Rosso e Nero
(prima serie)

Rubrica curata da Beppe Niccolai sulle pagine del "Secolo d'Italia"
organo del
Movimento Sociale - Destra Nazionale

 

 

Luglio 1982

 

6 luglio 1982

8 luglio 1982

8 gennaio 1982
13 luglio 1982 18 luglio 1982 23 luglio 1982
30 luglio 1982    

 

6 luglio 1982

 

Indro Montanelli, in "Controcorrente" scrive: «Al posto dell'onorevole Andreotti cominceremmo a preoccuparci seriamente. È passata una settimana dalla morte di Calvi e ancora nessuno ha pensato di addebitargliene il cadavere».

Il cadavere di Roberto Calvi no, ma i magnifici tre: Claudio, Wilfredo e Vito Vitalone (così li chiamava Mino Pecorelli, il giornalista assassinato, vedi il numero speciale di "OP" del 24.1.1976), sì, questi sì. Non ci sono dubbi. Sono creature di Andreotti.

 

* * *

Eugenio Scalfari ("la Repubblica", 21.4.1979), commentando la decisione del sostituto procuratore generale di Roma, Claudio Vitalone, a candidarsi nelle file della DC, scriveva:

«Claudio Vitalone è da anni, lo sa qualunque cronista giudiziario che eserciti a Roma la sua professione, il portavoce a Palazzo di Giustizia del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Lo è in un duplice modo: informa Palazzo Chigi "per tempo" di quanto sta per avvenire in Procura e dintorni, e porta in Procura e dintorni gli «umori» di Palazzo Chigi. Insomma, Vitalone, è un canale».

Scalfari avrebbe potuto usare una espressione più forte, indubbiamente più viva di «canale». Avrebbe dovuto scrivere che si trattava di rapporti di mafia. Non se l'è sentita, pur scrivendo che quel giudice, avendo sempre svolto un ruolo anomalo presso il Palazzo di Giustizia, con il candidarsi ora con la DC, non poteva sottrarsi al sospetto che egli stava ricevendo (dalla DC), un «premio» per i servigi resi.

Il premio si è concretizzato: Claudio Vitalone è senatore della Repubblica.

 

* * *

«Io do una cosa a te e tu dai una cosa a me». Infatti basta leggere la cronaca del ...cosiddetto arresto del fratello del senatore, l'avvocato Wilfredo Vitalone, per rendersi conto che, anche in questo caso la vecchia massima è stata rispettata. Rigorosamente.

«Accasciato su una poltroncina, l'avvocato Wilfredo Vitalone, 50 anni, fratello maggiore del senatore Claudio, ha annunziato ai presenti che stava sentendosi male. Due ore e mezzo prima, poco dopo l'alba, gli era stato notificato, nella sua abitazione, l'ordine di cattura. Poche righe brucianti: gli si contestava di avere incassato tre miliardi di lire con la promessa di destinarli a giudici titolari di processi a carico di Roberto Calvi, processi compresi nel pacchetto P2. Quando ancora Wilfredo non si era ripreso dal lieve collasso è sopraggiunto il fratello, il senatore Claudio. L'arrestato non sarebbe più andato a Regina Coeli, ma direttamente alla Clinica Pio XI, sull'Aurelia, un gioiello di assistenza sanitaria privata».

Così il "Corriere della Sera" del 28.6.1982. Non è da tutti avere simili trattamenti. Occorre avere un fratello senatore, e non basta. Occorre che si chiami Claudio Vitalone. È una condizione essenziale quest'ultima. Perché Claudio Vitalone ha reso molti servigi. A Giulio Andreotti.

Claudio Vitalone e la «protezione» dei suoi due fratelli. L'ha svolta con sfacciataggine incredibile. Con protervia. Davanti a tutta Roma.

Infatti chi non sapeva che suo fratello Wilfredo era presente in affari, cause, transazioni effettuati a Roma, la città nella cui Procura operava suo fratello, il giudice e non ancora senatore Claudio Vitalone?

Quanti dossier giudiziari, quanti procedimenti penali sono stati fatti viaggiare fino a Grosseto, a Genova, a Firenze, a Napoli e poi restituiti alla sede di origine perché i magistrati, incaricati dei caso, si sono confessati «intimoriti», o resi non sereni dalle autorevoli pressioni del fratello giudice Claudio?

Lo sapevano tutti, lo sanno tutti. Ma tutti si sono piegati alla prepotenza. Anche il Consiglio superiore della Magistratura.

 

* * *

Wilfredo Vitalone è stato arrestato (si fa per dire) perché avrebbe percepito da Calvi tre miliardi di lire onde corrompere i giudici di processi a carico dei defunto presidente dell'Ambrosiano. Non è un'accusa nuova in casa Vitalone. La compravendita delle assoluzioni e delle condanne è stata già tema di dibattito e di scontro fra Claudio Vitalone e la stampa. Non solo. Fra Claudio Vitalone e il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, dottor Cesare D'Anna. I processi sono ancora caldi. Ha avuto la meglio, fino ad oggi, il senatore Claudio Vitalone?

Può essere, ma può anche essere che, proprio in questi giorni, la stella Vitalone abbia iniziato ad appannarsi. Dio non paga solo il sabato.

 

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Metti una sera a cena. Non si tratta della ormai celeberrima cena offerta da Claudio VitaIone nel 1972 alla "Tana dell'Orso" in occasione della festa della moglie -oltre 300 invitati- pagata dall'assessore ai tributi del Comune di Roma Nazareno Padellaro; non si tratta delle cene con i fratelli Caltagirone; si tratta di una cena del tutto particolare, soprattutto per la presenza di Mino Pecorelli e del generale (condannato e latitante) della finanza Lo Prete. Si svolge alla "Famiglia Piemontese", si può dire poche ore prima che Pecorelli venga assassinato (20 marzo 1979 ore 20,45).

Perché quella cena? Perché quei personaggi?

Amici da sempre? Per carità: Pecorelli aveva nel suo mirino, costantemente, sia Lo Prete, sia Vitalone.

Si trovano a tavola. Perché?

Eppure intorno a quel tavolo c'è tutto: petrolio (Lo Prete); P2 (Lo Prete e Pecorelli); la Procura di Roma con annessi e connessi (Vitalone). E, poteva mancare? Un pizzico di Andreotti.

 

* * *

9 febbraio 1978, sotto il titolo "Claudio Vitalone deve essere processato", Mino Pecorelli, il giornalista assassinato, così scriveva:

«Livio Zanetti e Mario La Ferla dimostrano di avere buon sangue nelle vene. Ci sentiamo lusingati di essere al loro fianco, in prima linea, contro l'ingiustizia e il malcostume indossati con arroganza sotto una certa toga». "L'Espresso" in edicola (n. 6, anno XXIV, 12 febbraio 1978) a pagina 141 dà notizia di un crimine di una gravità eccezionale. «Nel luglio scorso -scrive in neretto Mario La Ferla, parlando di Italcasse e Caltagirone- il magistrato romano Claudio Vitalone legato notoriamente ad uomini democristiani e socialisti, si recò a Milano. Nella sede della Cariplo, che è azionista di maggioranza dell'Italcasse, il magistrato convinse il direttore generale Alessandro Nezzo ad approvare l'operazione di salvataggio dei fratelli costruttori» L'Espresso è in edicola da 48 ore. Durante le quali nessuno dei diretti interessati ha sentito il dovere morale di smentire o precisare. Ci troviamo di fronte ad un episodio senza precedente alcuno: un magistrato della Procura di Roma si sarebbe recato a Milano a perorare la causa di persone convenute a giudizio presso il suo stesso Tribunale, persone di cui il magistrato è notoriamente amico. Il fatto di per sé grave, diventa gravissimo quando ci si chiede di quali mezzi il Claudio Vitalone si sia servito per «convincere» Alessandro Nezzo al suo partito. Si tratta di metodi intimidatori? L'Espresso è in edicola da 48 ore e se né il Vitalone né Nezzo hanno smentito, nessun'altra voce si è levata dagli ambienti della Procura. Invitiamo pertanto il P.G. di Roma Pietro Pascalino, il Procuratore capo Giovanni De Matteo, nonché l’intero Consiglio Superiore della Magistratura ad aprire immediatamente una inchiesta al fine di accertare la veridicità di quanto affermato da "l'Espresso" (n. 6/78). Se, come è lecito supporre, quanto affermato dal settimanale risulterà vero, sarebbe impossibile non carcerare il predetto Claudio Vitalone ed insieme continuare a mantenere in vigore il vecchio aforisma secondo il quale la legge è eguale per tutti».
f to Mino Pecorelli.

 

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Il caso Calvi dimostrerebbe ampiamente che certe «pratiche» erano in uso da tempo. Nulla di nuovo sotto il sole. Se non che coloro che avrebbero dovuto indagare sulle attività del clan Vitalone, li troviamo, puntualissimi, alla cena offerta dal «senatore» per festeggiare la sua elezione a senatore della Repubblica nata dalla resistenza.

Ci sono tutti: il procuratore generale presso la Corte di Appello Pietro Pascalino, il procuratore Capo De Matteo, il consigliere istruttore Gallucci.

È il 26 giugno 1979.

 

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8 luglio 1982

 

«C'era una volta la bandiera tricolore. L'avevano quasi tutti in casa gli italiani dabbene. La consuetudine era di esporla in occasione delle feste nazionali. Molti palazzi di non recentissima costruzione conservano ancora la loro brava staffa sotto la finestra principale. È diventata inutile, sono cambiate le idee, le fedi, le mode. La bandiera? L'occasione più frequente di rivederla, sul pennone dei palazzo accanto, è ormai quella delle consultazioni elettorali. Sono bandiere pubbliche; quelle private pare proprio che non esistano più. Ma forse è un'impressione non del tutto esatta. Succede che l'Italia, squadra di calcio, vinca ai mondiali una partita incredibile ed ecco che le città si riempiono di bandiere tricolori. Una, mille, centomila. Possibile che siano uscite tutte dai bauli delle nonne?». ("La Nazione", 6.7.1982)

Era già accaduto nel giugno 1970. «Mamma, ce l'hai una bandiera tricolore?» Sono le 19 del 4 luglio 1982. L'Italia, allo Stadio Sarrià di Barcellona, ha battuto il Brasile. E sono spuntate, come di incanto, le bandiere tricolori. Soprattutto in mano ai ragazzi.

I sociologi (peste e rovina di ogni Paese, direbbe Pisacane) che, alla vigilia, quando alla credibilità della squadra italiana non si puntava nemmeno un centesimo, si erano particolarmente dedicati alla introspezione del gioco del calcio, merce ignobile, dagli stipendi d'oro dei calciatori, alla volgarità, al teppismo, alla violenza negli stadi dei tifosi italiani. Tutta roba da manicomio, da paese sottosviluppato, africano. Che si potesse trattare anche di autentica passione popolare, intorno ai colori nazionali, nemmeno a parlarne. Tutto uno schifo: dai giocatori (brocchi e avidi solo di guadagni), al povero Bearzot, rimbambito e rimbrottato perché parlava di «patria»; agli argentini e ai brasiliani che, autentici prestigiatori della palla (loro sì, mica i nostri), avrebbero fatto di noi, poveretti, un solo boccone!

Poi, d'improvviso, le bandiere. I colori nazionali che cessano, per un momento, di essere fredda e dimenticata simbologia ufficiale, come la marca da bollo o l'impronta del monopolio sulle sigarette, per diventare, per ritornare a diventare, intorno ad una squadra di calcio che, impossibilmente, vince, simbolo di una collettività; di una comunità umana che (finalmente) non deve più riconoscersi nell'odio, nella divisione, ma nella gioia, nell'allegria, sia pure sportiva, dell'unità, della fraternità.

Alla radiografia del nostro sistema nazionale fatta, con spocchia e alterigia, dai sociologi e dalle penne «impegnate», ne è venuta fuori un'altra e spontanea, carica di significato: siamo una comunità che sentiamo, malgrado gli scribi, ancora un senso di appartenenza comune e che questo è capace di esaltarci, di farci sentire vivi, uniti, insieme.

Perché nasconderlo? I politici, e i loro «corifei» hanno sofferto di invidia per questo entusiasmo, hanno moti di stizza, di fastidio. Perché per noi, no?

Perché? Abbiano l'umiltà di interrogarsi e vedranno che la risposta, anche se cruda, c'è. Eccome se c'è!

 

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Quella allegria tricolore non vuol forse indicare che gli Italiani sono stanchi degli odi che uccidono, del sangue che si raccatta per le strade, delle ruberie di stato, delle ingiustizie, delle prepotenze dei potenti, delle mafie e delle camorre a tutti i livelli? E che sentono, dentro di sé, che è ora di trovare ragioni di unità per andare d'accordo e non divisioni che mettano gli uni contro gli altri?

Sono circostanze futili? Le cose che contano sono altre? Si tratta di spensieratezza, di concordia, di amore, in ore tanto gravi?

Ma non è la spensieratezza, la concordia, la cordialità, l'allegria una aspirazione ed un programma da rivendicare legittimamente quanto se non più delle tensioni, delle divisioni, delle radicalizzazioni alimentate dai partiti?

 

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Montanelli, in un suo "Controcorrente" (6.7.1982), non condivide questa festa, questa allegria tricolore.

La cosa non ci stupisce. Non è stato infatti Indro Montanelli a scrivere (senza vergognarsene) che, pur con il vomito alla bocca, dovevamo credere e votare DC, cioè per il partito che, più di ogni altro, ha puntato a togliere agli Italiani patria e bandiera?

Ora Indro Montanelli, dinanzi «agli scalmanati che usano il tricolore a copertura del peggiore teppismo» (così scrive), rimpiange di non essere nato brasiliano.

La tristezza, leggendo queste parole, è tutta nostra. Di gente, cioè, che malgrado tutto, continua a leggere Montanelli. E "il Giornale" di Berlusconi, via Carboni-Calvi.

 

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Già ce ne dimenticavamo: 30 giugno 1982, "il Giornale" esce, e al suo posto d'onore, mette questo titolo: «Tentenna l'accusatore del legale di Calvi. Mazzotta esce malconcio dal confronto con Vitalone». È una difesa aperta del clan Vitalone. Nessun altro quotidiano si è spinto a tanto. "il Giornale" sì.

E, per finire così, che Montanelli ha lasciato il "Corriere della Sera"? Mi raccomando lettore: compra e leggi "il Giornale" di Indro Montanelli. Pur con il vomito alla bocca.

 

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13 luglio 1982

 

Non è possibile «capire» Sandro Pertini senza «capire» Antonio Maccanico, segretario generale della Presidenza della Repubblica, così resta impossibile comprendere, nei suoi mille intrecci, la vicenda «Calvi» ("Corriere della Sera") senza descrivere la parallela vicenda de "la Repubblica" di Eugenio Scalfari (una volta alla settimana, e l'altra pure, ospite del Quirinale).

Del "Corriere della Sera", ormai sappiamo tutto. Quando si è detto che è stato il quotidiano della P2, di Calvi e del PCI, credo, si sia detto tutto. Non è possibile che il cittadino italiano, comunque esso la pensi, riservi ancora credibilità ad un quotidiano così sputtanato; da essere irrecuperabile.

La vita, o prima o poi, rende giustizia. Ci siamo, come militanti del MSI, tante volte lamentati del silenzio del "Corriere" su noi, o delle infamie che lo stesso "Corriere" riversava sul MSI.

Dobbiamo esserne onorati. Il foglio della P2, di Calvi e del PCI aveva (e continua ad avere) l'ordine perentorio: niente MSI. Ne siamo onorati, signori del "Corriere della Sera". È giusto che sul quotidiano della P2, di Calvi e del PCI non ci sia posto per il MSI.

 

* * *

Abbiamo scritto, all'inizio, Antonio Maccanico, segretario generale della Presidenza della Repubblica.

È lui che ci deve ora spiegare perché, in data 25 maggio 1982, il Quirinale abbia voluto far sapere agli Italiani che il Presidente della Repubblica aveva ricevuto Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia. È lui che ci deve spiegare il perché la notizia, trasmessa dal Quirinale e considerata di tutto riposo dalla stampa italiana, sia stata invece sottolineata da "la Repubblica" di Eugenio Scalfari, sotto il titolo: «Il Gran Maestro da Pertini. Il Presidente della Repubblica riceve Armando Corona».

Una notizia come un'altra, se... Ecco c'è quel «se». Infatti solo il corpo penzoloni di Roberto Calvi, trovato sotto il ponte dei «Frati Neri» di Londra, ha fatto sì che gli Italiani sapessero che i rapporti di amicizia e di affari (massonico-politici) fra l'imprenditore edile sardo Flavio Carboni, azionista della Società Editrice del quotidiano "La Nuova Sardegna" (gruppo Caracciolo-Scalfari), repubblicano (come Maccanico e Spadolini), ricercato per l'assassinio del Presidente dell'Ambrosiano, e Armando Corona (Gran Maestro della Massoneria, repubblicano, amicissimo di Spadolini -per la sua elezione, a capo della massoneria, il Presidente del Consiglio svolge una intensa campagna elettorale, servendosi, fra l'altro, dell'aereo dello Stato maggiore-), erano ottimi, cordialissimi.

A tale riguardo, una domanda: il Presidente della Repubblica, così suscettibile nelle amicizie, tanto da selezionarle rigorosamente, non ha nulla da dire?

Chi gli ha fatto ricevere, appena pochi giorni fa, Armando Corona?

Per molto meno il giornalista Antonio Ghirelli venne licenziato dal Quirinale. E su due piedi. Senza dargli nemmeno il tempo di aprire bocca.

 

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È tutta una catena. Si inguaiano gli uni con gli altri. Sono ormai tanti gli «avventurieri» ai vertici della vita politica italiana che dalla loro «vicinanza» non si salva nessuno. Hanno accesso perfino al Quirinale. E lo stesso Presidente, così come è contornato e consigliato, non ci capisce più nulla.

Massoni, piduisti, affaristi, amici di mafiosi, vengono ammessi in sua presenza. Discorsi sulla morale pubblica si sprecano. Escono, moralizzati e conquistati dalla (santa) parola del Presidente della Repubblica, ed eccoli, appena usciti, incappare in non piacevoli avventure.

L'integerrimo Armando Corona, Gran Maestro della massoneria, repubblicano storico, dovrebbe ora spiegare, non a noi per carità, ma al Presidente della Repubblica, di che genere erano i suoi rapporti con Flavio Carboni e se, per caso, per la sua elezione a Capo di tutti i massoni, si è servito dei ...servigi dello stesso Carboni.

 

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Scrive il "Corriere della Sera" (23.6.1982): «Secondo uno dei Commissari della P2, Pazienza (uomo dei servizi segreti, affarista, guardaspalle di Calvi) avrebbe confidato al giudice Domenico Sica di un incontro Roberto Calvi, Armando Corona e Flavio Carboni e che, dopo quell'incontro, i rapporti tra il Presidente del Banco Ambrosiano e Carboni si sarebbero rafforzati, tanto che quest'ultimo sarebbe diventato quello che si dice uno stretto collaboratore dello stesso Calvi».

Bello, no! È la parola del Gran Maestro che decide, che fa sì che Carboni salga alla destra di Roberto Calvi.

E come si può dire no al Grande Oriente d'Italia che, di recente, ha avuto la benedizione del Presidente della Repubblica?

 

* * *

Ma altri «altarini» spuntano fuori. La giornalista Sandra Bonsanti ("la Repubblica", 22.6.1982), scrivendo la vita di Flavio Carboni («Factotum della DC e grande imprenditore, ecco l'uomo che aiutò Calvi a fuggire») incorre (poverina, come fa a sapere tante cose?) in un infortunio. Scrivendo che l'ultimo momento di gloria, l'imprenditore sardo lo ha passato con De Mita, organizzando per lui, dopo la sua elezione, cene con persone che contano, dà modo allo stesso De Mita di precisare ("la Repubblica", 23.6.1982) che «Lui Carboni lo ha incontrato una sola volta e, guarda il caso, era in compagnia dell'editore di "Repubblica", Carlo Caracciolo».

 

* * *

Carlo Caracciolo, ovvero il gruppo editoriale-industriale-affaristico Scalfari-Caracciolo ("L'Espresso"-"la Repubblica").

Sarebbero i moralizzatori! Roba da matti!

Scrive "La Nazione" (25.6.19 82): «Negli ambienti della Commissione P2, in questi giorni, si sottolinea, fra l'altro, che Emilio Pellicani (in carcere per il caso Calvi - N.d.R.), fratello del vice sindaco di Venezia (Gianni Pellicani), è assistito da un legale Guido Calvi, notoriamente legato al PCI. Ancora pare che Carboni, attraverso Pellicani, abbia affidato la progettazione di una lottizzazione a Castiglioncello (provincia di Livorno) avvalendosi della collaborazione di personaggi vicini al PCI».

 

* * *

Così "La Nazione". Sono passate (quando scrivo) 48 ore. Nessuna smentita. Anzi. Su "l'Unità" (26.6.1982), in una intera pagina dedicata al caso Calvi, trovo un trafiletto dal titolo: «De Mita vide Carboni ma non bevve il drink». Si fa della ironia con questa finale morale: «Questi mediatori (Carboni - N.d.R.) sono un anello infetto di questo sistema di potere. Dar loro credito, trattandoci affari riguardanti giornali, è un fatto grave sia per De Mita che per Caracciolo».

Va bene, ma se trattano insieme a personaggi del PCI, lottizzazioni edilizie di miliardi, quei mediatori vanno bene?

Visto il silenzio de "l'Unità" pare di sì, il che dice e spiega tutto.

 

* * *

Ora fate attenzione. A Livorno, così come in Sardegna, opera un quotidiano ("Il Tirreno") del gruppo Scalfari-Caracciolo. Il Direttore è un comunista iscritto al PCI, nel Consiglio di amministrazione spicca l'ex-assessore all'urbanistica del Comune di Livorno.

Quale è, e di che tipo, l'informazione distribuita ai cittadini dal quotidiano scalfariano?

Sinistra populista. "l'Unità" è molto più serena, più obiettiva. Si ha l'impressione che dietro questa fanatizzazione dell'ideologia de "Il Tirreno" vi sia un preciso disegno politico affaristico: io ti do parole estremizzate e fanaticizzate, ma instauro un silenzio prudente su cosa gli amministratori comunisti fanno della Città.

E così è. I livornesi si sfogano sull'ideologia, ma da oltre trenta anni sopportano di trovarsi senza acqua.

Non è finita. Dietro l'acceso dibattito ideologico spuntano affari sui quali nessuno (eccetto il MSI) mette bocca.

In questo quadro non meraviglia affatto che, così come scrive "La Nazione", Flavio Carboni, ricercato per l'assassinio di Calvi, faccendiere d'avanguardia della sinistra democristiana, sia sceso anche a Livorno e che la strada gliela abbia aperta il gruppo Caracciolo-Scalfari, via "Nuova Sardegna"-"Il Tirreno", di cui è azionista.

 

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Ormai tutte le vicende di sangue e di criminalità, che caratterizzano la vita politica italiana, vedono pesantemente coinvolti i due principali gruppi editoriali, cioè coloro che monopolizzano l'informazione degli Italiani. Da un lato il "Corriere della Sera", dall'altro "la Repubblica"-'L’Espresso". È lì che gli Italiani si abbeverano per sapere, per conoscere, per capire. E hanno menzogna mista a sangue.

Ma l'inganno, è certezza e non impressione, sta per finire.

 

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18 luglio 1982 (?)

 

È il 26 giugno 1982. È stata giocata a Vigo la partita con il Camerun. Pertini e Spadolini tacciono, non si fanno vedere. Per loro parlano «altri».

«Ancora una volta il Commissario tecnico ha perso una buona occasione per stare zitto. Le frasi offensive nei confronti del Parlamento e della classe politica denotano che evidentemente Bearzot si trova in uno stato confusionale. In quanto ai guadagni di un parlamentare, c'è da dire che quelli di Bearzot li superano certamente di tre o quattro volte: ma le responsabilità di un uomo politico sono certamente superiori alle sue».

Chi parla è l'onorevole Santi Ermido di Genova, Presidente IACP, sindacalista, eletto in quella lista ligure del PSI, il cui capolista Canepa Antonio Enrico, tossicodipendente, a giudizio, ha dichiarato che «per bucarsi» spendeva otto milioni al mese.

Non risulta che l'onorevole Santi, per placare le sue ansie moralistiche e la sua sete di responsabilità, abbia chiesto le dimissioni dal Parlamento del proprio capolista eroinomane; né dei molti «piduisti» e «imbroglioni» che, con tessera del PSI, fanno, da anni, bella mostra di sé ai vertici della vita politica genovese.

Per il momento l'onorevole-sindacalista se la prende con Enzo Bearzot e i giocatori azzurri, colpevoli di rapinare al contribuente italiano scandalosi premi-partita.

Le sue dichiarazioni (con relativa interrogazione parlamentare) sono del 26 giugno 1982.

Sarebbe ora interessante sapere se i giudizi su Bearzot e gli azzurri vengono mantenuti dall'onorevole Santi, visto che Sandro Pertini, socialista e ligure anche lui, è andato a Madrid a prendersi «l’onesto e pulito Enzo Bearzot», per invitarlo, con gli azzurri vittoriosi, al Quirinale, alla propria tavola.

Perché -dato che ci siamo- l'onorevole Santi non prova, presso Pertini, di far invitare al Quirinale il senatore socialista (e piduista) Francesco Fossa, suo figlio Michele (piduista anche lui), già assessore regionale alla sanità, nonché Alberto Teardo (pure lui con Gelli), presidente della Giunta regionale della Liguria?

 

* * *

«Gli uomini politici dovrebbero essere esempio di onestà e rettitudine. Disgraziatamente ce ne sono tra di loro alcuni che dovrebbero essere in prigione».

È la frase che Pertini, alla vigilia di partire per la Francia, ha riferito ai giornalisti francesi e che, poi, si incarica di smentire.

Smentite o no, gli «esempi» liguri restano in piedi. E sono stati, e sono, materia da Codice Penale.

 

* * *

L'onorevole Battaglia Adolfo, presidente del gruppo parlamentare del PRI, non è da meno dell'onorevole Santi. Alle dichiarazioni di Enzo Bearzot in relazione alla polemica sui premi-partita («sarebbe opportuno che qualche interpellanza fosse stata fatta sui signori parlamentati e sui loro premi», 25.6.1982) replica rapidamente:

«Bearzot è troppo irascibile e se il Parlamento è poco, la Nazionale è zero». ("Corriere della Sera", 26.6.1982).

Sì, ma non è questo il punto. Si è visto poi se la Nazionale era zero, o no. Quello che preme ricordare a Battaglia è che Bearzot chiede, contestualmente ad una indagine sui premi-partita degli azzurri, una sui «premi» dei politici.

Infatti il PRI deve ancora restituire, alle casse dello Stato, 400 milioni dell'Italcasse per affari tangenti-premi, guadagnati sul campo di gioco dell'intrallazzo e della corruzione.

Ha ottemperato a questo obbligo della restituzione il PRI?

Credo no. E se così è, perché l'onorevole Battaglia mette bocca in faccende (di moralizzazione), sulle quali è assolutamente incompetente?

 

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È il 24 giugno 1982. Sotto un titolo a tutta pagina ("Corriere della Sera'): «Debutta l'arbitro Casarin, capace di correre più degli azzurri», sta scritto:

«Gli Azzurri, avverte Nando Martellini, passano al secondo turno, senza gloria ma anche senza sconfitte. Omette, tuttavia, di ricordare che passano al secondo turno anche con un sacco di milioni in più sul conto corrente, mentre i giovani ragazzi del Camerun devono rinunciare alla piantagione del cacao che gli era stata promessa se ci avessero eliminato».

Chi piange, «perché non siamo stati eliminati» a vantaggio dei proletari del Camerun, è Antonio Ghirelli. Sì, proprio lui, che al rientro trionfale degli azzurri, lunedì 12 luglio, è stato il regista che, alla TV, ha diretto il coro entusiasta degli strepitosi elogi. Ha pianto. Di commozione e di ammirazione.

Qualche giorno prima le sue lacrime andavano tutte al Camerun.

 

* * *

L'episodio ci ha fatto riprendere in mano la confessione che lo stesso Ghirelli rilasciò, nell'agosto 1958, su "Tempo presente" di Ignazio Silone, a proposito della sua conversione all'anticomunismo. Fa tutto da sé. Ascoltatelo: «Tiepido sovversivo al GUF (Gruppi Universitari Fascisti), divenni anarchico al corso allievi ufficiali, comunista iscritto al partito sotto la vigilante guida di Spano, strappai la tessera quando Togliatti sbarcò alla corte di Re Vittorio; rooseveltiano appena assunto al PWB, tornai staliniano esaltato quando conobbi da vicino i colonnelli americani e le direttive del Foreign Office; redattore de 'I'Unità" di Milano, scappai a "Milano Sera" per sottrarmi allo sguardo severo dell’on. Paietta; pur compagno di strada quando ormai ero avviato alla professione, ma feci la terza domanda di iscrizione il giorno in cui gli yankees sbarcarono a Seul. Ora sono arrivato all'ultima, cioè alla più recente conversione».

Ha fatto di tutto: fascista, americano, comunista, anarchico, anticomunista. Diventa anche grande cerimoniere della stampa presso Pertini. Da lì non se ne va. Viene cacciato. In malo modo. Comunque, si rifà, in continuazione, la faccia. E il vizio non lo perde, anche quando parla e scrive di calcio.

Lo storico Spriano scrive di lui:

«Mostra una tale povertà intellettuale, ostenta una così soddisfatta miseria morale». ("Rinascita", Gennaio 1959).

 

* * *

Basta, torniamo al calcio. E con qualcosa di più pulito, di più limpido.

"Corriere della Sera", 30.6.1982: «È stato un telegramma di poche righe giunto a Barcellona qualche ora prima dell'inizio di Italia-Argentina a fare il miracolo di trasformare la timida nazionale vista all'opera a Vigo in una squadra di leoni? Secondo il Presidente della Federazione Federico Sordillo, non ci sono dubbi: sì, o perlomeno ha contribuito. Il telegramma era arrivato a Sordillo alle 11,30. "L'ho aperto subito, assieme ai tanti altri che mi erano stati consegnati. Diceva: gli azzurri vincitori dei titoli mondiali del 1934 e del 1938 offrono il loro vecchio cuore alla nazionale. Seguivano otto firme di grandi indimenticabili campioni: Foni, Rava, Locatelli, Borei, Ferraris, Piola, Olivieri, Ferrari. Me lo sono messo in tasca e l'ho portato allo Stadio dove, poco prima dell'inizio della partita, l'ho letto alla squadra. Credo, proprio, che sia stato importante, che abbia dato un'altra spinta alla nazionale: che col cuore, oltre che con la tecnica, ha vinto"».

Il vecchio, inesauribile cuore. Se lo dicono e scrivono loro...

 

*   *   *

23 luglio 1982

 

Domenica 27 giugno. I giornali scrivono: «caccia agli assassini di Calvi».

Spadolini, in partenza per Bruxelles, fa le seguenti dichiarazioni: «Oggi, giugno 1982, le vicende allucinanti intorno al caso del Banco Ambrosiano rivelano che l'emergenza morale rimane il primo e il massimo dovere di questo governo e di questa maggioranza. Non ci si può rimproverare un solo attimo di debolezza in questo campo. Mani nette e inflessibile rigore. Non si può battere né l'inflazione né il terrorismo se non riusciamo a battere tutti i fattori che investono e turbano la pubblica opinione nel campo della pubblica moralità.

 

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Parole da sottoscrivere. A piene mani. Però c'è un... però. È che Giovanni Spadolini, Presidente del Consiglio dei ministri a quelle parole, per quanto lo riguarda nella triplice veste di Capo del Governo, di Segretario nazionale del PRI, di cittadino, non fa seguire gli opportuni, indispensabili adempimenti.

Perché, in casa repubblicana, lo scandalo non si chiama Banco Ambrosiano-Calvi, bensì Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, già membro della Segreteria nazionale del PRI, già presidente del Consiglio Regionale sardo, grande patrocinatore dell’intesa DC-PCI, salvo poi buttarla all'aria quando i suoi interessi massonici non coincidevano più con l'operazione; amicissimo di Giovanni Spadolini e di Giorgio La Malfa, tanto da averli al suo fianco nella campagna elettorale per la nomina a Gran Maestro, e al matrimonio del figlio a Cagliari nel dicembre 1981, matrimonio ... raggiunto con l'aereo dello Stato maggiore dell'Esercito.

 

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Armandino Corona. Procediamo con ordine. In una intervista a "L'Espresso" (27.6.82) sul caso Calvi, Corona dichiara di avere incontrato il Presidente dell'Ambrosiano «una ventina di giorni fa, alla vigilia del viaggio del Papa in Inghilterra».

«È venuto a raccontarmi -dichiara Corona- di avere la sensazione di non essere tollerato dal mondo politico, di essere ostacolato dalla Banca d'Italia e dal Ministero del Tesoro. Io -ha continuato Corona- lo avevo conosciuto nell'autunno scorso, quando, appena uscito di prigione, aveva fatto un giro dei partiti ed era venuto anche da me, che non ero ancora il Gran Maestro, ma esponente del PRI».

È estremamente facile aggiustare le cose quando l’interlocutore, che potrebbe precisare e puntualizzare, non è più di questo mondo. Comunque una domanda: ma perché Calvi, in apprensione e in cerca di aiuto, andava proprio da Corona, e guarda caso, proprio alla vigilia della sua elezione a Gran Maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani?

"L'Europeo" (12.7.1982) scrive: «La voce peraltro, e a prima vista assai verosimile, circola da tempo: nel maggio 1982 l'Ufficio vigilanza della Banca d'Italia avrebbe accertato l'esistenza di un prestito da parte del Banco Ambrosiano ad Armando Corona di ottocento milioni. Il prestito sarebbe avvenuto più di un anno fa e non sarebbe stato restituito, neanche in minima parte. A quale titolo furono versati a Corona quei soldi? E che uso ne fece l'attuale Gran Maestro? Un'ipotesi potrebbe esserci. E se fosse stato il pedaggio da pagare all'ala emergente della massoneria italiana? O non era Calvi a ripetere spesso che fuori dalla massoneria i grandi affari sono un'illusione?».

Fin qui "L'Europeo". Ma ci potrebbe essere un'altra ipotesi: che quei soldi siano stati sborsati da Calvi a Corona espressamente a favore della sua, allora in atto, campagna elettorale per l'elezione a Gran Maestro.

Non solo, dunque, Spadolini e La Malfa grandi elettori di Corona, ma Calvi in persona!

Che ne dice il Presidente del Consiglio che, nel conservare la carica di Segretario nazionale dei PRI, volle nell'apposito ufficio della Segreteria nazionale, insieme a Bruno Visentini, Oddo Biasini, Oscar Mammì e Libero Gualtieri, soprattutto Armando Corona, come garante della base di tutto il partito presso il vertice?

 

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C'è di peggio, onorevole Presidente del Consiglio. "il Giornale" (7.7.1982) scrive: «A noi risulta che la sera prima della sua elezione, a segretario, De Mita cenò amabilmente in casa Carboni (Flavio Carboni, latitante, il personaggio in affari con elementi della malavita, l'ultimo che vide Calvi prima della sua morte - N.d.R.), con numerosi commensali. C'erano Calvi, il neo-eletto Gran Maestro della Massoneria del Grande Oriente Corona, Carlo Caracciolo e monsignor Hilarj, nel ruolo, scriverà "l'Unità", di portaparola del potente monsignor Marcinkus».

 

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Si è fatto il nome di Flavio Carboni che ha, non lo si dimentichi, come suo braccio destro quell'Emilio Pellicani (in galera), fratello del Vice Sindaco comunista di Venezia (Gianni Pellicani), gran faccendiere; al punto di accompagnare Armando Corona, in un week end di lusso in Sardegna, costato (al Pellicani) e per due giorni, la bella cifra di dieci milioni di lire. Il Gran Maestro, come si può constatare, non si tratta poi tanto male!

Ma torniamo a Flavio Carboni. Chi è il personaggio che, nello spazio di poco tempo, lo fa diventare il collaboratore primo di Roberto Calvi?

Spadolini non lo sa. Non ha tempo di informarsi, ma fin dal 23 giugno, cioè alle prime notizie della morte di Calvi, sul "Corriere della Sera" si poteva leggere quanto segue:

«Secondo uno dei commissari della Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2, che ha letto il verbale, Pazienza (altro personaggio inquietante, affarista, legato ai servizi segreti del generale piduista Santovito - N.d.R.) ha raccontato di un incontro tra Roberto Calvi, Armando Corona e Flavio Carboni, e che dopo quell'incontro i rapporti tra l'ex-Presidente del Banco Ambrosiano e Carboni si sarebbero rafforzati, tanto che questo ultimo sarebbe divenuto quello che si dice uno stretto collaboratore dello stesso Calvi».

Una domanda: le pratiche di Gelli in che cosa diversificano da quelle del Gran Maestro Corona? Ce lo vuole spiegare Spadolini?

 

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Flavio Carboni, la sua immagine. Fino ad un mese e mezzo fa, persona rispettabilissima. Già membro della segreteria particolare dell'on. democristiano Pitzalis, amicissimo dell'attuale sottosegretario al Tesoro, on. Pisanu, tanto da ospitarlo sul suo straordinario yacht; braccio destro del gruppo editoriale Caracciolo-Scalfari; speculatore di aree fabbricabili legato a Berlusconi; l'uomo che, appena un mese fa (10.6.1982), porta a Roma, sul suo aereo personale, due alti magistrati milanesi: Francesco Consoli e Pasquale Carcasio, aspiranti a due poltrone importanti: procuratore generale e procuratore capo.

È il "Globo" che descrive, minuziosamente, la scena:

«La mattina di giovedì 10 giugno -scrive il "Globo" (9.7.1982)- salgono su un aereo privato, quello di Flavio Carboni, imprenditore sardo, i "consigliori" di Roberto Calvi. A Roma, presente Carboni, i due magistrati hanno una serie di incontri con Armando Corona, nuovo capo della massoneria, e alcuni uomini politici. Lo scopo è quello di caldeggiare le loro candidature».

Poi si viene a sapere che Flavio Carboni era stato processato per assegni a vuoto. Non basta. Carlo Fajella, boss della droga viene ucciso nel 1972. Sotto accusa due personaggi di spicco. Diotallevi e Abbruciati, famosi nel Gotha della malavita. Ebbene il primo era socio di affari con Flavio Carboni, in alcune iniziative edilizie in Sardegna. Un altro di questi suoi soci, Domenico Balducci, fu ucciso l'anno scorso. E Abbruciati è morto dopo avere sparato contro Roberto Rosone, il vice di Calvi all'Ambrosiano.

Questo dunque, caro Presidente del Consiglio, è l'uomo al cui desco erano soliti sedere De Mita, Pisanu, Caracciolo, Scalfari e Armandino Corona, stella di prima grandezza della massoneria e del PRI !!!

 

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Abbiamo parlato dei rapporti tra il gruppo Caracciolo-Scalfari e quello Carboni-Pellicani, a proposito dei quotidiano "La Nuova Sardegna".

Si tratta di sapere chi autorizzò l'operazione perché, contro il volere del Consiglio regionale sardo, "La Nuova Sardegna", dal disastro della SIR di Rovelli, passasse di proprietà del gruppo di Pellicani, portaborse di Carboni.

Anche in questa vicenda, protagonista è Armandino Corona, l'incorruttibile massone, l'amico intimo di Giovanni Spadolini. La storia la racconteremo quest'altra volta.

Ora restiamo in attesa di quello che vorrà fare il Presidente del Consiglio che, proprio dalla vicenda Corona, è chiamato direttamente in causa. Non basta dire: Armandino, da quando è divenuto Gran Maestro, ha lasciato il PRI. Non ci interessa più.

Sarebbe una fuga, una brutta ignominiosa fuga. Coraggio, Signor Presidente. Tutti guardano a Lei. Mani nette e inflessibile rigore. Non ci si può rimproverare un solo atto di debolezza in questo campo. Lo ha scritto Lei. Armandino Corona, se lo ricordi, è il banco di prova di questa sua volontà.

 

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30 luglio 1982

 

La vicenda Calvi, suicidio o omicidio non ha importanza, dimostra, chiaramente, che il potere criminale si è ormai prepotentemente affermato e tratta, da pari a pari, con gli alti poteri dello stato. E se la vicenda Sindona poteva sembrare un fatto eccezionale, quella «Calvi» assurge a norma.

Il potere criminale, non solo dispone di aerei, navi, banche, immobili-rifugio, ma è seduto, fra i grandi, ai vertici della vita politica e finanziaria, dove si riciclano i profitti dei sequestri e della droga. È un vortice di miliardi, di sangue. È il potere politico, giudiziario, finanziario si schiera. È il sorgere delle bande.

 

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«Banditi-giustizieri (la camorra) e "banditi ideologici" (le BR) si ritrovano, insieme, a Napoli, dopo il ventennale black out del fascismo», scrive Giorgio Bocca su "la Repubblica", (21.7.1982).

«La camorra del 1944, come l'attuale, è al tempo stesso -continua Bocca- sovversiva e conservatrice, delinquenziale e para-legalitaria. Allora (1944) lavora insieme al colonnello Poletti, proconsole americano, che si è scelto opportunamente come consigliere d'affari Vito Genovese, un patriota di Cosa Nostra. Sono tempi d'oro, la camorra "alleata" controlla la stazione circumvesuviana di Scafati, il mercato ortofrutticolo, la Shangai street vicina al porto; ma neppure oggi 1982, le cose vanno poi tanto male, la pioggia di miliardi del dopo terremoto cade in gran parte nelle casse della "famiglia" vecchia o nuova che sia e spiega le sanguinose lotte per la spartizione»

È una analisi esatta. Il partigiano, l'antifascista purissimo, il democratico Giorgio bocca la fa in modo spietato. Quell'analisi ha solo un difetto: di essere tardiva e di non andare alle origini, alle cause.

Modestamente, è da anni, che affermiamo che la Repubblica italiana non ha nulla a che fare con gli sbandierati «valori» della resistenza. Solo Sandro Pertini può crederci. La Repubblica italiana è figlia della mafia. Lo sbarco alleato del luglio 1943, in Sicilia, è protetto dal gangsterismo americano di stampo mafioso, in testa Salvatore Lucania (in arte Lucky Luciano) ergastolano, e quando l'avanzata investe Napoli è alla camorra che si ricorre; è a Vito Genovese di Cosa Nostra che si chiede consiglio.

L'Italia 1982 è questa. E non altra. E il peggio deve ancora venire.

 

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Bestemmio? E quando mai? Chi se non «questa» Repubblica, va nel carcere di Ascoli Piceno a chiedere consiglio al camorrista Cutolo, onde trovare il modo di liberare il democristiano Ciro Cirillo, prigioniero delle BR?

Chi se non «questa» Repubblica sborsa, sia al camorrista Cutolo, sia al brigatista Senzani, fior di miliardi del contribuente italiano, onde riavere, sano e salvo, l'assessore Cirillo?

Perché tante lamentele sulla alleanza BR-camorra? Il potere criminale è nel Palazzo, è nei Servizi di Informazione, è nella magistratura, è nelle banche, è dovunque. Tratta: da Sovrano a Sovrano.

 

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«L'emergenza morale è la prima direttiva del Governo», dichiara Giovanni Spadolini.

Benissimo, ma partiamo con il piede giusto. E Spadolini -glielo abbiamo già cortesemente riferito- deve iniziare a bonificare la casa repubblicana. A cominciare dal potere massonico di Armando Corona, per il quale si è tanto battuto, e dal quale, nei pochi mesi vissuti da Gran Maestro, non ha avuto esempi di vita edificanti.

Le carriere folgoranti. Sono una caratteristica essenziale di questa Repubblica.

Flavio Carboni, socio in affari con la malavita, ma nel contempo, del Principe Carlo Caraccíolo (editore di "la Repubblica"), di Silvio Berlusconi (editore de "il Giornale"), amico di Ciriaco De Mita e del repubblicano Gran Maestro Armando Corona; Flavio Carboni è un uomo, è stato scritto, «da sessanta miliardi», messi su in cinque anni.

Non contestiamo la libertà di fare i miliardi, buttandosi in politica, in pochi anni. Per carità! Solo ci dovrebbe essere un dovere tassativo: quando si fanno i miliardi, specie velocemente, per sé e per i potenti di cui si è portaborse, si deve dichiarare la ricetta, grazie alla quale, siamo divenuti miliardari. Altrimenti il... gioco non torna.

 

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Si è parlato di carriere sfolgoranti. Francesco Lisi, giornalista parlamentare. Anni fa la sua agenzia si batteva per due «grossi» personaggi dell'ENI: Di Donna Leonardo e Mazzanti Giorgio. Nel contempo non disdegnava vive simpatie per Arnaldo Forlani.

A Montecitorio non si vede più. Però si consola con una villa sull'Appia antica, con piscina (olimpica) e tutti i comfort. E a Fiumicino tiene una barca (si fa per dire) con venti posti letto.

Siamo felicissimi di fortune così rapide, ma la ricetta, la ricetta dove sta?

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«La mafia è un vero e proprio potere istituzionalizzato che opera sul fronte delle attività lecite e su quello delle attività illecite, si muove dall'edilizia al traffico di droga. Tende a mantenere in vita questo Stato e a inserirsi sempre di più nei suoi gangli vitali per usarlo per i suoi fini. È impossibile combattere la mafia con il solo strumento giudiziario. È necessaria una decisione politica, ma invano. I documenti giudiziari rivelano volontà politiche di segno contrario. Un esempio? Ricordo un gruppo di mafiosi, che avevo posto sotto controllo per traffico di droga, telefonavano con frequenza alla Segreteria di un importante uomo politico democristiano». (Ferdinando Imposimato, giudice Istruttore del Tribunale di Roma, "l'Europeo", 31.5, pag. 14)

 

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Secondo Calvi (ancora in vita), per sistemare la situazione economico-giudiziaria sua e del gruppo "Rizzoli-Corriere della Sera", occorrevano cinquanta miliardi di tangenti.

È finito, impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri di Londra. Si vede non bastavano.

 

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«È questo ordito, questa qualità dei personaggi, questo retroscena di uomini e cose, il vero maggiore scandalo italiano. Ormai tra l'antropologia del potere camorrista e un tantino palazzinaro di qualunque Città del Mezzogiorno e l'antropologia del potere politico economico nazionale, fatte poche eccezioni, non esiste più alcuna differenza. Prima che la corruzione, sono le facce, i modi, le educazioni, il gusto, le biografie ad essere uguali». (Ernesto Galli della Loggia, "l’Europeo", 12.7.1982, pagina 5).

«Questo cocktail di mestatori, di affaristi, di politici e di furfanti di ogni tipo che ormai rappresenta tanta parte del potere italiano e che è responsabile della degradazione senza fondo della nostra vita pubblica, non è nato dal nulla però e neppure si regge in piedi per forza propria. Esso è nato e si regge grazie al "sistema dei partiti", grazie all'esistenza di queste mostruose macchine di procacciamento di influenze, di soldi e di favori che sono i partiti, prima e più di ogni altro i partiti di governo. È nelle anticamere e nelle Segreterie dei partiti che convergono e si annodano i mille fili degli scandali italiani, ed è qui che bisogna reciderli». (Ernesto Galli della Loggia, "l'Europeo", 12.7.1982)

A scrivere le su riferite considerazioni non è un «fascista». È il prof. Ernesto Galli della Loggia, un antifascista, un intellettuale democratico, professore di ruolo nell'Università di Perugia, i suoi Editori preferiti: Einaudi, Feltrinelli, il Mulino.

 

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Criminalità e potere politico: un tutto unico. Lo aveva capito perfino Pertini («il posto di alcuni uomini politici dovrebbe essere in galera»), poi lo va a smentire! E dire che una volta tanto l'aveva azzeccata!

Dunque, «gli assassini sono tra noi, ma non in mezzo a noi: sono sopra, negli ingranaggi più delicati dello Stato».

Lo scrive Galli Ernesto della Loggia.

Indice 1982