Rosso e Nero
(prima serie)

Rubrica curata da Beppe Niccolai sulle pagine del "Secolo d'Italia"
organo del
Movimento Sociale - Destra Nazionale

 

 

Aprile 1982

 

2 aprile 1982

8 aprile 1982 13 aprile 1982
15 aprile 1982 18 aprile 1982 21 aprile 1982
23 aprile 1982 28 aprile 1982 30 aprile 1982

 

2 aprile 1982

 

"l'Unità" (22.3.1982), in replica agli attacchi che le sono piovuti addosso per il caso Cirillo, se la prende soprattutto con il vignettista Forattini che su "la Repubblica" trasforma "l'Unità" in un rotolo di carta igienica. E scrive: «Eppure se quel vignettista di "Repubblica" seguisse con attenzione un procedimento giudiziario dedicato ai Proletari armati per il comunismo siamo certi che potrebbe trovare spunti, nel capitolo che si riferisce al delitto Torregiani (il gioielliere che venne assassinato a Milano il 16.2.1979 da un commando di terroristi) che riguardano il giornale di cui fa parte».

Fin qui "l'Unità". L'accusa è pesante. Dunque il giornale "la Repubblica" «dentro» una squallida vicenda di sangue e terrorismo? Dopo l'avvilente vicenda dei finanziamenti facili dalle banche di Stato, anche il terrorismo? L'intransigente perbenismo (repubblicano, democratico, antifascista, resistenziale) di Eugenio Scalfari porta con sé simili macchie?

Per saperne di più abbiamo attentamente sfogliato "la Repubblica", riga per riga, nella certezza che il foglio della purezza ideale, politica e morale avrebbe, in qualche modo, raccontato ai propri lettori come stavano le cose. Ma, ahimé, per il momento, nulla. Silenzio. Nemmeno una riga di smentita. Che dobbiamo pensare?

 

* * *

Scrive Fortebraccio ("l’Unità", 23.3.1982): «Da parte nostra c'è stato soltanto un errore di leggerezza. Non è stato mai possibile cogliere per quasi quaranta anni questo nostro giornale e il PCI in fallo».

«A leggere la prosa di Fortebraccio non si sa più se sorridere o compiangere. Forse è utile chiedersi come mai, con tanti direttori, condirettori e vicedirettori (tre per l'esattezza) con il nome scritto in grosso, "l'Unità" abbia bisogno di un quarto direttore, finalmente responsabile, con il nome piccolo così, che cambia ogni tre o quattro mesi. Che sia per evitare che i rischi penali connessi alla qualifica si sommino su una sola persona (mai, comunque, di primo piano) e per garantirci che a volare siano, ancora una volta, soltanto gli stracci?». ("Avvenire", 24.3.1982)

«O forse l'autoesaltazione di cui Fortebraccio è enfatico esempio proviene diritta dalla lettura di quel gruppo di quattordici poesie di Bertold Brecht, traduzione di Rossana Rossanda che, su "Rinascita" del gennaio 1960, diretta allora da Palmiro Togliatti, venivano presentate come «un contributo tra i più alti alla costruzione di un'etica comunista»? Dice Brecht in una di quelle poesie: "Chi combatte per il comunismo deve saper combattere e non combattere, dire la verità e non dirla, rendere un servizio e rifiutarlo, tenere una promessa e non tenerla, esporsi al pericolo ed evitarlo, farsi riconoscere e nascondersi, chi combatte per il comunismo di tutte le virtù ne ha una sola: quella di combattere per il comunismo"». ("Avvenire", 24.3.1982).

Povero Fortebraccio, come sei ridotto! Alberto Ronchey, giustamente, osserva che, da un pezzo a questa parte, l'ex-democristiano Mario Melloni, alias Fortebraccio, si dimostra depresso, irascibile, tanto che nei suoi scritti c'è dileggio e non più satira.

Che gli sta accadendo? E perché?

Forse perché Enrico Berlinguer, solennemente, ha affermato che nessun operaio italiano se la sentirebbe di vivere nelle condizioni in cui sono costretti a vivere i lavoratori sovietici?

Fortebraccio da 14 ani (12.12.1967) scrive su "l'Unità". E da 14 anni si batte, con vigore, per assicurare ai suoi lettori l'esatto contrario di quello che oggi dice Berlinguer.

Così stando le cose ha ragione di essere inquieto. Nelle sue condizioni è penoso continuare a scrivere su "l'Unità". Si rischia la faccia. E la faccia -occorre riconoscerlo- Fortebraccio ce l'ha.

Nel 1955 Mario Melloni (Fortebraccio) venne espulso dalla DC da Amintore Fanfani, l'uomo, ha scritto Fortebraccio, che «mandandomi via dalla DC ha fatto di me un comunista».

Che il 1982 veda Mario Melloni andarsene, di sua spontanea volontà, dal PCI di Berlinguer per restare quel cattolico-comunista predicato da Franco Rodano?

È l'unica via che gli resta. Per salvare la faccia.

Restare è la fine. Morale prima che politica.

 

*   *   *

8 aprile 1982

 

Non ci si crederebbe, ma è così. In data 5.4.1976 viene tratto in arresto, su mandato di cattura del dott. Vito Zincani, giudice istruttore del Tribunale di Bologna, tale Roberto Pratesi, nativo (18.2.1953) di Arezzo «per detenzione di armi e di esplosivo».

Il giudice sa che, arrestando il Roberto Pratesi di Arezzo, si commette il falso più clamoroso perché il «vero» Pratesi Roberto non è nativo di Arezzo ma di Tizzana (29.12.1949) in provincia di Pistoia, risiede a Buríano di Quarrata, ed è ristretto presso le carceri gíudiziarie di Pistoia «per detenzione illegale di armi e di esplosivo». È di sinistra, non di destra.

Si vuole dire, e sottolineare, che il dott. Vito Zincani, giudice della Repubblica italiana, facente parte della non mai tanto chiacchierata Procura di Bologna, coscientemente si serve di circostanze delittuose che riguardano altra persona per mettere prima in galera e poi chiederne il rinvio a giudizio, un cittadino innocente, e per un reato, si intenda bene, che può comportare anche l'ergastolo.

Non basta. Nel maggio del 1981, il dott. Pier Luigi Leoni, sostituto procuratore presso la Corte d'Assise di Appello di Bologna rincara la dose. Infatti, in una sua memoria, scrive che «la capacità a delinquere del Pratesi poteva dimostrarsi dalla perquisizione domiciliare disposta dal Procuratore della Repubblica di Pistoia il 17.4.1975, per cui il Pratesi veniva trovato in possesso di armi e di esplosivo» il che è completamente falso, in quanto, come si è detto, è ad altro Pratesi che la perquisizione si riferisce. Che, dunque, anche il dott. Leoni, come lo Zincani, giudici di Bologna, si avvale di circostanze e inchieste riguardanti altra persona per tenere recluso nelle carceri (e che carceri!) della ... libera Repubblica italiana il Pratesi Roberto di Arezzo, cittadino innocente, e per accuse che possono anche comportare l'ergastolo.

Cosa avreste fatto voi nei panni del Pratesi, che resta in carcere per tre anni filati, per vedersi poi riconoscere innocente, e con la formula più ampia, dalla Corte di Assise di Bologna?

Assistito dall'avv. Oreste Ghinelli di Arezzo, il Pratesi presenta, contro i giudici Zincani e Leoni, denuncia per reato di falso ideologico in atto pubblico, abuso di atti di ufficio, interesse privato in atti di ufficio, calunnia.

È il minimo che possa chiedersi ad un cittadino che sconta, innocente, tre anni di galera (e che galera!) e tutto perché quei giudici (di sinistra) dovevano infierire a destra.

Ebbene il dott. Fleury Francesco, magistrato del Tribunale di Firenze, nella sua requisitoria per il procedimento intentato dal Pratesi contro lo Zincani e il Leoni, scrive che, in fin dei conti, si è trattato di «mero errore, privo di conseguenze», un «piccolo incidente procedurale».

Tre anni di galera, innocente. Piccolo incidente procedurale, privo di conseguenze.

Ditemi un po': è questa la giustizia antifascista?

È questo lo Stato garantista uscito dalla resistenza?

 

* * *

Dai giornali: 18.3.1982, «Retata anti-Brigate rosse a Pescara, Quattro arresti. In carcere il fratello di un noto magistrato» Si tratta di Renato Zincani, fratello di Vito Zincani, giudice (comunista) di Bologna.

 

* * *

La Repubblica italiana, ha vissuto, in questi giorni, anche l'aspra polemica sulla tortura.

Terroristi (di sinistra), assassini dichiarati anche se pentiti, hanno accusato polizia, carabinieri e guardie carcerarie di «torture» e «sevizie». Stampa e Parlamento sono insorti. Sia detta la verità, sia resa giustizia. Nello spazio di pochi giorni il ministro dell'Interno ha dovuto recarsi in Parlamento per rendere conto delle accuse, per ben due volte.

Già, ma quando a subire maltrattamenti erano ragazzi di destra, risultati al dibattimento innocenti, il silenzio dei «democratici» era d'obbligo.

Racconto una vicenda esemplare e che ha il pregio della verità perché è passata al vaglio di Tribunali e Corti d'Assise, per di più di Bologna.

Questi i fatti.

Il 4 giugno 1974 (otto anni fa) viene tratto in arresto, su mandato di cattura dei giudice istruttore di Bologna, il giovane Massimo Batani di Arezzo.

Il suo stato di detenzione dura quattro anni filati e precisamente fino al 3.5.1978, giorno in cui la Corte d'Assise di Bologna lo manda assolto con formula piena.

Quattro lunghi anni dentro, per farsi dire: sei innocente, torna a casa.

Durante l'ingiusta detenzione, il giovane Batani tenta di evadere dal carcere di Bologna. Preso, viene trasferito nel carcere giudiziario di Modena.

È l'11.6.1977. Sono le 23. Il Batani viene selvaggiamente aggredito da agenti di custodia. L'avvocato difensore, avv. Ghinelli, può vedere il ragazzo solo una settimana dopo, date le sue penose condizioni.

Si viene a sapere che le guardie di custodia gli avevano fatto firmare (su ordine di chi?), sotto la costrizione dei testicoli, una confessione in cui dichiarava che «la fuga era stata organizzata da "Ordine Nero"».

Le violenze vengono denunciate e così pure i quotidiani "La Nazione" e "Il Resto del Carlino" che avevano affermato che il Batani, interrogato dal magistrato, aveva confessato che l'evasione era avvenuta grazie ad "Ordine Nero".

Il processo contro i quotidiani si conclude con l'esborso, da parte degli stessi, di sei milioni per danni morali; quello contro le guardie carcerarie di Modena con la esemplare condanna alla reclusione e alla interdizione dai pubblici uffici delle stesse, compresa una provvisionale di due milioni immediatamente esecutiva.

Questi fatti accadevano nel 1977. A subirli ragazzi di destra.

E la stampa? E il Parlamento? Nulla. Silenzio. Acqua in bocca. Si ricorderanno della tortura solo quando autentici assassini di sinistra si metteranno a strillare. Questa è la giustizia nella Repubblica democratica, antifascista, resistenziale.

Non è finita. A dare la notizia (falsa) ai due quotidiani, condannati poi all'esborso per danni morali, è il dott. Luigi Persico, pubblico ministero nel processo in corso per l'Italicus a Bologna, comunista.

La giustizia è in buone mani.

 

*   *   *

13 aprile 1982

 

Le dure contrapposizioni sul giallo Cirillo, sul barbaro assassinio di Semerari, e sui soldi pagati per il riscatto (un miliardo e quattrocentocinquanta milioni), ruotano intorno alla massima (da tutti tradita): con i terroristi non si tratta.

Da tutti tradita, in primo luogo dal Parlamento. Infatti il Senato e la Camera dei Deputati (che se ne palleggiano il testo emendato) si sono ampiamente occupati, senza pudore e alla piena luce del sole, di stendere un disegno di legge, quello sui «pentiti» che, prima di ogni altra cosa, è una vera e propria trattativa con il partito armato, con il terrorismo, a sua volta alleato con la camorra.

La stessa vicenda Cirillo, dinanzi a ciò che il Parlamento (e il Governo) intendono fare per i «pentiti», assume un aspetto secondario.

«Un misfatto giuridico, un attentato alla Costituzione della Repubblica», scrive Leonardo Sciascia.

«Stando nel cosiddetto "transatlantico", mentre in aula si votava, da deputati che andavano e venivano dall'aula, sentivo commentare la legge con repugnanza, con disgusto, con disprezzo. Altro che non trattare "con uomini che hanno le mani macchiate di sangue" si è trattato, si sta trattando, si continuerà a trattare». (Leonardo Sciascia, "La Gazzetta del Meridione", 7.3.1982)

«... Si dirà che si tratta con i singoli brigatisti e non con le Brigate rosse: ma il numero dei brigatisti che ormai trattano è tale, e tale la qualità di micidiali esecutori, che la distinzione diventa solo formale. Non solo, ma i brigatisti non trattano in nome del pentimento, della coscienza che insorge, del rimorso che si insinua: trattano in nome del «progetto rivoluzionario» fallito perché immaturo. Trattano un armistizio. Non la pace, né con il governo, né con i compagni, e tanto meno con sé stessi. Nulla di più improprio che chiamarli pentiti». (Leonardo Sciascia, "La Gazzetta del Meridione", 7.3.1982)

«... Tutti si pentono un minuto dopo che sono stati presi dalla polizia: lo scippatore, il rapinatore, l'omicida. Solo che al brigatista pentito viene concesso il perdono e non così agli altri che delinquono in piccolo o grande cabotaggio: nemmeno se assicurano alla giustizia i loro complici». (Leonardo Sciascia, "La Gazzetta del Meridione", 7.3.1982)

«... Se un qualsiasi cittadino, incautamente, si è trovato a dare ospitalità a un brigatista, senza avere nulla a che fare con l'organizzazione, non avendo informazione alcuna da dare alla polizia e ai giudici, avrà intera la pena che spetta ad un favoreggiatore; mentre il brigatista, suo ospite, se soltanto fa il nome di colui che l'ha ospitato, si vedrà ridotta la pena, al punto che potranno incontrarsi, in uscita, sulla soglia del proprio carcere, avendo scontato eguale pena: il cittadino incauto, il brigatista assassino». (Leonardo Sciascia, "La Gazzetta del Meridione", 7.3.1982)

Fin qui Sciascia. Ora se le cose che afferma lo scrittore siciliano sono vere (e sono vere), è evidente che il caso Cirillo deve essere visto e analizzato con visuale diversa da quella che gli organi di informazione vorrebbero imporre.

Quando l'intero Parlamento (eccetto missini e radicali) si è accinto a creare mostruosità giuridiche simili a favore di pluriomicidi confessi, significa che siamo oltre le stesse mostruosità che zampillano fuori dal giallo Cirillo. E che tutto quello che accade altro non è che la conseguenza di quello che si fa nella ignobile Roma politica. Il marcio è lì. Terrorismo, mafia, camorra non sono fatti estranei al Palazzo. È il Palazzo che li genera e li alimenta. E finché non si rigenera il Palazzo, la mafia, la camorra, il terrorismo continueranno a vivere e a prosperare.

E trovo alquanto strano, anzi stranissimo, che la DC stia facendo il chiasso che fa a proposito dei casi di Napoli, quando la stessa DC, non più tardi di qualche mese fa (settembre 1981) incassò, in silenzio, un'accusa molto più grave di quella indirizzata a Scotti e Patriarca. Cioè di essere lei, come organizzazione, a ospitare nel suo seno i responsabili delle coperture politiche a coloro che sono dediti allo smercio della droga. E l'accusa, mesi fa, partiva nientemeno che da Enrico Berlinguer in persona, ribadita e rafforzata dal fratello Giovanni, responsabile per il PCI del settore Sanità.

«A chi si riferiva il segretario del PCI quando parlava dei legami tra gli spacciatori e ambienti della vita pubblica italiana?», fu chiesto a Giovanni Berlinguer ("la Repubblica", 26.9.1981).

Risposta: «Sono uomini della DC».

«Quali? Dove?».

«C'è un mercato siciliano che rifornisce gli USA e una direttrice Trieste-Verona che raggiunge l'Europa centrale: lì vanno cercati».

« nomi?».

«Ruffini, ad esempio ...».

Fermiamoci qui, per il momento. Torneremo sull'argomento a tempo debito. Ora ci preme sottolineare che, esattamente sei mesi fa, non gli ultimi venuti, ma i fratelli Berlinguer, in perfetta sintonia, accusavano l'on. Ruffini Attilio, già ministro della Difesa della Repubblica Italiana, di «coprire» i responsabili del traffico della droga nella direttrice Sicilia-Stati Uniti d'America.

Nessuna reazione a questa terribile accusa è stata registrata.

Né da parte di Piccoli, né da parte di Ruffini... Anzi.

Anzi, l'ex ministro Ruffini si è recato, con una delegazione democristiana, in Salvador, ad assistere alle elezioni. E si è reso protagonista, insieme all'altro suo collega (chiacchierato) Lattanzio, del rifiuto di firmare una dichiarazione della DC internazionale, di condanna per la guerriglia, finanziata e protetta da Mosca e da Cuba.

Perché?

Ma è semplice: se l'avesse firmata avrebbe avuto addosso, ancora una volta, il PCI, e con quella accusa: è amico dei trafficanti di droga. Ora spera di averla fatta franca. È quello che vedremo. Il PCI è maestro. Per carità: non nel combattere gli scandali. Nel ricattare coloro che nello scandalo sono precipitati. Perfino Gava, a Napoli, è diventato fautore dell'accordo con il PCI. E la melma sale. Ogni giorno.

 

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15 aprile 1982

 

Giace, da tempo immemorabile, presso la Commissione Inquirente per i procedimenti di accusa contro i ministri, un processo a carico dell'ex-ministro dei Lavori Pubblici Salvatore Lauricella, presidente oggi dell'Assemblea regionale siciliana.

Si tratta della vicenda riguardante dipendenti pubblici che, comandati in gran parte presso la segreteria particolare del ministro, erano stati inviati, immediatamente prima di passare le consegne al suo successore Ferrari Aggradi, presso gli uffici decentrati della Sicilia, onde essere utilizzati nel suo collegio elettorale, in previsione delle elezioni politiche del 7 maggio 1972.

I fatti che venivano a configurare, attraverso atti simulati come atti di ufficio, il reato di interesse privato in atti di ufficio (articolo 324 CP: punisce l'interesse privato in atti di ufficio con la reclusione da sei mesi a 5 anni), risultano, dagli atti espletati dalla stessa Commissione Inquirente, ampiamente provati, ma non se ne è fatto di nulla e non se ne farà di nulla.

La Commissione Inquirente, per essere precisi, ricevette il processo dalla Procura della Repubblica di Roma il 24.10.1972. Dopo avere incaricato l'onorevole Alfredo Pazzaglia di relazionare e avendo il deputato missino ottemperato all'incarico ricevuto con una relazione che provava i fatti, la Commissione si è addormentata. E sulla pratica Lauricella, come su un comodo materasso, donne da 10 anni.

Commissione Inquirente. Agli atti della Commissione un'altra pratica è in ...sofferenza. Si tratta di una intercettazione telefonica ordinata dalla magistratura sui telefoni del petroliere Bruno Musselli, latitante, le cui vicende si intrecciano con quelle del generale della Finanza Giudice Raffaele, a giudizio ora davanti al Tribunale di Milano.

La telefonata intercettata riguarda indirettamente il deputato Alessandro Reggiani, socialdemocratico, presidente appunto della Commissione Inquirente.

In quella telefonata il Musselli, di cui Reggiani è stato avvocato difensore, dice al suo interlocutore che per quanto riguarda Reggiani si può stare sicuri perché «l'abbiamo in pugno».

Ora se il presidente dell'Inquirente è tenuto in pugno da Musselli (e soci), come fa a continuare a svolgere, con obiettività, serenità e severità, i compiti di quell'Inquirente (non mai tanto sputtanata) che, fra l'altro, sarà chiamata a giudicare i ministri (Andreotti e Tanassi), i quali promossero il generale Raffaele Giudice a capo della Guardia di Finanza, quel «generale», appunto, che dava mano libera a Bruno Musselli nei suoi traffici illeciti?

Non si tratta di roba da poco. Il processo vede sul banco degli imputati generali, colonnelli, ufficiali, legali, petrolieri. Per associazione a delinquere, contrabbando, concussione, falso in atto pubblico.

«Sullo sfondo di tutta questa torbida vicenda -scrive "la Repubblica", 20.3.1982- compaiono anche magistrati (per due di Monza sono partite le comunicazioni giudiziarie), ufficiali dei servizi segreti (Maletti, La Bruna, Henke, Viezzer, Viglione) ascoltati con riferimento all'attività di Giudice nell'esercito; pubblicisti e giornalisti ai quali la famiglia Giudice avrebbe dato l'incarico di indagare sui magistrati torinesi che si occupano dello scandalo dei petroli. Sono stati fatti i nomi di Gianni Carbone, attualmente amministratore di "Paese Sera" e di Vanni Nisticò, ex-capo ufficio stampa del PSI».

Come fa Reggiani a restare presidente dell'Inquirente? Già è uno scandalo che non abbia ancora sentito l'elementare dovere di dimettersi. E non è certo di buon gusto che lui, presidente dell'Inquirente, si sia buttato sul proscenio della Camera a difendere Andreotti, Tanassi e Rumor per il caso Giannettini; con una esibizione in cui tutti hanno potuto constatare la piaggeria, come per dire: «ora io mi comporto così, ma quando verrà il mio turno ricordatevi di me».

Io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Siamo a questa filosofia.

Onorevole Reggiani, si dimetta. Prima che sia troppo tardi.

Anche perché altre avvisaglie incombono. Infatti Giorgio Galli, nel n° 830 dì "Panorama" (15.3.1982), riporta la lettera di un cittadino di Treviso il quale, dopo avere ricordato come l'onorevole Alessandro Reggiani, presidente dell'Inquirente, sia stato avvocato difensore del petroliere (latitante) Bruno Musselli, informa che un'area del Comune di Treviso, dichiarata area verde e di proprietà del Reggiani, sia stata trasformata in edificabile. Non finisce qui. Parte dell'area sempre per il cittadino di Treviso, sarebbe stata acquistata dalla Società Sile Assicurazioni di cui Alessandro Reggiani era presidente, per costruirvi la sede.

Galli precisa che, come pubblicava l'informazione, era dispostissimo a dare spazio a tutte le precisazioni che, sulla vicenda, gli «interessati» intendessero dare.

È passato un mese. Nessuna precisazione è giunta (finora) da parte dell'onorevole Reggiani, presidente dell'Inquirente.

Incassa. Come un buon pugile.

 

*   *   *

18 aprile 1982

 

A Napoli: i morti, in media, due al giorno. Dall'inizio dell'anno se ne contano già 104 ma mentre scriviamo già potrebbero essere aumentati. Alla stessa data, nel 1981, si era a quota 51. Siamo al raddoppio.

E il "Corriere della Sera", ormai supplemento sbiadito de "l'Unità" e del "Popolo", scrive che tutto accade in odio a Gava (DC) e a Valenzi (PCI) che, volendo riscattare Napoli, hanno addosso la camorra.

 

* * *

Antonio Gava, junior: il padrino. Il personaggio è sotto attenzione da anni. Come del resto il padre: da sempre. La stampa nazionale, calata più volte a Napoli per indagare sui misteri del clan gavianeo, gli attribuisce disinvoltamente i titoli di «padrino», «padrone», «capoclan» o, come il commentatore inglese di costumi italiani Percy Alluni, «capo-gang».

Nel 1978 sono i comunisti a mettere il veto alla sua chiamata al governo di coalizione presieduto da Giulio Andreotti.

Poi i giochi cambiano. Don Antonio «fetenzia» si adegua alla nuova situazione. Da doroteo si fa portatore del linguaggio della solidarietà nazionale con il PCI. Ed anche i comunisti, come per Lima in Sicilia, si adeguano al nuovo ...corso.

In fin dei conti Antonio Gava non è poi tanto una «fetenzia». È vero: è divenuto padrone di Napoli, servendosi delle banche, degli istituti finanziari, degli enti di sviluppo, dei consorzi industriali, dei consigli di amministrazione, tutti dominati attraverso suoi uomini, ma come si fa, dicono i comunisti, a fare politica a Napoli senza sporcarsi le mani? È una necessità.

Ed ecco che Antonio Gava (con le mani sporche) comincia a piacere al PCI.

Ora l'accordo Gava-PCI è diventato il piatto forte del "Corriere della Sera". Dimentico di avere, nell'ottobre 1973 (colera a Napoli), mobilitato Leonardo Vergani per illustrare la vita definita scandalosa del «padrino» di Napoli, oggi il "Corriere", per la penna del comunista Alfredo Pieroni, denuncia il tentativo sanguinoso della camorra per bloccare la collaborazione dei democristiani di Antonio Gava con i comunisti, e tutto questo perché (udite! udite!) «imporrebbero una amministrazione pulita». ("Corriere della Sera", 2 aprile 1982)

«Certamente a Napoli -scrive Pieroní- quando Gava apparve alla TV col comunista Bufalini in un incontro tutt'altro che ostile, qualcuno si impensierì. Chi si impensierì? È possibile che, come pensano i comunisti, il documento Cirillo-Unità fosse redatto per suscitare una brusca contrapposizione tra comunisti e democristiani del Comune e della Città per far cadere la Giunta Valenzi, per dare mano libera, mentre si inizia la costruzione dei 20.000 alloggi dopo i guasti del terremoto, spesa complessiva 1.600 miliardi, alla speculazione selvaggia vecchia maniera, come scrive "Paese Sera"». ("Corriere della Sera", 2 aprile 1982)

«In vista del congresso -prosegue Pieroni- si fa strada nella DC napoletana il gruppo che intende sostenere Ciriaco De Mita, favorevole al dialogo con il PCI, come candidato alla segreteria. Gava sembra incline a questa decisione. Scotti ne sarebbe mallevadore. Il senatore Patriarca non sarebbe contrario. Sono stati colpiti per questo? Ci assicurano che un mese fa alcuni dirigenti della DC napoletana si riunirono per discutere della preparazione del congresso democristiano. Ad un certo punto un compagno di scuola di Antonio Gava lo avvertì che era stato avvistato, sulla piazza antistante, il capo della colonna napoletana delle BR, Acanfora. Furono avvertiti i carabinieri e Gava uscì scortato per un'altra uscita. I suoi amici sono convinti che le BR gli volessero riservare la sorte di Moro e Mattarella. Per le stesse ragioni?». ("Corriere della Sera", 2 aprile 1982)

Dunque camorra e BR a Napoli impegnate per impedire che Gava e PCI, punti di forza per il rinnovamento ...morale della Città, si uniscano per sconfiggere il male! Dio mio, anche questa dovevamo vedere.

Quello che fu il più grande quotidiano di informazione italiano innalzare a bandiera i Gava, una famiglia che a Napoli gode di una potenza (e di una prepotenza) simile a quella dei Borboni, e il cui sistema di potere è stato sempre ritenuto responsabile della degradazione (camorra compresa) in cui la Città è caduta!

E il PCI a tenergli bordone.

Ma su quale terreno è avvenuto a Napoli l'accordo Gava-PCI? O meglio fra Andrea Geremicca (PCI) e Salvatore Russo (gavianeo)? I 20.000 alloggi da costruire. Ebbene, tutte le scelte urbanistiche, relative alla costruzione degli alloggi, sono state giocate all'interno di un comitato politico cittadino che altro non è se non la sede della spartizione del potere fra DC e PCI. Affari. Sui quali prospera anche la camorra.

Infatti quelle scelte urbanistiche, operate dai gavianei e dal PCI, vanno tutte nella direzione di aree dove comanda la camorra più sanguinosa. Quindi il patteggiamento con la camorra diventa inevitabile. Così, grazie all'accordo Gava-PCI, quei miliardi vanno ad incentivare attività criminose.

Si combatte simbolicamente la camorra ma, nella sostanza, la si favorisce.

 

* * *

Stampa e televisione ci hanno informato che il sindaco Valenzi si è recato da Pertini per chiedere «solidarietà» nella battaglia contro la camorra e lo sfascio morale di Napoli. Si chiede pulizia. E su tutta la linea.

Già, ma i signori Vincenzo De Rosa e Alfredo Arpaia, ex-assessori del PSDI e del PRI, continuano tranquillamente a restare nel Consiglio comunale di Napoli, benché condannati a pene pesantissime per il racket dei cimiteri.

Il racket dei cimiteri, per chi non lo sapesse, è anche esso camorra.

Ora, come si fa a chiedere moralizzazione e pulizia quando, nel proprio seno, c'è corruzione e sporcizia?

 

* * *

Una battuta... smagnetizzante. Craxi incontra il ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis:

«Andiamo a prendere qualcosa?».

«A chi? A chi?».

 

*   *   *

21 aprile 1982

 

Antonio Savasta (17 omicidi); Emilia Libera (17 omicidi); Mario Cianfanelli (8 omicidi); Alessandra De Luca (8 omicidi), Patrizio Peci (4 omicidi); Michele Viscardi ( 11 omicidi); Roberto Sandalo (2 omicidi); Marco Barbone (1 omicidio).

Si tratta di alcuni brigatisti «pentiti». Presto potranno tornare in libertà. Grazie al Parlamento della Repubblica Italiana, antifascista, uscita dalla resistenza.

Il brigatista «pentito» Antonio Savasta riferisce che «Valerio Morucci e Adriana Faranda», rinviati a giudizio per la strage di Via Fani e l'assassinio di Aldo Moro, «altro non erano che la longa manus di Franco Piperno e Lanfranco Pace nei ranghi delle BR e che Morucci e la Faranda erano stati incaricati di entrare nelle BR per unificare due strategie: quella delle BR impegnata nella lotta contro lo Stato, e l'altra di Autonomia che portava avanti la lotta sui bisogni delle masse».

Ora contro Franco Piperno, espatriato in Canada per non essere arrestato, e Lanfranco Pace, in Francia per lo stesso motivo, sono stati emessi mandati di cattura per l'omicidio Moro e la strage di Via Fani. Piperno è già stato arrestato.

Con ciò torna di attualità, e prepotentemente, una vecchia vicenda che fece dire a Pietro Longo (giugno 1979, comitato centrale del PSDI), segretario nazionale del PSDI, queste testuali parole: «Credo che il PSI, nei prossimi mesi, si troverà nella bufera dei collegamenti tra BR e alcuni suoi esponenti: se lo dico è perché è ben più di una impressione».

A chi si riferiva Pietro Longo? A Craxi. A Giacomo Mancini. Fra i due, sempre in tema terrorismo, vi fu un duro diverbio il 18 gennaio 1980, in pieno comitato centrale, alla presenza della stampa.

Riferendo al comitato centrale, Craxi, ad un dato momento, disse testualmente: «Gli Autonomi sanno certamente di più di quello che hanno detto al magistrato. L’Autonomo con cui parlai (Lanfranco Pace, il 6.5.1978, tre giorni prima dell'assassinio di Moro - N.d.R.) assieme ad un testimone, Landolfi (senatore del PSI, N.d.R.), alla mia domanda se Moro fosse vivo, e se fosse possibile lo scambio uno contro uno, lasciò intendere che Moro era vivo e lo scambio possibile. Se lo ha fatto per millanteria lo deve spiegare alla magistratura e anche a me».

Le cronache raccontano ("Corriere della Sera", 19.1.1980) che a queste parole Mancini, paonazzo in volto, si è avvicinato a Craxi ed ha detto: «Hai fatto male, per polemica contro di me, a dire quello che hai detto. Non ti rendi conto che hai esposto te stesso e tutto il partito a una brutta figura? La gente, domani, si chiederà perché non hai riferito alla magistratura quello che sapevi, subito».

Ora che il «superpentito» Savasta dice che Franco Piperno e Lanfranco Pace non erano affatto «esperti» in Brigate Rosse, ma brigatisti in prima persona, e si incontravano con Craxi, Mancini e Signorile, con l'incarico di aprire un varco nella cosiddetta intransigenza alle trattative, è evidente che sia Craxi, sia Mancini, quest'ultimo da sempre amico di Piperno, devono essere nuovamente sentiti dai magistrati sulla strage di Via Fani. Il non avere Craxi, dopo il colloquio con Lanfranco Pace, informato le autorità di quanto faceva e sapeva, e ciò a tre giorni dall'assassinio di Moro, lo pone in una situazione difficile.

Tutti tacciono al riguardo. I potenti non possono essere disturbati. Nemmeno quando colloquiano con persone accusate di assassinio e strage.

A Rimini il PSI ha dato, ancora una volta, dimostrazione di una politica intesa come spettacolo. Teatralmente cura e tesse una sua immagine che la si vuole quanto più aderente ad una società civile e moderna.

D'accordo, ma le vicende del Banco Ambrosiano; gli scandali in cui, anche alla periferia, gli uomini dei PSI primeggiano e vigoreggiano; Franco Piperno e Lanfranco Pace con tutto quello che si portano dietro, butterano la faccia del PSI, in modo marcato. Il teatro non basta. E nemmeno il chirurgo. Perché quelle cicatrici, su «quella» faccia, non possono essere cancellate.

 

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23 aprile 1982

 

La crisi per Nino Andreatta non si è fatta. "Rosso e Nero" si è occupato del personaggio per ben undici volte. E non per quisquiglie. L'11 aprile 1980 scrivevamo, testualmente: «Nella vita ...economica di Nino Andreatta c'è di peggio dall'essere accusato di peculato continuato aggravato (domanda di autorizzazione a procedere, Senato della Repubblica, Doc. IV n° 10 del 4 ottobre 1979), per lo sfascio della SIR di Rovelli. Un cittadino qualunque sarebbe già finito in galera. C'è di peggio. Infatti Andreatta, insieme all'avvocato Pasquale Chiomenti, personaggio di Agnelli e a Bruno Pagan, repubblicano, direttore di "Mondo Economico", consentì al noto filibustiere della finanza internazionale Bernard Cornfeld, poi finito in galera in Svizzera, di mettere piede con la FIDEURAM (fondi di investimento) in Italia. E quando il castello finanziario di Cornfeld crollò, Andreatta riesce a far salvare la parte italiana all'IMI, a suon di miliardi. Nessuno, nemmeno il giudice Alibrandi, ha rilevato che nel momento in cui l'IMI interviene a salvare i risparmiatori italiani, caduti nell'imbroglio, Andreatta è, in contemporanea, amministratore della FIDEURAM e dell'IMI. Materia da codice penale. E lo fanno supervisore del governo!»

Così scrivevamo l’11 aprile 1980, esattamente due anni fa. Nessuno si mosse, a cominciare da Andreatta. Per queste cose, riguardanti la moralità pubblica, le crisi di governo non si fanno. Si butta tutto all'aria solo quando Andreatta chiama Craxi e compagni «nazionalsocialisti».

Giudicate voi.

 

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Domanda: «Chi crede che sia responsabile, se non il suo partito, dello sviluppo del fenomeno camorrista?». Risposta: «Potrei rispondere che questo fenomeno si è sviluppato in maniera incredibile negli ultimi sei anni, anni in cui a Napoli e dintorni ci sono state amministrazioni di sinistra». (Ciriaco De Mita, "L'Espresso", 18.4.1982, n° 15)

 

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Domanda: «Lei si è occupato della ricostruzione dopo il terremoto: si è accorto del peso della camorra?» Risposta: «Ho chiesto un accertamento rigoroso e sono stato accusato di voler mandar via Zamberletti. Ho chiesto una distinzione d'intervento fra l'area napoletana e la zona dell'epicentro, proprio per evitare di trasferire certi fenomeni nella nostra zona, un rischio molto concreto che si è già manifestato da quando è cominciata la costruzione di uno Stabilimento dell'ALFA nell'area di Avellino: i lavori vengono affidati ad imprese legate a Cutolo. E così si rischia di far estendere il fenomeno camorristico dal napoletano e dal nocerino anche alle zone interne». (Ciriaco De Mita, idem).

 

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«Gli sviluppi politici dell'ultimo periodo a Napoli presentano un dato di continuità: quello del rapporto tra gruppo doroteo della DC e amministratori comunali del PCI. Per essere più precisi, tra Andrea Geremicca, deputato e assessore di punta del PCI e Raffaele Russo, gaviano». (Paolo Cirino Pomicino, vice presidente del gruppo parlamentare DC, deputato di Napoli, da "Pagina", 5.4.1982)

 

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«La gestione dei 20.000 alloggi da costruire e distribuire in base alla Legge Andreatta è stata manipolata nel quadro di un cosiddetto comitato politico che è la sede della spartizione fra Dorotei e PCI. Tutte le scelte urbanistiche connesse con questi insediamenti sono state giocate all'interno di una combinazione (DC-PCI - N.d.R.), all'esterno conflittuale, in concreto convergente». (Paolo Cirino Pomicino, idem)

 

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«Il fatto di escludere la Città dagli interventi programmati della mano pubblica avvicina i lavori ai poli territoriali situati nella conurbazione urbana e della provincia nell'area vesuviana e in quella a nord, dove comanda, incontrastata, un'altra mano, quella della camorra. La collisione, o il patteggiamento, diventano inevitabili. Diviene più succoso e ravvicinato per la camorra il controllo sul flusso di denaro pubblico che, così acquisito legalmente, finisce per finanziare ed incentivare attività criminali. La camorra nella sua fase industriale ha un occhio particolare per l'edilizia». (Paolo Cirino Pomicino, ibidem).

 

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«Il confine fra gangsterismo e politica è sempre più difficile da rintracciare». (Giancarlo Paietta, "l'Europeo", 19.4.1982)

 

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Non abbiamo, di nostro, messo un rigo. Hanno parlato «loro». E «loro» affermano che DC e PCI favoriscono la camorra. Noi lo sapevamo da un pezzo, ma che lo scrivessero a chiare lettere ci pareva cosa impossibile. È accaduto anche questo.

 

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Ho compulsato attentamente, riga per riga, gli ultimi tre numeri di "Rinascita" (12-13-14, del 26 marzo e del 2 e 9 aprile), il settimanale del PCI. Mi sono soffermato, in modo particolare, sugli articoli dedicati al caso «camorra-Cirillo-BR». Sono a firma di Antonio Bassolino, Mauro, Calise, Emanuele Macaluso, quest'ultimo nominato direttore de "l'Unità" al posto di Petruccioli.

Ebbene, non c'è un rigo, non c'è un accenno, in tutte quelle colonne di piombo, e nemmeno di sfuggita, dedicato alla dinastia Gava; a questo «clan» che sempre era stato nel mirino della polemica comunista come sistema di potere corruttore e disgregatore, ai limiti della gang.

Ora è silenzio. Il clan Gava si è dichiarato favorevole all'accordo con il PCI.

 

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Emanuele Macaluso, direttore de "l'Unità". Il suo nome, in politica, compare per la prima volta, nel 1947. Figura membro di una cooperativa, "La Voce della Sicilia". Soci, insieme a Macaluso, Vito Guarrasi e Cipolla Calogero.

Cipolla Calogero di Agrigento, fratello del già senatore comunista Nicolò, compare nel consiglio di amministrazione della GEFI, una finanziaria che nel 1972, supervisore Graziano Verzotto, il senatore democristiano latitante, acquista il pacchetto azionario di maggioranza del Banco di Milano di Michele Sindona.

Calogero Cipolla non è uomo da poco. Quando entra nelle banche di Sindona (per conto di chi?) è consigliere di amministrazione del quotidiano comunista "l'Ora" di Palermo e della "Editrice Rinnovamento", proprietaria di "Paese Sera", società appartenente al PCI.

Emanuele Macaluso, invitato più volte a fornire lumi sulla vicenda, è rimasto muto.

L'altro personaggio, amico di Macaluso, da sempre, è Vito Guarrasi. Il suo nome lo troverete «sempre» legato alle vicende delle vecchie miniere baronali che non valevano un soldo e che furono acquistate, a suon di miliardi, dalla mano pubblica. Leonardo Sciascia ha scritto che, finché non faremo piena luce su queste vicende legate alle miniere, non capiremo nulla della mafia.

Anche su questo scottante punto abbiamo più volte chiesto l'aiuto del neo direttore de "l'Unità" perché contribuisse a chiarirci le idee. Silenzio. Speriamo che ora, che ha a disposizione un quotidiano, sia più loquace a tale proposito.

 

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28 aprile 1982

 

Scrive Fortebraccio ("l’Unità", 28.3.1982): «Sapete quale è il rito di iniziazione alla massoneria? Il «profano» deve essere ammesso, per prima cosa, come «apprendista». Intanto comincia a spogliarsi dei suoi «metalli» (monete, medaglie e altri eventuali aggeggi) poi va a meditare in una camera di riflessione. La camera in questione è ornata di terribili accessori simbolici: una lampada, uno scheletro, una pietra cubica, un gallo impagliato, un orologio a polvere, un cartoccio di sale, uno di zolfo e altre cosette allegre di questo tipo. Ciò fatto il povero «profano», se ancora le forze lo reggono, deve rispondere per iscritto a tre quesiti sui doveri del massone. Poi deve fare testamento. Quindi con gli occhi bendati lo svestono a mezzo e lo fanno passare nel «tempio» e qui viene toccato dalla «spada fiammeggiante». Ma non è finita. Seguono varie altre prove che portano nomi simbolici e fantasiosi: i tre viaggi, il calice di amarezza, la catena di unione. Solo ora, mezzo morto supponiamo, il neofita presta un giuramento e riceve un grembiule e un guanto».

Sì, anche noi, con Fortebraccio, ci domandiamo come fa una persona seria, nel 1982, e anche trenta, cinquanta, cento, duecento anni fa, a tollerare queste, con rispetto parlando, baggianate?

 

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Avevamo chiesto al ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis di sapere, a quale titolo, il già deputato democristiano Emo Danesi, apparso negli elenchi della P2 di Licio Gelli, poteva utilizzare gli aerei di proprietà della società SNAM del gruppo ENI sulla rotta Roma-Pisa e viceversa.

Il ministro, in data 17.3.1982, protocollo 66757, ufficio interrogazioni e rapporti con il Parlamento, ci fa sapere che gli aerei aziendali della SNAM vengono di norma utilizzati da parte dei dirigenti di più alto livello delle società del gruppo per necessità di servizio. In via eccezionale, scrive il ministro, tali aerei vengono anche posti a disposizione, per particolari ed urgenti esigenze, di alte cariche dello Stato. In questo ambito, conclude il ministro, sono da valutare i voli che, a suo tempo, sulla rotta Roma-Pisa e viceversa, il signor (sic! - N.d.R.) Emo Danesi ha effettuato con dirigenti dell'ENI, o da solo.

Così il ministro. Come se nulla fosse. Sicché il signor Emo Danesi, piduista, poteva (o può ancora?) disporre degli aerei della SNAM-ENI. Bene. E a quale titolo? Perché ...alta carica dello Stato? Non facciamo ridere. La ...carica di Danesi consisteva nell'essere intimo porta-borse dell'ex-ministro Bisaglia.

E chi ha pagato? Su questo non ci sono incertezze: il contribuente. Ma se è così l'autorità giudiziaria non ha proprio nulla da dire?

 

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Sulle «indennità parlamentari» c'è stata (e c'è) polemica. Anche aspra. Quotidiani, rotocalchi, settimanali, impegnando le penne più prestigiose, si sono dedicati ad analizzare minutamente la busta-paga del deputato. Scandagliata. Fino al centesimo. Come se le ingenti spese degli istituti parlamentari ruotassero tutte intorno alla paga del parlamentare. L'andazzo rende, perché deputati e senatori vengono a rappresentare il falso scopo del tiro polemico e ciò per tenere stornata l'attenzione della pubblica opinione su altre «spese», ben più consistenti e, diciamolo, scandalose di quelle rappresentate dalle indennità parlamentari.

Ne volete un esempio?

Consiglio superiore della Magistratura. I rappresentanti dell'organo di tutela dell'autonomia dei giudici, zitti zitti, piano piano, si sono aumentate le proprie retribuzioni. Cinque milioni al mese, il doppio di quello che percepiscono i parlamentari.

Silenzio generale. Vi pare giusto?

 

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La rivista mensile del CONI "Quaderni dello Sport" (n° 6) è tutta dedicata alla figura dell'avvocato Giulio Onesti, «indimenticabile presidente del CONI», deceduto l’11.12.1981 «il più grande», scrive la rivista, «protagonista dello sport italiano».

A pagina 13, sotto il titolo «Vivere Onesti morire poveri», Gualtiero Zanetti, già direttore della "Gazzetta dello Sport", scrive: «Onesti mi ha anche detto, forse con parole differenti, quanto aveva confessato a Oliviero Beha, qualche tempo prima, e che Beha ha così trascritto su Repubblica: "La mia estromissione dal CONI fu il risultato di un pactum sceleris politico. Andreotti mi lasciò affogare, si liberò di me e allora pensai: chi me lo fa fare, potrei lottare ancora, avrei ragione, ma dopo una vita dedicata allo sport, come mi posso abbassare sul piano della camarilla? Non sarebbe da me"».

Sullo stesso numero, a pagina 25, questo giudizio: «Sono tanto addolorato per la morte di un amico sincero, con il quale ci incontrammo 35 anni fa nella difesa dell'autonomia dello sport, nella realizzazione dei suo autofinanziamento (sottraendo il Totocalcio ad interessi privati) e nella rigorosa salvaguardia del CONI e delle Federazioni da ogni intromissione politica. In questo spirito fui lieto di affiancarmi a lui nella preparazione della Olimpiade di Cortina del 1956 e di quella di Roma del 1960 e nella realizzazione della splendida idea dei giochi della Gioventù. Anche in campo internazionale Onesti si era conquistato un alto prestigio. È un grave lutto per il nostro Paese».

Chi parla è Giulio Andreotti.

 

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30 aprile 1982

 

Il quotidiano "Il Giorno" (24.3.1982), sotto il titolo: «La generazione dei figli accusa di avere mentito sul fascismo: a loro gli anni '30 appaiono una stagione di grande splendore. Perché ci avete ingannati?», pubblica un articolo di Massimo Fini, giornalista fra i più noti dell'area socialista, e la risposta dei direttore del giornale Guglielmo Zucconi.

Alle parole di Massimo Fini («La mostra di Milano ha rivelato che al tempo di Mussolini c'era una straordinaria vitalità culturale e artistica, un grande fermento. Erano avanzatissimi letteratura e pittura, architettura ed edilizia sociale, persino discipline ultramoderne come la grafica e il design, anche in economia l'Italia marciava all’avanguardia»), il direttore Zucconi, imbarazzatissimo, scrive: «Potrei osservare a Massimo Fini che la buona gestione dell'IRI durante il fascismo fu possibile anche grazie ad un potere che ne accollò i costi ai lavoratori e dimostrargli, con documenti di fonte fascista, che dal '26 al '34 i salari reali degli operai, contrariamente a quanto accadeva nel resto del mondo, furono decurtati del 50 per cento, mentre il costo della vita, secondo statistiche più ottimistiche, diminuì del 25 per cento».

Sì, solo che Guglielmo Zucconi dimentica un piccolo-grande particolare. E cioè che quelli furono gli anni della grande depressione americana che, con il crollo di Wall Street, ebbero drammatiche e paurose conseguenze in tutto il mondo.

Ebbene l'Italia fu la Nazione che, da quella drammatica stretta mondiale, uscì meglio di tutte le altre, compresa la grande America che poteva riprendersi dal generale collasso solo con la seconda guerra mondiale.

Consigliamo Zucconi di cercare, meditandoci poi su, il libro di Ernst John Steinbeck, premio Nobel nel 1962 per la letteratura, dal titolo "Furore", libro che potemmo leggere nel 1939. Vi troverà una cruda descrizione delle condizioni in cui vennero a trovarsi gli americani in quegli anni. Milioni di disoccupati, fame, degradazione sociale, criminalità. La cinematografia ha lasciato di quel periodo americano testimonianze inequivocabili. Ebbene l'Italia fascista superò quella crisi in condizioni nettamente migliori, tanto da gettare le premesse di quella ripresa sulla quale si sofferma, con parole ammirate, lo storico De Felice nel suo ultimo volume: "Mussolini, il duce" (pagg. 168-206).

 

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«Un antifascista chiamato Zabaione mi fece avere, con mille sotterfugi, dei libri fra i quali Bakunin, Sorel, il Capitale nel riassunto di Cafiero, qualche ingiallito numero dell'Avanti!. Lessi tutto avidamente ma capii ben poco ...». È sempre Zucconi che scrive, ed è sempre uno Zucconi che continua a... fingere di capire poco.

Sicché il direttore de "Il Giorno" ci vorrebbe raccontare che negli anni mussoliniani, gli anni del diavolo, certi libri, cosiddetti proibiti, non circolassero.

Allora veniamo alle precisazioni, le più puntuali possibili. Basta qualche esempio.

Anno 1934, dodicesimo dell'Era fascista, la Casa Editrice Sansoni di Firenze stampa il libro dal titolo "Bolscevismo e Capitalismo". Ci sono raccolti i testi integrati, ripeto integrati, dei discorsi di Stalin (Rendiconto al XVII Congresso del Partito); di Molotov (il 2° Piano quinquennale); di Grienko (il Piano dell'Economia dell'URSS per l'anno 1934).

E sa Zucconi a cura di chi veniva stampato "Bolscevismo e Capitalismo"?

A cura della Scuola di Scienze Corporative, il "Collegio Mussolini" di Pisa, la Scuola per eccellenza fascista.

Zucconi dovrebbe anche sapere che le biblioteche italiane conservano ancora agili volumi in ottavo dal titolo "I classici del liberalismo e del socialismo", sempre editi dalla Sansoni, a cura di Giuseppe Bottai, Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli.

L'Archivio di studi corporativi, edíto dalla Scuola di perfezionamento nelle discipline corporative dell'Università di Pisa, recensiva, tanto per citare altri esempi, tutto ciò che l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano produceva, e non mancavano a tale proposito, i libri di Amintore Fanfani. Come del resto la Casa Editrice Einaudi distribuiva i saggi di economia di Luigi Einaudi; la Bocca di Milano "La storia del comunismo" dell'antifascista Perticone; Laterza di Bari tutto Benedetto Croce, compreso "Considerazioni sulla violenza" del Sorel.

Non c'era alcun bisogno di leggere di soppiatto.

Tutto era alla luce del sole, al punto, come abbiamo scritto, che era lo stesso "Collegio Mussolini", la scuola prestigiosa di Pisa, a mettere nelle mani dei giovani intellettuali i discorsi di Giuseppe Stalin.

 

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«E invece il fascismo conterebbe oggi su assai meno nostalgici se fosse stato raccontato e rilevato senza falsi pudori e come fu davvero: una lunga stagione di umiliazione culturale e morale».

È l'ultima stoccata di Guglielmo Zucconi, ma è una stoccata che va a vuoto.

Infatti Zucconi ci dovrebbe spiegare come si fa a scrivere queste cose di un sistema, quello fascista, che aveva Rocco alla Legislazione, De Stefani alle Finanze, Beneduce all'IRI, Gentile all'Istruzione, D'Amelio alla Cassazione, Santi Romano al Consiglio di Stato, Serpieri all'Agricoltura; che, nella pittura, poteva annoverare Sironi; nella scultura Arturo Martini, nelle lettere Pirandello, Papini, Soffici; nella musica Mascagni e che realizzava l'Enciclopedia Treccani chiamandovi a collaborare antifascisti come Ugo La Malfa.

 

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* Postilla. Come rilevava un lettore de "Il Giornale Nuovo" (3.4.1982), la "Mostra Anni '30" tace sulla legislazione del lavoro che vide la luce in quel periodo. Quel lettore ha ragione. Infatti negli anni '30, sulla scia della Carta del Lavoro, vennero realizzate normative legislative come:

1) - la legge sulla tutela del lavoro minorile e femminile;

2) - la disciplina della domanda e dell'offerta del lavoro negli uffici di collocamento;

3) - il libretto di lavoro;

4) - la tutela della maternità delle lavoratrici;

5) - la disciplina dell'orario di lavoro nell'interesse del lavoratore;

6) - il diritto ai riposi e alle ferie;

7) - il riconoscimento del diritto alla indennità di anzianità;

8) - la disciplina delle condizioni igieniche del lavoro nell'azienda;

9) - la tutela del lavoro domestico e dei lavoro a domicilio;

10) - la tutela dell'apprendistato;

11) - la disciplina dei cottimi;

12) - il principio del giusto salario;

13) - la garanzia data al lavoratore nel trapasso d'azienda;

14) - la tutela del lavoratore in caso di malattia;

15) - tutto il complesso legislativo sulle assicurazioni e l'assistenza;

16) - gli assegni familiari;

17) - l'imponibile di manodopera nei contratti collettivi in agricoltura;

18) - la disciplina dei rapporti di compartecipazione agricola stabilita nel Libro del lavoro del Codice Civile vigente insieme alla minuta disciplina del rapporto autonomo e subordinato, in luogo dei tre articoli del Codice del '65.

E scusate se è poco.

Indice 1982