere della Sera". Ed è subito rissa.
Visentini, non solo accusa i socialisti di servirsi del caso Rizzoli come di un diversivo per stornare l'attenzione dalle dichiarazioni del banchiere Calvi che indicano il PSI «come destinatario all'estero di cifre ingenti», ma scrive che della trattativa, circa l'acquisto del "Corriere" da parte di Carlo De Benedetti, era stata data notizia al Presidente del Consiglio dei ministri Giovanni Spadolini; con il che Visentini andava a cercare rogna in casa propria, chiamando pesantemente in causa lo stesso presidente del Consiglio, accusato di sapere che il "Corriere" passava di mano...
* * *
Al che, questa interpellanza (ottobre 1981), a firma del socialista Claudio Martelli, diretta al presidente del Consiglio dei ministri, Giovanni Spadolini:
«Se il presidente del Consiglio dei ministri sia al corrente di incontri e di trattative aventi lo scopo di definire il passaggio delle quote di maggioranza della Rizzoli, valutate oltre 100 miliardi di lire; incontri e trattative aventi per protagonista il senatore Bruno Visentini presidente del PRI (di cui è segretario il presidente del Consiglio) nonché presidente della società Olivetti e il dott. Carlo De Benedetti, amministratore delegato della stessa società, con Bruno Tassan Din e quindi in forma personale o delegata con l'avvocato Umberto Ortolani».
Accusa pesantissima: Visentini, tu tratti con il piduista avvocato Ortolani, e il presidente del Consiglio ti tiene mano...
* * *
Al che, la replica di Spadolini: «Si precisa che il presidente del Consiglio (a diversità di quanto afferma Bruno Visentini) è stato informato dell'avvenuta trattativa fra il gruppo Rizzoli e il gruppo De Benedetti soltanto il giorno 30 settembre, a seguito di una telefonata dell'on. Bettino Craxi che ne aveva ricevuto comunicazione da Milano».
Così Bruno Visentini, il colto, il giusto, il composto ministro delle Finanze, si prende, e da parte del segretario del suo partito, la qualifica di bugiardo.
Tutto quello che volete: un grande uomo, ma anche uno che dice le bugie. Ce la vogliamo aggiungere alle molte virtù che arricchiscono la figura di Bruno Visentini, anche questa «qualità», la qualità di dire le bugie?
* * *
Cerchiamo di trarre la morale da questa vicenda visentiniana, con lo sfondo, come pretesto, i bottegai.
Allora è giusto dare il potere ai tecnici, agli imprenditori privati, ai sostenitori del libero mercato? Solo loro gli onesti?
È una colossale mistificazione.
Ma come si fa a sostenere, tanto per fare un esempio, che Carlo De Benedetti al governo, che ha coperto Calvi in difficoltà assumendosi la carica di vice presidente dell'Ambrosiano, sarebbe più credibile di un Craxi che ha difeso Calvi in Parlamento?
Come si fa a sostenere che «tecnici» dell'iniziativa privata come Sindona, come Calvi, come Caltagirone, come Gelli, come Cruciani, come Rovelli, possano risolvere i mali d'Italia?
Ci vuole ben altro. La Nazione è infetta. Il disegno caro a Visentini dimentica, o fa finta di dimenticare, che gli esempi più clamorosi di corruzione, di cui è piena l'attuale storia italiana, vedono come protagonisti proprio i potentati dell'economia cosiddetta libera, i più grandi finanzieri, le tecnostrutture, gli apparati separati dello Stato.
A Torino -non lo si dimentichi- nella palude maleodorante della vicenda delle tangenti, oltre il mondo politico, giganteggia la Fiat.
Ed allora, torniamo all'inizio del nostro ragionamento, è vero che il decreto Visentini rappresenta l'altra Italia, quella pura, limpida, onesta?
I socialisti applaudono. Anche i comunisti. Tutti contro i bottegai.
Ma i bottegai sono davvero la ragione della grande bagarre? O si tratta d'altro? Ma di che cosa?
Proviamo a dirla. Visentini sarà giusto, colto, grande. Ma è anche un impenitente ambizioso. Fino alla follia. E sente che può farcela. Il Quirinale è lì, tentatore.
E Visentini ci prova.


Giuseppe Niccolai

Inviato da Andrea Biscàro - http://www.ricercando.info