"Secolo d'Italia", 2 agosto 1977
Il «caso Pajetta» insegna
Come si uccide la libertà
Beppe Niccolai
Giancarlo Pajetta. Confesso: è un avversario che stimo. Per la sua carica umana
più che politica. Tanti, tanti anni fa, nel Polesine invaso dalle acque del Po,
capitò su una barca pilotata da giovani del MSI, accorsi nella zona devastata a
prestare aiuto a quelle popolazioni. Ne uscì un articolo di fondo su "l'Unità"
con queste testuali parole:
«Mi vengono in mente i giovani missini di Rovigo: li ho visti cercare del
sindaco nostro e chiedergli un aiuto e poi spingere una barca in acqua per
andare a vedere se si poteva salvare qualcuno. Vicino vi erano i nostri giovani
e gli altri. Che cosa è la Patria? Quelle case nell'acqua e quei giovani che
rischiano la vita. E se si salva un maialetto, un materasso, anche quelli sono
la Patria e se arrivano gli operai di Modena o gli studenti di Venezia o i
pescatori d'Iseo e di Ravenna è sempre la Patria. Non è un idillio la Patria».
C'è di Pajetta una definizione della politica da condividere, specie da parte di
coloro che, indipendentemente dalle idee professate, hanno sofferto per le
proprie convinzioni: «La politica è quella cosa per cui uno si occupa dei guai
degli altri come se fossero propri, e a volte ne muore». In lui, nella sua
formazione umana, elemento determinante fu la madre, una madre che insegnò ai
figli a scegliere ciò che sembrava giusto e non ciò che era comodo, una madre
che ragionava in questo modo: «Noi siamo fatti così e il periodo in cui siamo
nati è diverso da noi. Ma dobbiamo fare questa parte e non c'è scelta». Il che
filava con il ragionamento crociano, valido sotto tutti i regimi, per cui
importante non è camminare dove la storia va, o sembra andare, ma dove la
propria coscienza detta e comanda.
Detto questo, e dato a Pajetta quel che è di Paletta, veniamo alla trasmissione
dell'altra sera; direttore d'orchestra Enzo Biagi, il tema: la repressione in
Italia.
Pajetta, con il più servizievole consenso di Biagi ha fatto la parte del
mattatore. Ma quanto mutato da quello!
Indubbiamente nella parte che la vita ha destinata a ciascuno di noi gioca un
destino cinico e baro che sta, spesso, fra il drammatico e il comico. Pajetta ci
ha messo tutta una vita a costruirsi il ruolo di «oppositore», di vindice dei
torti altrui, dell'uomo chi sa mettersi, per temperamento, quasi per istinto
dalla parie perdente, contro i potenti. Ed ecco che questa parte, che per
costruirsela gli è costato sofferenze dure, rischia di giocarsela. In pochi
minuti, davanti a milioni d'italiani che, abituati a gustarselo come il
castigamatti della viscida politica democristiana, non riescono proprio a
digerirlo nel ruolo di colui che, imperante il clima del compromesso storico,
viene ad usare le proprie tradizionali e taglienti battute per difendere quello
che, per tutta la sua vita, ha sempre odiato e combattuto: il trasformismo,
soprattutto quello democristiano. E tanta è la foga nella difesa che il
democristiano Bodrato non ha alcun bisogno di aggiungere parole di difesa nei
riguardi della DC. A tutto pensa Paletta!
Povero Pajetta! Che scherzo da prete! Nelle parti, pensate, di pubblico
ministero del regime democristiano!
E nella foga della difesa anche la lucidità dell'uomo si perde. E vengono giù
affermazioni talmente affrettate, talmente sbilanciate, da far sorridere, sì va
detto, di pena.
Ascoltarlo diventa una sofferenza. Come quando, ricordando che quello «dei GAP
era un altro sparare», ha affermato che i comunisti nel loro comportarsi «non
hanno mai rotto un vetro».
No, onorevole Pajetta, questo è falso. Perché Guerrino Costi, dirigente
comunista del reggino, i vetri della finestra che dava nell'osteria del Vezzosi
di Colombaia di Carpineti li ruppe nella notte fra il sabato e la domenica del
26 marzo 1955. Li ruppe a tal punto che, con diverse fucilate, uccise due
contadini e ne ferì altri due, perché colpevoli di festeggiare la vittoria
riportata dai coltivatori diretti nell'elezione per le mutue. Pajetta non si è
fermato qui. Con fare inquisitoriale ha chiesto all'avv. Cappelli, arrestato per
avere assunto la difesa dei terroristi, se lui «i criminali che difendeva li
riteneva colpevoli o no», come per dire che quella gente non andava difesa.
Dimenticando con ciò che il PCI, in più occasioni, i criminali in quanto tali,
non solo li aveva difesi, ma addirittura esaltati. E, con questo, non intendo
riferirmi ai tempi dei GAP, ai tempi della guerra civile, ne a quelli del
pluriomicida on. Modanino, già sottosegretario di Stato della Repubblica
Italiana nel 1947. Mi riferisco a tempi più... sereni, al marzo 1955, quando i
comunisti di Reggio Emilia accoglievano festanti alla stazione Germano
Niccolini, già Sindaco di Correggio, per ricondurlo, con una rombante staffetta
di motociclette e un corteo di macchine imbandierate di rosso ed infiorate, al
Paese dal quale era uscito con le manette ai polsi.
Che aveva fatto Germano Niccolini? Aveva rotto delle vetrine? Qualcosa di più.
Quattro Corti giudiziarie lo avevano giudicato ritenendolo tutte responsabile
dell'assassinio di Don Pessina, parroco di San Martino Piccolo, ucciso con una
raffica di mitra, davanti la sua parrocchia, la sera del 18 giugno 1946.
Il giornale dell'Azione cattolica, il "Quotidiano", davanti alla manifestazione
di Reggio Emilia, così commentava l'episodio:
«Sicché l'assassino è potuto momentaneamente uscire di carcere, scendere
acclamato alla stazione di Reggio Emilia e rientrare in trionfo a Correggio con
la tragica allegoria di questo carnevale comunista che offende la coscienza
degli onesti e il senso di giustizia di tutto il Paese. tutto questo è potuto
avvenire, proseguiva il giornale dell'Azione cattolica, senza che neppure un
gesto di ammonimento o un invito di moderazione giungesse da parte di nessuno,
senza che la sfida sfacciata e insolente alla maestà della legge, al prestigio
dei poteri costituiti, alle autorità dello Stato, abbia incontrato né sanzioni
né richiami».
Perché ricordo queste cose? Per buttare sale nella piaga aperta degli odii, dei
rancori, dei razzismi politici che ancora avvelena la vita del nostro Paese?
Per dire, come fanno sistematicamente i comunisti nei riguardi dei loro
avversari, che per quelle vicende di cui sopra, e delle quali furono
protagonisti dei comunisti, tutto il PCI è ricolmo di assassini?
No. Non argomento in tal modo. Ne sentirei vergogna.
Dico solo che se terrorismo e repressione ancora prosperano ciò è dovuto proprio
al clima da guerra civile che ancora si tiene a bagnomaria nel nostro Paese. In
testa la televisione di Stato che, con gli Enzo Biagi, continua a martellare il
principio per cui se «tutto è lecito verso colui che è stato definito fascista»,
ciò non è più consentito se la violenza viene ad esercitarsi contro chi del
regime fa parte e della libertà ha il patentino d'esercizio.
No, non è così che si esce dal terrorismo. Dal terrorismo si uscirà il giorno in
cui le forze politiche, in testa l'informazione, riconosceranno a tutti,
qualunque idea essi professino, la qualità di uomo che è la qualità «religiosa»
per eccellenza.
È l'etichetta, che all'uomo si dà, che uccide le libertà. E la uccide ricorrendo
al razzismo. Si tratti di pelle e di idea professata fa lo stesso.
Giuseppe Niccolai
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