"Pagine libere", Anno VIII, n° 13 - 14, agosto - settembre 1988

 

Mafia, dalla Sicilia al Brennero

Giuseppe Niccolai

 

«Quanto al tema in discussione, debbo chiedere scusa, ma non posso non ricordare che nell'altra mia attività, che poi è quella che mi ha portato incidentalmente qui, proprio sul nascere della Commissione Antimafia, ho scritto e pubblicato un racconto intitolato "Filologia", nel quale si descrive un dialogo fra un mafioso colto ed uno rozzo sull'etimologia e le implicazioni storiche della parola mafia. Il mafioso colto cioè istruiva quello ignorante su ciò che avrebbe dovuto dire alla Commissione antimafia e su ciò che la Commissione antimafia gli avrebbe chiesto. Era un racconto, quasi uno scherzo un po' paradossale, ma in effetti è un po' quello che è accaduto. Siamo rimasti alla filologia, alla sociologia e, dopo diciotto anni, siamo qui a parlare ancora di un fenomeno che, invece di diminuire, abbiamo visto crescere. Non voglio dire con questo che i lavori della Commissione antimafia siano stati del tutto inutili; anzi, poco fa mi è stato chiesto di riconoscere quello che avevo detto alla televisione francese, cioè che la relazione di minoranza dell'onorevole Giuseppe Niccolai è una cosa molto seria; l'ho detto alla televisione francese, perché me lo hanno chiesto. Se me lo avesse chiesto la televisione italiana lo avrei detto egualmente: non esito a ribadirlo qui, davanti alla Camera dei Deputati»

(Leonardo Sciascia, Camera dei Deputati, seduta del 26 febbraio 1980)

 

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Il 17 aprile 1964 Oscar Luigi Scalfaro, più volte ministro, si dimette dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia. Perché? È rimasto un mistero. Fino a poco tempo fa. La Commissione invero, sia pure stancamente e a ranghi sparsi, si pose l'interrogativo: perché se ne va, senza motivare alcuna ragione? Nessuna risposta. Ora, Francesco Damato, socialista, nel libro "L'Ombra del Generale", ci racconta come andarono le cose: Scalfaro, messo a contatto con le carte della Commissione, arrivò ad una incontrovertibile constatazione: in quelle carte uomini di vertice della DC, addirittura uomini di governo, c'erano dentro. Fino al collo. E ne parlò a Zaccagnini che, allora era Presidente del Gruppo Parlamentare DC. Zaccagnini: «vai da Rumor, è Segretario del partito. Ti dirà lui come devi comportarti». La risposta di Rumor fu questa: lascia perdere. Tu non hai né visto, né ascoltato, né letto nulla. Scalfaro se ne va. In silenzio. Questo 24 anni fa. La mafia, in Sicilia, spara. Anzi, dal 1964 è un crescendo. Scalfaro, oggi, potrebbe testimoniare che quegli uomini, di cui le carte dell'antimafia «parlavano», sono sempre lì, ai loro posti. Anche la mafia.

«Il sistema di potere mafioso è entrato ormai irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli ultimi sviluppi della lotta politica all'interno della DC palermitana e la ricerca travagliata di un confronto democratico e costruttivo per dare una nuova direzione alla Amministrazione della Città e della Provincia di Palermo. Sviluppare tutto il potenziale democratico e rinnovatore dell'autonomia siciliana, voltare pagina nel modo di governare la Sicilia. Sappiamo che tale esigenza è ormai avvertita da un vasto schieramento di forze ed essa si fa strada anche all'interno della DC». Questo si legge nella Relazione conclusiva presentata dal PCI alla chiusura dei lavori della Commissione antimafia, avvenuta il 4 febbraio 1976. È a firma di Pio La Torre. Dunque, nel 1976, il deputato del PCI, a nome di tutto il suo partito, giurando sulla iniziata «rigenerazione» della DC, scriveva che il sistema di potere mafioso in Sicilia, era ormai entrato in crisi. E ciò perché la DC aveva deciso di rigenerarsi riciclandosi con il PCI. Otto anni dopo, a Palermo, il 1° maggio 1982 alle ore 9,20, Pio La Torre viene assassinato, massacrato dal fuoco incrociato dei killers. Dei suoi assassini nulla si sa. Del movente mafioso del delitto molto si è scritto. Anche di vendette su appalti che, anziché andare in una direzione, ne avevano, partiticamente, preso un'altra. Tanto che (siamo ai si dice) Pio La Torre, per derimere le cose, sia stato, dal PCI, inviato in Sicilia con la carica di Segretario Regionale. Nel 1976 descriveva che, rigenerandosi la DC, anche il potere della mafia era ormai in crisi. Ci credeva. Sei anni dopo trova la morte. E su vicende di potere partitico.

 

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1988: le rigenerazioni continuano. Ci si sono messi anche i Gesuiti. I partiti si ripuliscono, ma il massacro mafioso continua. Indisturbato. Dicono che i delitti mafiosi sono attacchi alle Istituzioni. L'analisi, per chi scrive, è un ... tantino errata. La mafia non può attaccare le Istituzioni perché essa stessa è «dentro» le Istituzioni. Secondo la celebre riflessione del senatore Girolamo Licausi: la mafia, in Italia, è cardine della vita politica.

 

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Mafia e partiti. Una domanda: quali ... «valori» vengono, di solito, premiati all'interno dei partiti politici?

Guardiamo se ne individuiamo qualcuno: la fedeltà al clan dominante, alla cosiddetta Cupola: la fedeltà dunque, non alle proprie convinzioni, ma a chi comanda, la docilità ai Capi bastone; l'astuzia nell'intrigo, l'omertà. Se ci fate caso, sono «regole» proprie del sistema mafioso e che oggi, dal Brennero alla Sicilia, fanno parte del costume politico e civile della società italiana. Sono penetrate «dentro». Si sono incarnate. Torino non è meno palermitana di Palermo.

 

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Tempo fa, quando Montanelli era ancora a "il Corriere della Sera", e precisamente il 4 novembre 1974, ad un lettore che gli chiedeva quali «differenze» vi fossero fra mafia e partiti, così concludeva:

«Le differenze sono in sostanza due. La prima riguarda i metodi di selezione. Nei partiti vengono eliminati gli uomini migliori, nella mafia no. Nella mafia non si diventa pezzi da novanta se non si hanno certe qualità. La seconda differenza riguarda la tecnica della lotta di potere. Che anche dentro la mafia questa lotta ci sia, e spietata, non c'è dubbio. Ma essa segue un regolamento e dei rituali che rendono per lo meno inequivocabili gli schieramenti. Nella mafia non c'è confusione: l'amicizia è amicizia e l'inimicizia è l'inimicizia, entrambe irrevocabili. I due campi sono nettamente separati, tant'è vero che su chi lo cambia si abbatte un castigo inflitto secondo procedure che lo rendono esemplare. Nei partiti le amicizie sono tutte «a termine». Vengono imbastite per eliminare un comune nemico, con cui si fa lega per eliminare l'amico. Il passaggio di campo non espone a nessun castigo perché è coonestato da una sottintesa «licenza di tradire». Non ci sono soldati riconoscibili per la loro bandiera ma soltanto dei travestiti impegnati in una quadriglia dalle figure perpetuamente congianti. Ma a questo punto - concludeva Montanelli - non mi fraintenda, caro Signore. Con ciò che le ho detto non voglio dire che la mafia è meglio dei partiti. Voglio soltanto dire che i partiti sono peggio della mafia».

 

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Ve lo ricordate il grido che Gaspare Pisciotta lanciò nell'aula del Tribunale di Viterbo quando si celebrava il processo per la prima strage impunita compiuta in Italia nel dopoguerra, quella di Portella delle Ginestre?

«Siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il padre, il figlio e lo spirito Santo».

«Dopo quanto si è visto in questi mesi in Sicilia e a Roma, nel tragico balletto di accuse fra il Capo dello Stato, la Magistratura, la polizia, il Governo, l'invettiva di Gaspare Pisciotta, che morirà poi avvelenato all'Ucciardone (altro mistero non risolto in questa Italia dei ... misteri), non è una bestemmia, ma una verità.

 

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Mi direte perché, nel riprendere, dopo tanti anni, questa rubrica "Rosso e Nero" per "Pagine Libere", ho voluto parlare di mafia. C'è una ragione. È vero: non tutto è mafia, ma se non tutto è mafia, è proprio sul terreno del costume e della mentalità tipicamente mafiose che l'Italia odierna può essere capita, spiegata e raccontata. Anche perché la Repubblica italiana non nasce al Nord con la Resistenza, ma in Sicilia, nel 1944, con lo sbarco alleato, in cui la mafia, per tanti versi, fu protagonista di primo piano. E il sottoscritto, proprio sul filo della mafia, tenterà, con "Rosso e Nero", di raccontarvi e spiegarvi questa Italia che, per dirla con Solinas, è levantina, direi morotea; porta con sé lo scirocco. E la prossima volta racconterò la storia del metanolo (ricordate? 12 morti) e della distruzione del Mare Adriatico. Anche questi fatti di mafia. Incredibili. Insensati. Emblematici. Per ciò che ci può capitare. Domani. Definitivamente. E distruttivamente.

 

 

 

 

"Pagine libere", Anno VIII, n° 15, ottobre 1988

 

Mafia & politica, quel vecchio sodalizio

Giuseppe Niccolai

 

Raccontare questa Italia sul filo di sangue della mafia. È stata depositata recentemente la sentenza del maxiprocesso di Palermo: settemila pagine. In una di queste si afferma che, negli anni '60, i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera avevano in mano la speculazione edilizia della città di Palermo, in quanto controllavano, attraverso amicizie politiche, l'amministrazione comunale. È una notizia che alla grande opinione pubblica arriva solo oggi, anno 1988 ... Ma già il 13 gennaio 1972, l'allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, comandante della Legione dei Carabinieri di Palermo, aveva inviato alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia un rapporto riguardante il costruttore Francesco Vassallo, il documento n° 737, ricco di molti allegati. Parte di questo rapporto, con molti omissis, è stato pubblicato nei documenti che fanno da corona alla relazione conclusiva. Ebbene, se prendiamo il volume IV, tomo X (VI legislatura), a pagina 542, troviamo un esposto compilato dal Nucleo Indagini dei Carabinieri contro la mafia, riguardante una impresa edile sospetta, la ditta Geraci. In detto esposto è riferito che l'impresa in questione, nel lavoro di trasporto, già gestito dal noto mafioso Gino Ricciardi, subito dopo il suo «assassinio», aveva passato l'incarico ai «noti fratelli La Barbera». C'è di più. I carabinieri scrivono (1972) che l'impresa Geraci, per ottenere la protezione dei suddetti fratelli La Barbera, era stata costretta a «regalare loro» alcuni appartamenti. Infatti il 7 novembre 1961 l'impresa ... cede a Angelo La Barbera un appartamento sito in Palermo, via Veneto 70; ed il 9 giugno 1962 altro appartamento, sempre in via Veneto, a Salvatore La Barbera. C'è un particolare non insignificante. Il 3 ottobre 1961 la stessa ditta cede un appartamento, sempre locato nella fatidica via Veneto, all'onorevole Aristide Gunnella, vice segretario nazionale del PRI nonché già sottosegretario e ministro della Repubblica italiana. Se qualcosa di più si vuole sapere, rimando alla sentenza di rinvio emessa il 23 giugno 1964 dal giudice istruttore presso il Tribunale di Palermo riguardante Angelo La Barbera e altri, imputati di numerosi delitti verificatisi nella città di Palermo negli anni fra il 1959 e il 1963 (Documento n° 236). Da non dimenticare: quel giudice è Cesare Terranova che verrà dopo assassinato. Da non dimenticare: è proprio Angelo La Barbera a portare, negli anni 60, la mafia in Milano. Comunque l'interrogativo è questo: premesso che le autorità politiche sapevano, fin dagli anni 60, «vita, morte e miracoli» dei pluriomicidi La Barbera; premesso che negli anni 70 vengono a conoscenza che imprese edili, controllate dai due fratelli, cedono in contemporanea appartamenti a mafiosi e a uomini politici, e tutto, a tale riguardo resta fermo; e ciò 16 anni fa, nei quali questi uomini politici trovano anche il modo di divenire ministri della Repubblica Italiana; come meravigliarsi che oggi lo Stato sia sonoramente sconfitto dalla mafia? Oggi la sentenza del maxiprocesso ribadisce ciò che si sapeva, e cioè che l'espansione edilizia del centro di Palermo era controllata da due fratelli che nel gotha mafioso sono annoverati fra i più feroci e i più spietati. Da non dimenticare: è detto nella sentenza che i fratelli La Barbera potevano permettersi quello che facevano perché in comune avevano «amici». Infatti, nella ricordata sentenza di Cesare Terranova del 1964 è scritto dei legami fra i due mafiosi e il sindaco Lima, oggi deputato europeo. Non solo: Vito Ciancimino è assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Palermo dal 18 luglio 1959 al 12 luglio 1964. Che volete di più? Riflessione obbligatoria: sono i soldi della speculazione edilizia che daranno dopo la possibilità alla mafia di divenire la grande spacciatrice di droga a livello mondiale. È il passaggio alla mafia più feroce: quella che non si perita ad uccidere donne e bambini. Si è detto: Aristide Gunnella, Vito Ciancimino, il sacco edilizio di Palermo. Lo scempio urbanistico di Palermo (Oh! la dolce Palermo dell'anteguerra, le sue ville stile liberty, tutto distrutto!) è attribuito, per voce generale e riscontri giudiziari, a Salvo Lima e a Vito Ciancimino. Parliamo di quest'ultimo, vista la citata presenza del deputato repubblicano Gunnella. Pochi sanno, e quelli che sanno stanno zitti, che quando, negli anni '70, Vito Ciancimino venne eletto sindaco di Palermo e ne fu chiesta, in Regione, l'immediata destituzione, chi si alzò, «dalla cintola in su», a difendere il mafioso Ciancimino fu nientemeno che Ugo La Malfa, il santone della democrazia italiana. «Se fate dimettere Vito Ciancimino, io provoco la crisi del governo nazionale». È il testo del famoso telegramma che il grande moralizzatore repubblicano inviò, pubblicamente, agli amici in Sicilia, agli amici gunnelliani. Novembre 1970, 18 anni fa.

 

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Direte: ma come è possibile? Ci aiuta a capire sempre la sentenza del maxiprocesso di Palermo. I giudici hanno fatto i conti, e hanno scritto che, nella sola città di Palermo, la mafia controlla 180.000 voti. Da non dimenticare: il PRI al suo interno è, in gran parte, controllato da tessere raccolte in Sicilia da Gunnella. E Gunnella, per essere eletto deputato nel 1968, si peritò di assumere alla Sochimisi, di cui era amministratore delegato, il famoso mafioso, pluriomicida Giuseppe Di Cristina, assassinato nel 1978, con in tasca assegni per il valore di due miliardi. Traffico di droga. Bello, no? Era il grande elettore del nostro Aristide! Ha ragione Leonardo Sciascia: i canali putrescenti della partitocrazia fanno si che persone che a Roma sono considerate uomini di Stato e di governo, risultino poi, in Sicilia, per ragioni e interessi partitici, amici di mafiosi. La storia di Vito Ciancimino e di Ugo La Malfa è tutta da scrivere. Come quella di Lima e Andreotti, Fanfani e Gioia. Lima è divenuto deputato europeo battendo, nelle preferenze, Mario Scelba, già ministro e Presidente del Consiglio della Repubblica italiana. Fu chiesto a Scelba: perché? Questa la risposta: «io non possedevo, come Lima, oltre un miliardo di lire da buttare nelle elezioni. E ho perduto».

 

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Si è aperto il processo per la strage del 23 dicembre 1984 sul rapido 904 Napoli-Milano. L'informazione giornalistica e televisiva affermano che si tratta di un eccidio che vede la mafia, la camorra e l'eversione nera protagonisti. Bene, può essere, ma per capire, fino in fondo, come stanno le cose occorre possedere il coraggio di andare «oltre» nell'analisi; e cioè rendersi conto che le vicende di mafia chiamano prepotentemente in causa, attraverso fatti emblematici, personaggi insospettabili e che, non certo per responsabilità diretta, ma per collegamenti partitici, si sono resi strumento di crescita del fenomeno mafioso, radicandolo sempre più come elemento primario nella vita politica italiana. Ugo La Malfa, Fanfani, Andreotti, per fare alcuni esempi, sono personaggi di primo piano. Anche i «misteri» che avvolgono fatti di sangue esecrabili, come gli attentati ai treni, vanno visti, esaminati, capiti alla luce di una classe politica che, per reggersi, per mantenere il potere, ha legittimato la mafia. Fin dal 1945, quando si servi, prima del bandito Giuliano, e poi della mafia, quando a Giuliano (che sapeva) volle mettere il sasso in bocca. La mafia è elemento costituzionale della democrazia italiana. Tanto è vero che le tecniche su ricordate per eliminare personaggi scomodi al «sistema» furono adoperate anche nei riguardi di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generale, in Sicilia, rappresentava, non la normalità democratica, ma l'anormalità. Era elemento destabilizzante. La normalità è la mafia. E se c'è qualcuno che «questa» normalità minaccia viene eliminato. Le ultime parole del generale pronunciate nella famosa intervista a Giorgio Bocca, pochi giorni prima di essere massacrato insieme alla moglie: «si uccide l'uomo troppo potente, scomodo, e lo si uccide lasciandolo solo. Ed io, qui a Palermo, sono stato lasciato solo. Vede Bocca, non mi danno i mezzi che io avevo chiesto. Pazienza. Ma quello che è peggio è che mi tolgono il prestigio, la faccia. E la faccia qui in Sicilia è tutto ...». Non passa molto tempo. La mafia provvede a normalizzare la situazione assassinando Dalla Chiesa. Anche Roma. Mandando, al posto del generale, il questore Emanuele De Francesco, il questore del sequestro Moro, l'inefficiente (diciamo così) questore che, in quei giorni del rapimento, non vide, non sentì, non ascoltò nulla. In Sicilia: l'uomo giusto al posto giusto. Tanto è vero che il massacro continua. Avevo scritto che avrei parlato del «metanolo» e dell'inquinamento (che è simile ad una distruzione) del mare Adriatico come fatti di mafia. Sarà per un'altra volta. Chiedo scusa.

 

 

 

 

"Pagine libere", Anno VIII, n° 16, novembre 1988

 

Camere vuote e partiti padroni

Giuseppe Niccolai

 

Si fa un gran parlare dell'assenteismo dei deputati dai lavori parlamentari. Sono dei «mangiapane a ufo», direbbero in Toscana. La nomenklatura di vertice intende, non è la prima volta, ricorrere ai ripari, e per il momento, le minacce si sprecano. Si va dalla espulsione dalle liste alla decurtazione dell'indennità. In nome di Sua Maestà il partito che, ricordiamolo, ci ha messi tutti in fila, deputati o no.

 

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Dieci anni fa anche Ingrao e Fanfani, rispettivamente Presidenti della Camera e del Senato, proclamarono il loro: «è ora di finirla con l'aula vuota ...». Allora Sergio Cuminetti, un deputato fra i più presenti, si incaricò di rispondere, anche per gli assenteisti. «Non mi sento imputato», disse, «ma se mai un sottoimpiegato perché il Parlamento è una Impresa gestita male, il cui prodotto viene realizzato altrove. Ai parlamentari è lasciato il compito dell'imballaggio, e non tutti sono disposti ad assolvere questa funzione. Il problema perciò non è quello di fare "proclami", ma di individuare le cause reali dell'assenteismo e di porvi rimedio ...».

 

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Dopo questi messaggi di severità, verso i deputati e i senatori, di Ingrao e Fanfani, nulla di fatto. Le cause reali del fenomeno non si sono cercate, e l'assenteismo è delegato, e si torna allo sdegno, alla minaccia di buttare, anche a pedate nel sedere, i parlamentari in aula. Ma il cuore del problema dove risiede, la vera causa di ciò che accade quale è? Si torna sempre lì: Sua Maestà il partito, padrone di tutto, anche delle coscienze dei parlamentari, direi soprattutto.

 

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I partiti non sono più, almeno dagli anni '50, centri di vita associata, sono esclusivamente centri di potere mafioso. Se ci fate caso il cerimoniale partitico, nei comportamenti, nella scelta della propria classe dirigente, è tipicamente mafioso. Basta un dato: si è promossi, non perché si hanno qualità morali e professionali particolari, ma perché si è amici del clan che comanda, e il clan, spesso, gestisce il partito corrompendo il proprio corpo di militanti con i soprusi e le sopraffazioni che, tante volte, abbiamo visto denunciate: tessere fasulle, denaro, incarichi retribuiti, espulsione e peggio. Paradossalmente, davanti ad una sempre crescente diminuzione delle adesioni degli iscritti, si ha, da parte del partito, un sempre crescente aumento di potere. Diminuisce la fede, cresce il potere. Si veda il personale partitico: persone che non credono più in nulla, ma dipendono dal partito per lo stipendio che ricevono. Sempre più numerosi. Deputati di serie A, poi di serie B, poi di serie C (parlamento, regioni, comuni, province, USL banche, enti e via di seguito). Sono i cani da guardia del sistema, tenuti al guinzaglio dal 27 del mese o dalle varie indennità parlamentari, ministeriali, regionali, comunali, entocratiche.

 

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Ed è Sua Maestà il Partito che ha reso le Aule del Parlamento deserte, vuote. Perché? Perché le ha trasformate in una zona morta della vita italiana. L'affermazione del deputato Cuminetti: «siamo sottoimpiegati, il prodotto si fa altrove (nelle chiuse segreterie partitiche), a noi non resta che l'imballaggio del prodotto, è vero; e l'imballaggio, spesso, è simile a quello che ha riguardato la legge sul metanolo, il veleno che, immesso nel vino, ha ucciso ...»

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A proposito del metanolo. Il deputato Francesco Piro, incaricato di illustrare la legge sul metanolo (morti e discredito morale e materiale all'immagine dell'Italia che lavora all'estero, e su un prodotto caro alla nostra agricoltura: il vino), così si espresse nell'Aula di Montecitorio il 19.7.1984: «il relatore ha dovuto in breve tempo acquisire nozioni e cognizioni sulla materia, sulla cui validità non ritiene certo di poter impegnare il proprio fondato convincimento, né esortare i colleghi ad accettare per oro colato ciò che è stato esposto. Le convinzioni sulle quali lavora un parlamentare non consentono certo quelle che gli storici chiamano critica delle fonti». Sicché, non solo scaraventati in aula a ripetere ciò che il partito comanda, ma anche senza sapere ciò che dicono e affermano! Questo è il Parlamento italiano! E si raccolgono morti e danni. Di ogni genere.

 

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«Ha riflettuto sul livello delle persone che compongono la Camera dei Deputati? Sì? Allora si sarà accorto che sono tutti imbecilli».

(Massimo Severo Giannini, ex-membro dell'Assemblea Costituente, ex-ministro, insigne giurista, da «la Stampa», 23.10.88).

 

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Non basta. Claudio Martelli, in replica a Pannella che accusa il PSI di avere aperto la campagna acquisti dei deputati che intendono lasciare il PSDI e confluire nel partito di Craxi: «Se Pannella iscrive al partito radicale camorristi e delinquenti e porta in Parlamento terroristi (Negri), ex-generali, e puttane (Cicciolina), siamo nella norma, mi pare giusto ...». Questo, il Parlamento. Se lo dicono loro, perché contraddirli?

 

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Storici e studiosi, a 50 anni dalla promulgazione delle leggi razziali si sono riuniti in Roma nell'auletta dei Gruppi Parlamentari, per rievocare l'avvenimento. Scrive il Giornale (18.10. 88) che la presenza del senatore Giovanni Spadolini, Capo supplente in assenza di Cossiga, ha dato all'incontro un'impronta di autorevolezza e serietà. Ne prendiamo atto.

 

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«Un giovane studente, mi diceva, subito dopo la morte di Giovanni Gentile: "egli poteva essere un uomo di genio e di cuore, ma s'è meritata la sorte riservatagli dai patrioti perché aveva tradito l'Italia". Strano e paradossale davvero, il concetto che tanti hanno del traditore d'Italia; secondo il quale, alla fine, traditore diventa colui che, al pari del glorioso scomparso di oggi, agisce ed opera politicamente sul terreno della realtà, della logica e della facoltà italiana, colui che rispetta i patti, che riscatta l'onore, che rivendica la tradizione, che difende la civiltà classica e cattolica, al di fuori e al di sopra di pregiudiziali di partito, colui che soffre e combatte e s'impegna perché all'Italia spregiata e umiliata, avvilita e smembrata e quasi inerme, siano restituiti dignità di Nazione, prestigio di popolo, coscienza di Stato, unità di spirito, volontà di potenza, stimolo di grandezza, desiderio ardentissimo di salire, di allargare il proprio respiro, di nobilitare la propria esistenza: e "vero patriota" chi invece si adopera, in un modo o nell'altro, che l'Italia sia quella terra di straccioni e di pezzenti, di servi e lacchè, di albergatori e di mezzadri, che corrisponde ai desideri della parte più spregevole e degenerata della nostra razza».

(Giovanni Spadolini, "Italia e Civiltà", Firenze aprile 1944)

 

 

 

"Pagine libere", Anno VIII, n° 17, dicembre 1988

 

L'Italia del malaffare

Giuseppe Niccolai

 

Sulla polemica fra Comunione e Liberazione con esponenti del fu Partito d'Azione, in relazione ai bombardamenti alleati del 1943, richiesti per accelerare la resa dell'Italia, questa testimonianza di Giulio Andreotti: «Ma -ed è forse, ora che è finita in Europa la guerra, giunto il momento di veder chiaro in questo- è vero o meno che, proprio uomini del Partito d'Azione furono quelli che chiesero durante il 1943 agli Alleati l'intensificazione dei bombardamenti delle Città italiane per affrettare gli sviluppi della situazione? E che nei 45 giorni di Badoglio, tramite la Svizzera, fecero reiteratamente sapere a Londra di non fidarsi delle profferte di armistizio del Governo Badoglio, facilitando così l'avvento di giorni disastrosi? Io mi auguro che vero non sia, ché altrimenti questo partito sarebbe il meno qualificato a levar gli scudi contro le Nazioni Alleate ...»

(G. Andreotti - Tipografia del Senato, Luglio 1945, titolo: "Concerto a sei voci").

Sarebbe interessante oggi, a più di 40 anni da quegli avvenimenti, chiedere qualcosa di più, sull'argomento, a Giulio Andreotti. Io sono certo di una cosa: smentirebbe.

 

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Il disastro di Ustica richiama quello di "Argo16", un aereo dell'Aeronautica militare precipitato a Venezia nel novembre 1973, con a bordo due colonnelli e due sottufficiali. La Commissione incaricata di stabilirne le cause, dinanzi alla perentoria richiesta che veniva anche dal Parlamento, onde sapere la dinamica dell'accaduto, così sentenziò: cause imprecisate, ma si esclude tassativamente il sabotaggio. Perché si parlava di sabotaggio? Perché il caso voleva che quell'aereo avesse riportato, in terra amica, alcuni terroristi arabi che erano stati sorpresi a Fiumicino a preparare un attentato ad un aereo di linea israeliano, di poi condannati dalla Magistratura italiana. Aldo Moro, ministro degli Esteri, caldeggiò quella soluzione, cioè la liberazione dei terroristi, misura che poi rivendicherà per sé al momento del suo sequestro, il cosiddetto scambio fra lui e alcuni terroristi. Lo avete fatto per gli arabi, perché non farlo per me? Fu la sua invocazione.

 

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Ora la Magistratura veneta, su un esposto presentato da chi scrive, ha accertato che quell'aereo è caduto per atto di sabotaggio, in quanto a vendicarsi sarebbero stati i Servizi di Israele. Se si riflette bene, il crimine di Venezia è più grave di quello di Ustica; perché le Autorità di vertice, hanno saputo «tutto» fin dall'inizio, e si sono date da fare, in testa i Servizi Segreti, perché la verità non venisse fuori. Ci fanno fuori quattro Soldati, e tutti zitti. Questo non è vassallaggio internazionale. È qualcosa di peggio. È pura criminalità. E se si fa caso che a commettere il crimine sono degli uomini in divisa ... ci viene il capogiro, il voltastomaco ...

 

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Le FF.AA. -che in questo quarantennio, ai loro vertici, altro non hanno fatto che coprire il Potere, spesso anche quando commetteva atti ignobili- ora, dinanzi al disastro di Ustica, hanno avuto un gesto di ribellione verso i politici: «non siamo stati noi!». «L'aereo è stato abbattuto da un corpo estraneo spedito dallo straniero». Prendiamo per buona questa affermazione, ma per "Argo16" come la mettiamo? Qui si sapeva e si è fatto di tutto per coprire le prove. Dunque: l'Italia, internazionalmente, è nella condizione di ricevere ordini dallo straniero per depistare le indagini. Anche quando ad essere massacrati sono suoi figli in divisa! Morale: può dirsi libero un Paese quando accadono fatti simili? Può esservi libertà senza indipendenza nazionale? La questione nazionale, al di là di tutto, sta in questi precisi termini: in che modo un paese come il nostro, che si trova al centro di sporche guerre interne ed esterne, difende da esse, «sporche guerre», il suo territorio e la vita dei suoi cittadini? Lo straniero gode, dunque, di una protezione internazionale che equivale a «licenza di uccidere»?

 

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Pubblicano? Non pubblicano? Sì, no? Si tratta delle famose schede antimafia. Ora, pare, che non se faccia di nulla. Quelle schede, con relativi documenti, resteranno segrete. C'è forse qualcuno che la pensava diversamente? Pongo due interrogativi: come fa il senatore Vitalone, Vice Presidente della Commissione, a volere la pubblicazione degli atti «segreti» se, in quegli atti, c'è la vicenda di suo fratello Wilfredo, non certo esemplare? Come fa il comunista Gerardo Chiaromonte, Presidente della Commissione, a volere la pubblicazione quando essa comporterebbe la dimostrazione che uomini del PCI erano ai vertici delle Banche di Michele Sindona, il bancarottiere, l'amico di Licio Gelli?

 

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Una annotazione di ... alleggerimento. Sono in carcere, per reati vari, Maneguerra Giuseppe, assessore al Comune di Trapani e suo figlio Luigi. Nell'ora del passeggio, l'assessore si intrattiene con i detenuti ed ha il figlio accanto, con taccuino ... «Scrivi, scrivi Luigi il nome di questo amico, ha bisogno di una licenza di commercio. Penso io. Prendi bene i dati ...». «Guarda, Luigi, quest'altro ha bisogno di un alloggio popolare ... Prendi nota. Appena esco sistemo tutto io!». Questo nel carcere di Trapani, in questa Italia 1988.

 

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Fascicolo 13772/A: falsità in atti pubblici e interesse privato in atti di ufficio.

Fascicolo 7578/70: interesse privato in atti di ufficio, peculato continuato.

Fascicolo 10047/68: interesse privato in atti di ufficio.

Fascicolo 965/71/A: tentato peculato aggravato.

Sono i fascicoli processuali riguardanti l'eurodeputato DC Salvo Lima, andreottiano di ferro. Che fine hanno fatto quei fascicoli? Mistero. Quello che si sa, è che Salvo Lima sarà, di nuovo, candidato DC alle prossime elezioni europee. Insieme alla «candida» Elsa Pucci. Questa è la vera DC. Lima e la Pucci. Prendere i voti dei mafiosi e degli onesti. Mai la DC è tanto unitaria (nel malaffare) quando sembra divisa. È un porcile. E ci dispiace per la pediatra, moralizzatrice, già Sindaco di Palermo Elsa Pucci. Non può pretendere, stando in un porcile, di fare pulizia. Coopera, in fondo, ad estendere quel porcile.

 

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«I Capataz di questo partito (DC) dovrebbero essere arrestati in massa per porto abusivo di faccia sospetta». (Indro Montanelli). E quest'altra: «Tutto il resto è aria fritta. E se non ci decidiamo a seppellire il cadavere di questo sistema democristiano arcifallito, diventerà aria appestata». È sempre Indro Montanelli. Scritto il 4.12.1982.