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"Secolo d'Italia", 14 giugno 1977


Amendola, la mafia e il sistema
Ma quale «crescita»?

Beppe Niccolai


«Quando sento parlare Amendola della carne, del consumo della carne, e che mai se ne è consumata tanto in Italia, mi par certo che hanno perduto il senso della realtà. Le domande mi si affollano: da quanti anni Amendola non viaggia in autobus o nella seconda classe di un treno? Ha mal parlato con un emigrante di ritorno dalla Francia o dalla Germania? Con dei vecchi pensionati? Con dei giovani? Con dei disoccupati? Con dei contadini che stanno ancora sulla terra? È mai entrato in una scuola, in un ospedale, in un manicomio, in un carcere? Sa quello che un giovane deve fare per avere un posto? Conosce il calvario di un malato che vuole veramente essere curato? Sa qualcosa dell'amministrazione della giustizia? Ha almeno il sospetto del volume delle evasioni fiscali, del denaro portato nelle banche svizzere, di quello rubato e sperperato? Forse no: come un quaresimalista del Seicento parlava dell'Inferno della carne, lui da anni parla del paradiso della carne, che sarebbe l'Italia. E mai tanta carne. Forse troppa, l'una e l'altra. Ci vuole un po' di austerità. E se il «Culturame» vuole proprio dire qualcosa, che lo dica in questo senso: o sarà bollato di disfattismo, di viltà»
(Leonardo Sciascia, "la Stampa", 9-6-77).

Era fatale che il mondo politico antifascista arrivasse all'appuntamento a cui è giunto, grazie a Giorgio Amendola che di quel mondo è espressione più che politica, morale; direi di carattere. Amendola, a diversità dei Leo Valiani e dei La Malfa, che sono, per la loro provenienza agonistica, dei cerebrali cattivi, è tipo sanguigno; al carattere e all'intelligenza, associa generosità, slancio umano, la forza rara, in tempi di così totalitaria intolleranza, di riconoscere le ragioni degli altri. È lui, più di ogni altro, che dell'esperienza fascista ha saputo dare versioni non faziose; riconoscere verità dogmaticamente negate; proprio lui che di quell'esperienza, a diversità dì tanti censori, porta nella carne e nell'anima segni dolorosi.
Ora esplode il suo caso. Clamorosamente. Ma perché il suo caso scuote, tanto prepotentemente, il variopinto mondo politico Italiano? Perché da quelle considerazioni amendoliane che hanno avuto il pregio di andare a frugare nel «passato» di tutti, onde capire il comportamento di oggi, siamo stati scossi come non mai?
Coraggio, disfattismo, doppio gioco: sono I temi sui quali è esploso il confronto Amendola-Sciascia. I protagonisti sono loro. Gli altri (eccetto Montale che, a diversità di quanto afferma Amendola, ha confermato le proprie dichiarazioni) sono dei comprimari.
«Speravo che dopo la Resistenza il vecchio costume del doppio gioco (chiamiamolo in termini più brutali e meno dotti di nicodemismo) fosse scomparso», scrive Giorgio Amendola ("l'Unità", 12 giugno 1977).
Ci è consentito dire la nostra? Ce ne rendiamo conto: ciò che scriveremo farà saltare su le vestali dell'antifascismo. Non possiamo farci nulla. Il nostro tentativo è di contribuire a chiarire il perché, per dirla con gli antifascisti più illuminati, siamo giunti «a dover stabilire delle linee di difesa della democrazia» (Amendola, "l'Unità", 12-6-77); al ricercare il coraggio «per combattere l'anti-Stato che spara, uccide, violenta» (Trombadori, "il Corriere della Sera", 11-6-77); al dichiarare che «lo Stato è stato sconfitto... che questa sconfitta viene da lontano... che i mass-media, come la Televisione, fanno una continua apologia di reato distruggendo tutti i valori tradizionali» (Montale, il Corriere della Sera 5-5-77); al dichiarare la «propria assoluta indisponibilità a un qualsiasi fischio per la sopravvivenza di questo regime» (Sciascia, "Corriere della Sera", 12 maggio 1977); all'ammettere che «è impossibile che la fine della prima Repubblica possa essere evitata» (Norberto Bobbio, "Corriere della Sera", 2-6-77).
Risponde Amendola: «questo è disfattismo, è l'antico vizio italico del doppio gioco, fiorentissimo durante il ventennio, specie fra gli intellettuali per cui si rendeva omaggio al regime fascista riservando alla propria esclusiva coscienza le intime credenze di libertà». «Credevo che tutto fosse scomparso con la Resistenza», continua Amendola, «ed invece…».
Come mai? È l'interrogatorio che tormenta.
Perchè la Resistenza, piaccia o no, non è stata una rivoluzione, ma una restaurazione. Non voglio (e il discorso sarebbe lungo) affrontare il tema delle responsabilità della restaurazione in ordine alla cosiddetta svolta togliattiana di Salerno nel 1944.
Voglio stare terra terra e dare una risposta più legata al «costume» che alla politica e alla storia.
L'epurazione. Con quali criteri venne affrontata? E come si concluse?
Al ritmo del doppio gioco. Fu sufficiente alle alte gerarchie dello Stato, di poter vantare di aver fatto in guerra (e in pace) il doppio gioco per essere salve; non solo, ma di essere reintegrate e promosse nei loro ranghi dirigenziali.
Fu il trionfo del doppio gioco. Se la Resistenza fosse stata, non dico rivoluzione, ma semplicemente un moto di rinnovamento, avrebbe dovuto capovolgere i criteri per cui premiò coloro che ai soldati italiani dettero scarpe di cartone e armi antiquate.
«La guerra era sbagliata. D'accordo. Ma voi siete doppiamente traditori (doppiogiochisti). Ed io, antifascismo, vi punisco, soprattutto per una ragione morale. Per quel doppio gioco per cui dovrebbero pagare soldati, marinai, avieri... Non posso darvi la mia stima. Chi si è inchinato dinanzi a due bandiere non ne stime alcuna e non ne può onorare nessuna».
Questo discorso l'antifascismo non fu capace di farlo. E i doppiogiochisti dilagarono nelle maglie dello Stato. Fu premiato Badoglio, fu messo alla fame l'ultimo milite.
Le conseguenze? Sono sotto gli occhi di tutti.
Da allora quel metodo di «fare politica» è forse mutato? No. anzi.
Il 25 aprile 1945 fu proclamato che se per venti anni la tessera di partito era stata condizione di vita per tanti italiani, d'ora in avanti la tessera di partito sarebbe stata soltanto un caso di coscienza personale.
È stato così? Basta guardarsi intorno. Spesso, per lavorare, non basta avere una tessera. Ce ne vogliono due. Non vanno avanti i meritevoli. Vanno avanti gli ammanigliati. Governi la DC o il PCI, non cambia: la musica è la stessa.
Scrive Amendola che, malgrado tutto, c'è crescita, c'è maturazione democratica.
Quale? Quella forse per cui, grazie al «sistema» uomini di vertice dello Stato, addirittura Presidenti di Consiglio, per il gioco delle correnti (vere e proprie mafie), risultano protettori in Sicilia dì personaggi legati alla mafia e al contrabbando? La vicenda Andreotti-Lima è crescita democratica?
È crescita democratica quella per cui il PCI esonera Licausi dal Parlamento, per emarginarlo da quella Commissione Antimafia che, grazie al compromesso storico, doveva finire i suoi giorni con una relazione (quella del PCI) all'acqua di rose, onde compiacere la DC?
È crescita democratica l'accordo DC-PCI sul terreno della mafia (mafia: cardine del potere politico in Italia) per poi spartirsi a due il potere in Sicilia, in attesa di spartirselo su tutta l'area della Nazione?
Come può il «blocco storico» proposto dal PCI portare fuori il Paese dalla disgregazione e dal terrorismo quando i mattoni per metterlo su sono impastati di mafia, di sangue e di corruzione?
E non è proprio assistendo a queste miserevoli vicende che i ragazzi sono diventati degli arrabbiati, degli estremisti, dei terroristi?
E non è proprio dal «sistema» che genera corruzione, disgregazione, inflazione, disperazione, estremismo che l'Italia «giovane» del 1945, vinta ma non piegata allora, ha, via via, perso l'amore alla vita, al lavoro, e quindi coraggio?
Ora si chiede la mobilitazione del cittadino a difesa delle «istituzioni democratiche».
Le istituzioni non sono democratiche, sono solo impotenti. Ed è l'impotenza delle istituzioni che non consente allo Stato di controllare i servizi segreti degli altri Stati che la fanno da padroni in casa nostra; è l'impotenza delle istituzioni che emargina l'Italia nel contesto internazionale come Paese non credibile; è l'impotenza delle istituzioni che fa sì che oligarchie corrotte governino e, in quanto corrotte, incapaci di programmare, di riformare, di arginare lo strapotere degli Enti e dei monopoli.
È l'impotenza delle istituzioni a dare forza al terrorismo. Terrorismo e impotenza delle istituzioni si alimentano a vicenda. Mutuo rapporto. Perché l'uomo della strada propenda, nel suo elementare buon senso, a preferire dei ladri a degli assassini; non arrivando a capire che gli assassini, proprio per la debolezza delle istituzioni, sono frutto del sistema.
Chi ha fatto diventare «disfattisti» tanti Italiani, se non un sistema gestito in modo tale da dare a taluni privilegiati burocrati di Stato 100 milioni l'anno e pretendere che la maggioranza dei pensionati possa vivere con 70 mila lire mensili?
Non crescita democratica, crescita squilibrata, ingiusta. L'appello alla Resistenza non serve. Scriveva Alfonso Gatto nel marzo 1968:
«Io credo che il nostro dovere non è di presentare ai nostri giovani i nostri meriti, le nostre benemerenze e le nostre ideologie. Dobbiamo dargli il nostro esempio. Dobbiamo permettergli di verificare, per esempio, se la Resistenza ci ha modificati davvero nel profondo. Perché la Resistenza è stata certo un atteggiamento nobilissimo, dal quale tuttavia possiamo essere usciti canaglie, carogne come prima».
Dobbiamo dare l'esempio, diceva nel 1968 il poeta marxista Alfonso Gatto. Ecco il punto. Le crescite democratiche sì misurano male. Restiamo nell'ambito delle parole. Le parole, come la trentennale polemica con il «ventennio» che non c'è più, non ci salvano. Masturbazioni invereconde. Quello che conta e che vale e che occorre, sono gli esempi e le opere.
Ecco, sulle opere ci si può misurare, si può riprendere coraggio. Ma dove sono queste opere? Negli Italiani che ancora fanno il loro dovere certo sì, ma nei partiti di regime, che pretendono di rappresentarli, certo no.

Giuseppe Niccolai

Inviato da Andrea Biscàro - http://www.ricercando.info