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"L'Eco della Versilia", 31 dicembre 1984

 

Segnali di vita
XIV Congresso Nazionale MSI-DN - Roma

 

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la Premessa

Aprire un dialogo

Giuseppe Niccolai

 

La chiave di lettura di queste mie note: se esse apparissero (e credo di no) dure verso la classe dirigente del partito, ricordo che sono anch'io classe dirigente e che, al pari degli altri, porto le responsabilità di ciò che, nel bene e nel male, è stato fatto. Peccatore primo, se peccatori ci sono.

Il 5 febbraio 1977, Armando Plebe, in una intervista a Giampaolo Pansa del "Corriere della Sera", alla domanda che cosa poteva dire dell'esperienza vissuta nel MSI quale responsabile del settore cultura, cosi risponde:


«... mi dettero assoluta carta bianca. Nel MSI c'era un'attesa messianica dell'arrivo della cultura. E il mio arrivo è stato l'arrivo della cultura con la "C" maiuscola, e di fatto mi hanno trattato con i guanti. Io ho provato a vedere che tipo di cultura si poteva mettere in piedi a destra. Facevo dei tentativi, erano acrobazie; di intellettuali non se ne raccattava nemmeno uno».


È una testimonianza che provoca sofferenza, ma sarebbe un errore rimuoverla, ricorrendo alla frettolosa analisi di un transfuga. Facciamo una prima constatazione che è rivolta soprattutto a coloro che, come me, negli anni verdi, hanno conosciuto il MSI dei primi tempi, quando, in quell'ambiente, non mancavano certo le biblioteche.
C'erano i libri e l'indottrinamento di Evola, ma anche quelli di Giovanni Gentile. C'era sullo sfondo il contrastante lascito poetico di D'Annunzio e di Marinetti, la pittura di Soffici e Sironi; il teatro di Pirandello, la musica di Mascagni; i lauri accademici di Guglielmo Marconi; l'impronta delle grandi riviste fiorentine del primo '900 con il vivace ingegno di Papini, la seminagione di Pareto, di Sorel, di Rensi, di Spengler; poi la riscoperta dei francesi da Peguy, a Barres, a Maurras, a Drieu La Rochelle. C'erano, vivi, accanto a noi, Carlo Costamagna, Gioacchino Volpe, un linguista come Antonino Pagliaro; c'erano Leo Longanesi, Giuseppe Prezzolini. Ricordo almeno tre Rettori di Università impegnati in manifestazioni di destra: De Francisci, Papi, Menotti De Francesco.
Potrei continuare a snocciolare nomi che valgono quanto e più di Armando Plebe; eppure quell'affermazione del filosofo marxista, che sostiene di aver portato a destra la cultura, non è solo frutto della sua vanità.

 

È doveroso ammetterlo, in un altrettanto generoso esame di coscienza collettivo: siamo stati tutti responsabili di aver fatto credere ad Armando Plebe che solo lui, stregone bianco, era stato capace di portare la cultura nella nostra tribù. Perché?
Perché, nel defluire del tempo, ci era venuta a mancare la capacità di trasmettere alle generazioni più giovani la creatività dei personaggi che, sommariamente, ho citato e che, allora, riempivano le nostre menti, affollandole; nutrivano i nostri studi.


* * *
Dobbiamo dircelo con aperta serena durezza: le analisi che scavano nel profondo sono quelle che poi consentono di rialzarci e di camminare spediti. Non abbiamo saputo valorizzare, stimolare, sorreggere le intelligenze che possedevamo. E si sono disperse. E disperse in una diaspora dolorosa; era fatale che ci dovesse capitare di essere indottrinati da un brillante ma sostanzialmente modesto pensatore radical-marxista.
L'avere, non dico dissipato, ma certo trascurato questo patrimonio culturale inestimabile, non poteva non riversarsi, con effetti non felici, sul politico.


* * *
L'orgogliosa, spavalda nostra affermazione: siamo la opposizione, siamo l'alternativa, siamo diversi. Può reggere alla prova se non viene, costantemente, nutrita da un disegno culturale? Da quale cuore culturale pompa sangue il MSI?
La cultura dell'opposizione. Che non è, badate bene, cultura dell'isolamento, anzi.


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L'apertura nel dialogo culturale è una delle condizioni per cui l'intransigenza nell'opposizione può essere mantenuta senza che questa significhi autoghettizzazione, perdita di contatto con la realtà, sindrome da isolamento.
Una cosa sono le smanie di inserimento politico che portano ad annacquare il rigore della opposizione ed a camuffare gli stessi ideali che sono la ragione di esistenza del partito; altra la esigenza di collegarci culturalmente con il mondo esterno, non solo per influirvi e trarne nuove occasioni di reclutamento, ma anche per capirlo meglio, per farsi meglio capire e crearsi un habitat più civile di confronto con gli altri.


Ma guai a quella comunità politica che diventa indifferente alla propria cultura fondante, alle sue radici concettuali, per prediligere l'arruolamento di qualche "immaginifico" di passaggio. Si casca nella propaganda, nella rappresentazione, nell'effimero, non nel duraturo.


Sbaglio se affermo che il 26 dicembre 1976 (l'anno della scissione) deve essere spiegato anche cosi?


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Questo XIV Congresso, che tutti noi abbiamo voluto unitario, che deve essere unitario -e che sarà unitario se usciremo di qui migliori- non può non essere, per la sua stessa natura, di incontro straordinario (e vorrei dire festante) della nostra comunità, il Congresso della memoria storica, della nostra memoria-radici.
La rivisitazione puntuale delle "stazioni" dove, proprio alla luce del disegno culturale che ci fa comunità, si sono registrate cadute, debolezze, perdita di tensione, appannamento dell'immagine.


Questa non è macerazione inutile, debilitante, frustrante.


È questo della "rivisitazione storica", in un Congresso, la parte più bella. Tutto il resto è gioco, rituale spesso non limpido. Ma il ricordare «perché stiamo insieme» appartiene alla sfera religiosa, i nostri "intellettuali" direbbero, è una questione meta-politica.


È la memoria storica che ci tiene insieme. Fateci caso: coloro che perdono la memoria di sé, la memoria delle proprie radici, si dissolvono: come comunità, come popolo. Non riescono più a stare insieme. Perché non hanno più nulla in comune. Non sanno più cosa dirsi. Parlano lingue morte.
I dissidenti russi, al riguardo, ci dicono cose definitive. Sono dei maestri
.


Perché i polacchi, nella sofferenza, restano insieme? Perché conservano la propria memoria storica. Una comunità quella che non ha paura dell'idea della morte perché ha trovato le ragioni della vita "insieme"; soffrendo "insieme".


È questa "tensione" dello stare insieme, perché nutriti dalle stesse radici, che deve -per quanto ci riguarda- farci compiere il miracolo «di saper stare insieme», ahimé, in un Occidente dove l'amnesia di sé, e della storia, predicate come elisir di nuova vita, portano alla dissoluzione di tutto.


Soffermiamoci a questa prima stazione della nostra passione politica per dire e dirci: guadagniamoci ogni giorno, difendendola con i denti, la propria identità storica, culturale, politica. Sulle radici fondanti, identificanti: aprire nel partito, il più arioso dei dibattiti e dei confronti. E ci sia posto anche per l'eresia se ciò arricchisce il dibattito, se ciò serve a raggiungere posizioni più alte.


La vera dignità dell'uomo è il pensiero, non nel sacrificarlo.


Ho parlato di dibattito, di confronto, di eresia, di raggiungimento di punti più alti nel nostro pensiero. Perché, nel partito, sull'identità che ci fa comunità, c'è ancora molto da soffrire. Non tutti siamo d'accordo sulle direzioni da prendere in ordine alla nostra concezione della vita e del mondo, che è il sestante della politica.


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La seconda "stazione" della nostra passione è: prima viene lo Stato e dopo la Nazione, o prima la Nazione e dopo lo Stato?
Sembra un bisticcio. Non è cosa da poco. È una grande cosa. È una cosa enorme.
Aver sistemato il sestante in una certa direzione ha influenzato tutta la nostra vita di partito. Ci ha caratterizzati, con conseguenze che hanno avuto effetti decisivi sulla nostra immagine, sul concreto specifico MSI.
Stato e Nazione: prima l'uno e dopo l'altra, o viceversa? Seguendo questa linea si potrebbe scrivere la nostra storia: 1946 - 1984.
La mia modesta riflessione dinanzi a questo grande e definitivo problema (definitivo per ricostruire negli anni '80 la nostra immagine) susciterà polemiche (le ho già suscitate), ma è questa: ammiro Giovanni Gentile, mi inginocchio davanti alle sue ceneri, mi commuovo fino alle lacrime quando leggo nel suo "Sommario della pedagogia":


«... un uomo è vero uomo se è martire delle sue idee: non solo le confessa, ma le attesta, le prova, le realizza».


La parola parlata e la parola scritta. Ma la sua concezione dello Stato (non è la nazionalità che crea lo Stato, ma lo Stato crea, suggella e fa essere la Nazione) è stata, ed è, fonte di equivoci.
L'oltranzismo statalista, che è stata una nostra costante linea di azione, è stata, per me, una linea fuorviante.
L'ordine statuale non ha senso, se non si realizza intorno a dei valori. Le strutture burocratiche dello Stato possono interpretare i valori perenni della Nazione, ma possono anche travolgerli, addirittura massacrarli.


Lo Stato che abbiamo dinanzi interpreta i valori nazionali e popolari della Patria? I meridionali, gli italiani dell'altra Italia, si sentono Nazione dinanzi a questo Stato, o si sentono oppressi nella loro anima nazionale?


Cosa ci insegna la nostra esperienza storica?
A tenere separati i valori permanenti, essenziali della Nazione e gli strumenti burocratico-amministrativi dello Stato; l'intelaiatura statuale che può rispondere all'anima della stirpe, la può interpretare, servire, ma può anche opprimerla, tradirla.
Sono i fatti che ci inducono a dedicare maggiori attenzioni al "dato comunitario" della Società e della cultura, rispetto a quelle assorbenti che la vecchia destra ha sinora riservato alle strutture amministrative e politiche dello Stato, ai suoi organi elettivi, alle sue Questure, alle Prefetture, ai Tribunali.


Non è vero che il dato Nazione sia semplicemente naturalistico, e che solo lo Stato sia in condizione di soffiarvi dentro l'alito divino della volontà e dello spirito.
Nel deserto delle strutture statuali, l'anima nazionale ha costruito le sue flotte e le sue cattedrali; la Torre veneta a Salonicco, la Torre dei genovesi a Costantinopoli, la sua potenza religiosa, economica, commerciale; ha scritto i suoi poemi; ha riempito il Paese di castelli, di municipi, di statue, di quadri; ha fatto le sue scoperte e ha trasmesso nei secoli, da Dante a Petrarca a Machiavelli a Leopardi, una certa idea dell'Italia.
Questa non è solo natura, materia bruta da destare alla vita dello spirito da Palazzo Chigi e Montecitorio attraverso un centinaio di Questure e di Prefetture.


Non vi sono dubbi: questo Stato non ha significanza. Il quarantennio "democratico": una lunga atona vacanza dalla storia. Lo Stato non dice più nulla, non produce più niente. Non indica nemmeno i contorni di alcun destino. Non ha senso. Non fornisce le ragioni di vita, ma tutt'al più mezzi di sussistenza.
Per lo Stato, una perdita di significanza totale: uccisa, con la memoria storica, l'identità nazionale, a questa perdita nulla si sostituisce: non l'Europa, non la classe, non la rivoluzione.


Il Paese approda alle sponde del Nulla.


Il segno di ciò che accade è il terrorismo. Ci siamo ammazzati vicendevolmente come degli sconosciuti, estranei gli uni agli altri. Alienazione reciproca. Non sappiamo più chi siamo. Ogni vincolo dissolto.


È una analisi errata? Eretica? La tesi che sostengo è quella giusta? Per carità, chiedo solo, prima di bruciarmi come eretico: vogliamo confrontarci? Può questo dibattito continuare nel partito?


È la DC la figura storica di questo Stato: il partito delle Istituzioni, il partito-Stato.
Il carattere legittimante della sua figura politica, per cui la DC, in Italia, è garante delle Istituzioni, si ha con l'espulsione della questione nazionale (la Nazione è la cattiva memoria, la Nazione ha risonanze antidemocratiche) e con l'immergersi nell'oblio dell'occidentalità, una figura politica e morale del tutto estranea alle tradizioni nazionali. È un passaggio, una frattura, non solo a livello delle Istituzioni politiche, ma a livello profondo degli stessi modelli di umanità. È lo sradicamento, di cui parla Simone Weil.


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Il nuovo referente: l'Occidente, che è l'area madre delle Istituzioni democratiche, quella entro cui soltanto le Istituzioni cosiddette democratiche hanno fondamento e possibilità di vita. E "occidente" e "democrazia" vengono dalla DC usati come fattori di lotta politica, di discriminazione. Fra gli Italiani. Ed è sangue.
È lei DC che decide chi può collaborare a livello di governo; è lei DC che si eternizza al potere da 40 anni; è lei DC che usa le Istituzioni a fini privati (il caso Cirillo); è lei DC che, in mancanza dell'alternanza, pratica la mediazione che è la fonte non solo della corruzione, ma della criminalità organizzata.
E si verifica lo spettacolo che tutti i partiti italiani, in testa il PCI, hanno come obiettivo primo, quello di ottenere, in Occidente, due legittimazioni (non in base alla fedeltà alla propria Terra, ma alla democrazia): quella interna, da parte della DC, il partito delle Istituzioni: puoi sederti al mio fianco; l'altra, esterna, per cui tutti i partiti italiani corrono negli Stati Uniti, la potenza madre, perché l'Impero, battendogli sulla spalla, dica al proconsole DC, gestore della provincia occupata: accogli pure, il battesimo (democratico) è stato dato.


PUÒ ESSERCI SOVRANITÀ POPOLARE IN QUESTO CONTESTO?


Se le stesse Istituzioni registrano la fine della Nazione quale principio di legittimità fondante (come dal Risorgimento in poi), per assumere quello dell'«occidente», grazie al quale milioni di italiani vengono esclusi dall'esercizio del governo; se la legittimazione democratica nasce dalla perdita dell'autonomia nazionale, della sovranità nazionale (antifascismo come antirisorgimento); se, insomma, le Istituzioni vengono espropriate alla comunità nazionale, approfondendo la frattura tra il partito della legittimità e le masse italiane;


COME POSSIAMO RIFIUTARCI, NOI PARTITO DELLA NAZIONE, a costruire, proprio sulla "questione nazionale", l'alternativa alla DC?
Come può esservi sovranità popolare senza sovranità nazionale?


Discussione accademica? Direi di no. Se si imbocca una strada invece dell'altra ne derivano indirizzi opposti.
Infatti, se decidiamo di prediligere la società civile prima di questo Stato, è evidente che il disegno politico che ne deriva, porta ad approdi del tutto nuovi a quelli consueti.
 

PREDILIGERE LA SOCIETÀ CIVILE, vuol dire che, invece del Palazzo, occorre puntare il sestante su quei luoghi che, considerati estranei alla politica, sono invece quelli in cui si forma il senso comune che poi va a determinare il comportamento politico.
 

PREDILIGERE LA SOCIETÀ CIVILE, la Festa, l'incontro fuori dalle Sedi dei partiti, rimaste deserte, significa andare oltre, non la politica, ma le miserie dell'attuale politica. Ho detto Festa. Non hanno inventato nulla: il Decreto legge che istituisce il Dopolavoro è del 1. maggio 1925, n. 582.


PREDILIGERE LA SOCIETÀ CIVILE, significa acquisire profondità e intensità al nostro linguaggio politico, penetrare il senso del tempo, che è la condizione essenziale per capire il tempo e per riportarlo alle nostre radici.


Solo facendosi protagonisti dei processi di formazione del costume, della cultura, dei modi di vita, traendo linfa dalle nostre radici, significa diventare fatto quotidiano degli Italiani.
Dentro la Società, dunque, prima di stare nel Palazzo.


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La terza "stazione" della nostra passione si chiama politica estera. L'alleanza.
Non si tratta di trattati. Vi parlerò.
Cercherò, interrogandomi, di interrogarvi nel Vostro stato d'animo, nel Vostro sentire. L'alleanza, dunque, sentita e analizzata come fatto interiore. L'alleanza dentro di noi. Come ideologia, religione.


COSA È L'ITALIA NELL'ALLEANZA?
La mia risposta può apparire dura, limitata, settaria: l'Italia nell'alleanza: un territorio occupato da missili.


Vi domando -e Vi prego di interrogarvi prima di rispondere-: c'è una "passione" dietro quei missili? C'è una bandiera? O piuttosto la dimenticanza di sé, l'alienazione, la perdita senza fondo della propria dimensione di popolo?


Tornati ad essere, dopo 40 anni dal 1945, territorio e basta, pura espressione geografica.


O non si è detto -non da noi certo- che l'impianto dei missili rappresentava, dopo tutto, un investimento per dare lavoro ai siciliani disoccupati?
Guardate a che punto è arrivata la dimenticanza di sé: nel tempo in cui le decisioni degli Stati-Impero investono i temi della pace e della guerra, della vita e della morte, l'Italia delega la propria sovranità ad altri.
Non è questa solo una posizione "governativa"; è, ahimé, di gran parte del popolo italiano che, dinanzi al problema della difesa dell'Italia, ragiona presso a poco cosi:


«Non è affar mio. Ci pensino altri!»


Come è inebriante sentirsi annullati nel grembo della potenza madre, della grande alleata!


* * *
Pongo una domanda: quando un popolo non è più responsabile nazionalmente del proprio destino e della propria vita, può dirsi libero?


IL FALLIMENTO DELL'ANTIFASCISMO COME FORZA STORICA È TUTTO QUI: NESSUNO, MENO DI TUTTI I COMUNISTI, FILOSOVIETICI, PONGONO IL PROBLEMA DELLA QUESTIONE NAZIONALE, CHE È POI IL PROBLEMA DI FONDO DELLA LIBERTÀ.


Parlare di difesa dell'Italia (prima distrutti, poi liberati) non porta voti, non distribuisce favori, non alletta clientele. Quindi l'oblio. Ci pensino altri.

Su questa "alienazione" del sentimento nazionale, che viene di lontano,


PER RICOSTRUIRE,
PER RIDEFINIRE L'ALLEANZA,


c'è uno spazio enorme per noi.


L'alternativa: o si sostanzia della questione nazionale, o non è.


È giusto, è sacrosanto chiedere al PCI di esibire credenziali di lealtà nazionale e di indipendenza dall'estero; ma è altrettanto sacrosanto cominciare a chiedere tali garanzie anche ai DC, ai socialdemocratici, ai repubblicani.
Licio Gelli, burattinaio dei politici italiani, era, in contemporanea, burattino di potenti organizzazioni supernazionali.


LE STRAGI VENGONO DA LÌ.


Mi diceva Pino Romualdi anni fa: spesso hai la sensazione che -anche in casa nostra- gli ordini vengano da fuori.
Facciamo in modo, cari camerati, di riappropriarci, prima che sia troppo tardi, nella alleanza, delle chiavi di casa.
È la più religiosa delle battaglie che dobbiamo combattere.


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Può una comunità come la nostra -è l'ultima "stazione" della nostra passione- dimenticare che nei vuoti dello spirito prodotti dai processi della secolarizzazione, sono precipitati i gorghi dell'angoscia, per cui la cancellazione del "sacro" ha portato alla superficie le «infelicità, le nuove infelicità di Marco Pannella», surrogati, idoli che si sono rivelati assai più esigenti e spietati dei vecchi dei?
Può una comunità come la nostra, dimenticare che fra i valori che si intendevano salvare dal romanticismo progressista c'era anche il più semplice segno della croce?
Vi ricordate Gilles, il personaggio del libro di Drieu La Rochelle? Dopo avere vissuto nel marcio della società parigina, troverà il suo equilibrio, la sua purificazione nella guerra di Spagna, accanto a quei volontari che difendono, nelle file della Falange, il cattolicesimo virile del Medio Evo, e morirà sparando, accanto a un ferito che geme: «Santa Maria»; e penserà, in faccia alla morte, «al Cristo delle Cattedrali, il grande Dio bianco e virile, un re, figlio di re»

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Papa Wojtyla, nella sua terra spezzata, che cosa va a predicare, contrapponendosi all'arrogante formula scientifica del marxismo che pretendeva, in nome della ragione, di cancellare, con Dio, la memoria storica dei popoli?


«Non ho oro, né argento, ma di do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, alzati e cammina».
È Pietro allo storpio

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Cracovia: 23 giugno 1983: due Eroi nazionali polacchi dell'insurrezione del 1863 contro lo Zar, vengono, da Papa Wojtyla, elevati al rango di Santi.


Farsi ribelli per la Patria è la via verso la Santità, che è l'eroismo di tutta la vita, dare la vita per il prossimo, afferma Wojtyla.


Non ci siamo fatti, anche noi, ribelli per la Patria? O non è questo il segno distintivo primo della nostra identità che ci fa diversi?


Non ho oro, né argento. Posseggo solo la fede. Alzati Polonia! Ho l'impressione che questo Papa, nelle sue luci e nelle sue inevitabili ombre, esprima qualcosa di più, in nome della storia che ci fa tutti europei, dall'Atlantico agli Urali, di quello che possa esprimere, in nome dell'oro e dell' argento del capitalismo, Ronald Reagan, uomo di destra.
L'altezza della predicazione di Papa Wojtyla dà la vertigine storica. Non è mercantilismo.


Pensate un po'. Alla morte di Paolo VI, Papa Montini, il Papa del dubbio e della mediazione, la Chiesa romana non ce la faceva quasi più. È dalle lontane province dell'Impero, là dove si soffre, non là dove si gozzoviglia, che la Chiesa, dopo 455 anni, sceglie un Papa straniero; intatto dallo scetticismo all'italiana, non toccato dalla decadenza democristiana. Crede nella storia. E alla Storia fa appello.
E il grande Impero dell'arroganza, della ragione e della scienza, che l'oro e l'argento dell'Occidente non intaccano, barcolla davanti al Papa barbaro che parla il linguaggio della Patria.


Le pallottole di Piazza S. Pietro hanno un marchio ben preciso.


La libertà non è un sollievo, bensì la fatica della grandezza.


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Custodire la Storia, custodire la memoria del Popolo, come punto di riferimento.


MA DI CHE COSA?


Della speranza, che è la radice di ogni progetto, la molla per comunicare con gli altri, la forza che sorregge ogni seminagione.
Senza speranza non vi può essere nessun progetto politico. Nessuna resurrezione.


Il destino ha lasciato a noi, in questa terra d'Italia, questo compito: custodire la memoria storica ora devastata, annullata.


Dare speranza con il ridare indipendenza nazionale al nostro Popolo.
Che significa fare politica? Governare gli uomini? Non è li la questione. Si tratta di dar loro delle ragioni per vivere e per morire.


Non è importante la vita. Importante è ciò che si fa della vita.

 

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C H E    F A R E ?


Le intelligenze più vive, delle più disparate provenienze, sono alla ricerca di una via d'uscita. Il secolo delle rivoluzioni è dietro le nostre spalle.


Un dato innegabile: oggi i confini politici passano, su ogni questione vitale, trasversalmente ai partiti. Al di là della destra; al di là della sinistra.


L'affermazione può dispiacere, ma vorrei vederla confutata con argomenti: oggi il pigro patriottismo di partito rimane uno dei cardini del sistema. Occorre superarlo, con il coraggio tipico di coloro che antivedono. Al di là della destra e della sinistra. E che cosa fu il "capolavoro" dell'interventismo se non questo?


Dunque: aprire il dialogo (che non significa rinuncia al proprio ruolo anti-sistema), anzi.
Quali i punti di incontro del dialogo?


1) La grande riforma delle Istituzioni.
2) Il confronto su un progetto nazionale di qui al 2000.
3) Come affrontare il problema della III rivoluzione industriale, la scomparsa dei colletti blu, l'era dell'energia nucleare, dell'informatica e della telematica.

 

* * *
Il dibattito non può non seguire una concezione lineare della vecchia topografia politica. Non ha più senso. (Se vai a destra i più vicini sono i liberali, poi i democristiani; se vai a sinistra i più vicini sono i socialdemocratici, poi i socialisti). Non ha più senso.
Siamo dinanzi ad un profondo ricambio generazionale, antropologico, che porta con sé rotture profonde di mentalità, di linguaggio, di modi di interpretare, vivere la vita. Uno stacco lacerante.


In contemporanea un grande sforzo intellettuale, ricco di inquietudine, dell'«altro», degli «altri» che -come noi- hanno colto, da sponde opposte, la crisi epocale che ci investe, e che ci porta sul ciglio della distruzione atomica, il collasso dell'umanità.


Nella nuova cultura dell'inquietudine, del senso della catastrofe: Marramao Giacomo, comunista, potere e secolarizzazione, la morte di Dio; il repubblicano Gennaro Sasso, il tramonto del mito del progresso, Spengler, Nietzsche; Ferruccio Masini, comunista, sulla rivoluzione conservatrice tedesca; Massimo Cacciari, filosofo, già deputato del PCI, organizzatore, per conto dell'Istituto Gramsci del Veneto, dei convegni su Nietzsche e su Schmitt; Giovanni Tassani, cattolico di sinistra, collaboratore de "il Manifesto", con i suoi studi sulla destra, politica e culturale; Dino Cofrancesco, storico socialista, che, al Convegno di Cuneo sulla «destra radicale», è protagonista di un intervento che, per l'equilibrio e i giudizi, fa da testo negli studi non demonizzanti sul fascismo moderno; Aldo Mola, storico socialista che recensisce il Convegno su Evola; Miglio (e la sua scuola) con il progetto presidenziale di una Nuova Repubblica, cattolico proveniente dalla resistenza; Augusto Del Noce, Renzo De Felice, Domenico Settembrini: la terza via, al di là del socialismo e del comunismo, dal cui seno, secondo questi storici, il fascismo, come ramo staccato, come scheggia, sarebbe germogliato.


* * *
Una cultura che sta abbandonando la moda postbellica degli scrittori anglo-sassoni, francesi, per ricercare motivazioni nella cultura della Mitteleuropa.
E non è senza significato che il nome di Adriano Romualdi sia una sorpresa per la sinistra che pensa.


Poi la riscoperta di Giovanni Gentile, l'ultimo studio di Sergio Romano, l'ambasciatore della NATO, crociano.


Gentile, Evola, Heidegger, Schmitt, Jünger, Nietzsche: erano i cattivi maestri. L'angoscia panica di una sinistra intellettuale, in cerca di vie d'uscita dalla crisi epocale, li riscopre. Tornano ad essere bussole di riferimento.


Mi fanno tenerezza quelle sparse librerie di destra; quelle sconosciute case editrici che, da anni, artigianalmente, con tenacia, riproponevano a noi, rimasti senza biblioteche, quegli autori. Autori scoperti oggi dalla sinistra intellettuale.


È LA TERZA VIA?

Senz'altro, è la terza via, che tiene conto dell'evoluzione culturale in corso, che non si àncora, passivamente, ai nostalgismi sterili che non hanno più senso.


È TESI TUTTA NOSTRA?

Ammettiamolo che lo sia, ma come farla diventare realtà se non riusciamo a comunicare, a dialogare con gli altri? Noi, 7 per cento.


Dialogo, confronto di idee, non di poltrone.


Qui fu il nostro sbaglio nella fase della cosiddetta sghettizzazione. Ci rendemmo simili, e perdemmo di forza persuasiva. Curammo il piccolo spazio, non il grande spazio.


Dialogo che non è inserimento, è superamento del sistema. Avanguardie culturali che vogliono il nuovo, che si confrontano contro l'attuale sistema; involutivo, corruttore, decadente. In prospettiva: un nuovo destino per l'Italia.


Mussolini non aggregò tutti coloro che, provenienti da esperienze culturali e politiche diverse, puntavano al nuovo, a rompere la corteccia del vecchio?


Di chi siamo figli? Può dispiacere l'affermazione, ma siamo figli del secolo delle rivoluzioni, dominato -fateci caso- dalle scissioni socialiste: Reggio Emilia, Interventismo, scissione di Livorno del 1921. Ci siamo dentro.
L'incontro di Mussolini con il sindacalismo rivoluzionario di Corridoni, di Alceste De Ambris; con Leandro Arpinati, anarchico, in aggregazione, con uomini provenienti dall'area liberal-risorgimentale dello stato italiano.


Perdonate: ma l'incontro di Mussolini con Nicolino Bombacci, il fondatore del PCI, è proprio privo di significato per noi? O è vero il contrario?


Le radici. La terza via: tutta nostra, o incontro di coloro che, pur avendo vite diverse, vogliono innovare, vogliono ridare all'Italia un ruolo, un destino, un avvenire?


Giorgio Bocca e il suo libro: "Mussolini, il social-fascista". Cosa ci propone? Quali meditazioni, quali interrogativi pone, a tutti noi? Non possono essere lasciati senza risposta.
Se il fascismo, secondo Bocca, è scheggia, è ramo staccato dall'albero delle rivoluzioni, c'è da chiedersi -e chiederlo agli Italiani- che cosa sarebbe stato dell'Italia se, nel 1921, avesse prevalso, in Italia, del socialismo la parte estrema, il comunismo.
Il fascismo ha compresso la libertà, senz'altro; ma cosa avrebbe fatto il comunismo al suo posto?


* * *
Dopo aver dimostrato la derivazione concettuale di Antonio Gramsci da Giovanni Gentile, il filosofo Augusto Del Noce, senatore DC, ascoltatissimo presso CL: il tentativo di adattare la rivoluzione ai punti più alti della civiltà -come è nei disegni ideologici del PCI- è già stato fatto: da Benito Mussolini e da Giovanni Gentile. Con un particolare di straordinaria importanza: il fascismo anticipava l'idea - che poi Stalin doveva applicare nella guerra patriottica quando, per vincerla, mise in soffitta Carlo Marx, riscoprendo, con la patria, i generali zaristi vincitori dei turchi e di Napoleone: non dividere, non spaccare il popolo sui valori tradizionali, ancestrali della Patria.


Fate del popolo la causa della Nazione, il popolo sarà con la Nazione.


* * *
È un travaglio culturale di portata storica. Si giocano i destini del mondo. Vogliamo parteciparvi?


CON QUALE PROGETTO?
Quello dei piccoli spazi? Quello, per intendersi, del contenderci i consensi secondo la direttiva: «guarda che la DC non dà garanzie davanti al pericolo comunista, io sono più bravo di lei, vota per me»? È la visione del 7 per cento, dei piccoli spazi. Non ci rende credibili. Ci rende simili.


E poi, quando qualche parziale successo, grazie a fortunate circostanze, arriva, che si fa?
 

Napoli: il successo. Ma dove è il progetto per gestire quel successo? Il progetto debole. (Non c'è). E allora quei voti si buttano e... si perdono. Non si svuota cosi il sistema, lo si puntella.


Il destino, non solo dell'Italia ma del mondo, si gioca su tre grandi scenari:


il progetto con la barbarie:
l'Est, i socialismi reali;


la barbarie senza progetto:
l'occidente, la società consumistica;


il progetto senza barbarie:
LA TERZA VIA.


Qui occorre misurarci, ma per misurarci occorre alzare il tono della tensione all'interno della nostra comunità: sentirsi forza storica. Non è cosa da poco. Dai piccoli ai grandi spazi.
Rimettere in moto le idee, produrre politica forte. Rivisitare, più che la memoria-archivio, la memoria-radici. Identificarsi per identificare. Al posto degli artifizi verbali, il progetto. Preferire ai tranquillanti nostalgici l'aspro, duro sapore della conquista del presente.
 

Non selezionare personale politico elastico. Costruire coscienze. Partito -cosi come lo sognava De Micheli Vitturi- educatore, non corruttore. Un mondo umano che sa stare insieme, che sa intendere e praticare il termine solidarietà, cameratismo. Gioire e soffrire insieme.


Essere inquieti, sempre. Gli immoti e i pigri non sono fecondi. Mai burocrati. Il nemico principale: ciò che, rendendoci atoni e spenti, ci porta, fatalmente, a rimetterci agli altri: a Reagan, all'avvenimento straordinario, al pezzo di bravura (De Lorenzo, Birindelli, Plebe, Greggi).


L'unità, non quella tenuta insieme dagli organigrammi, ma dalle idee, dai fermenti, dalle inquietudini.


Amare l'Italia. Cosi come Berto Ricci scriveva:


«... l'Italia dura, taciturna, sdegnosa, che porta la sua anima in salvo soffrendo delle contraffazioni, dei manifesti, dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati, dei commendatori. L'Italia che ci fa spesso bestemmiare perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra: vicino alla perfezione dei Santi».

 

Giuseppe Niccolai

 


Il documento
Segnali di vita


IL TEMPO CHE VIVIAMO

 

Quale è il progetto culturale che ci aiuta ad apprendere, con il pensiero, il proprio tempo?
È possibile riconvertire le nostre radici nel nostro tempo, riportare il nostro tempo alle nostre radici?
È possibile, davanti allo stacco generazionale, alle scissioni di mentalità in atto, far si che il tempo che viviamo, il tempo del post-moderno, possa recepire radici e modelli antichi?
Non si rischia, non rispondendo, di non comprenderci più, di non intenderci più, di parlare delle lingue morte?
* * *
Come posso io, nato negli anni seguenti la prima guerra mondiale, dimostrare al diciottenne di oggi la validità della categoria "nazione" come memoria storica; come categoria capace, in quanto memoria, di spiegare il tempo presente, se lo faccio con termini, con valenze, con significati di quaranta anni fa? Ma se mi riferisco a Papa Wojtyla che difende, si, la comunità cattolica del suo Paese, ma la difende contro lo Stato della sua nazione, rapportando il tutto alla nostra vicenda nazionale, per cui il MSI difende i valori della nazione, ma non questo Stato che snatura la nazione, non rendo "moderne" motivazioni antiche? Non rinverdisco le nostre antiche radici? In breve, non mi faccio comprendere, sul tema della patria-comunità, anche dalle più giovani generazioni che della patria, in senso classico, non sentano più il fascismo?
E se alle generazioni più giovani cerco di spiegare il "significato" del cattolico irlandese Bobby Sands che si fa "sovversivo", "autonomista" per la propria terra, per il proprio popolo, per la propria comunità, fino a morirne, non rinverdisco, in termini moderni, a chi mi ascolta, la "patria"? Liberandola da significati superati, ma rendendola estremamente attuale nel dramma del post-moderno dove vicende, come quella irlandese, infiammano il mondo, dalla Polonia all'America Latina, all'Asia, al Medio Oriente?
L'assunto antico e moderno: l'indipendenza nazionale è la condizione prima per avere la libertà.
Infatti in che consiste la libertà se non nel poter conservare le proprie particolari, peculiari "diversità", le proprie memorie? Anche la fiaba, soprattutto la fiaba.
E che cosa è la cultura di destra se non la cultura della diversità; il "no" alle cause uniche della storia; la antitesi netta all'omologazione tecnologica e all'anonimato metropolitano? Essere diversi è la possibilità del nostro dissenso.
Si è parlato di scissioni di mentalità in atto fra generazioni. Nasce un nuovo modo di sentire le cose.
I partiti, tutti quanti, restano davvero i tradizionali veicoli di comunicazione di una cultura che si è fatta frammento?
E se non è cosi, quali aggregati nuovi stanno sorgendo, e dove?
E come uomini di destra abbiamo, sul serio, tutto il mondo addosso? O è vero il contrario, per cui, volendo vedere e capire, i nostri fondamenti che ci fanno comunità, si scoprono dovunque, nei luoghi più impensati, nella pratica quotidiana, nella vita di ogni giorno, là dove proprio si forma il senso comune della gente?
Un "recital" di Gaber, una canzone di Battiato o di Battisti, un film come "Ecce Bombo", "Maledetti vi amerò", "Rambo", sono davvero, anche se cresciuti, pensati e realizzati dagli «altri», sono davvero estranei alle nostre antiche radici?
O è vero il contrario, e cioè che quelle radici si sono rapportate al tempo che viviamo; cioè che se si vuole "capire" il nostro tempo è gioco forza rifarsi alle costanti eterne del nostro sentire?
* * *
La scelta non può essere che una, e inderogabile: lasciare al loro destino tutto ciò che, partitocraticamente, ha rotto con la vita. Le sedi di partito, cosi come sono concepite, strutturate, non servono più. Occorre ripensarle, con una premessa fondamentale e imprenscindibile: liberandole da essere sedi puramente elettorali, luoghi dove avvengono le varie e non pulite alchimie partitiche e correntizie; per farne invece ponti proiettati verso la comunità, i suoi problemi, le sue angosce, i suoi slanci, il suo desiderio della "diversità", la sua ansia di un ritorno "felice", soprattutto per la donna, al concetto sacrale della vita.
Non è importante la vita, è importante che cosa se ne fa della vita.
E quale compito più alto per un "movimento", se non quello di lottare per ricostruire il senso della vita? Il diritto di battersi per la FELICITÀ sacrale della vita contro le nuove INFELICITÀ, predicate da Marco Pannella. Ecco il confronto, non più sul piano delle reciproche contumelie, ma su quello delle idee, delle speranze, dei propositi, delle iniziative.
La politica come speranza, come creazione.
* * *
Ridare felicità alla vita significa farsi interpreti di un moto generale di rinnovamento e di riconsacrazione alla vita e alla storia.
Per questo bisogna dire tutta la verità.
Ripensare il passato, non nascondendo alcuna responsabilità, non lavorando per meschine comodità sentimentali, per giardinetti nostalgici dove i nostri fiori sono sempre più belli.
Si vince superandosi.
Si vince se ci si mette allo specchio e non si nasconde nemmeno il più piccolo brufolo. Il nostro passato remoto e quello prossimo, sono costellazioni di brufoli su una pelle che è sana ma che ha bisogno di cure.
Si vince se non si finge.
Se ci si pulisce, se ci si depura, se si lavora, non per il partito del questo si deve dire, questo è meglio che non si dica, ma per tutta la verità, per noi stessi, per l'Italia.
 


IL NEMICO PRINCIPALE


La DC è il male italiano.
Non è una forza di azione, né una forza di reazione. Non ha difeso la tradizione cattolica perché mai come nel sistema di potere DC (lo hanno rilevato intelligenze cattoliche come Gianfranco Morra e Augusto Del Noce) l'Italia ha subito un processo di accelerata scristianizzazione. Non ha dato vita ad una classe politica omogenea ma ad una centrale di interessi mafiosi, di consorterie, di miserie coalizzate. Il suo pluralismo è stato quello dei personalismi in lotta fra loro, pronti a saldarsi allorché la cittadella del potere è apparsa insidiata. Non ha mai elaborato un progetto unitario in ordine a nessun grande tema politico, sociale, culturale. Ha risposto con l'ambiguità ad ogni tentativo di definizione ideologica.
Boccia Del Noce, elegge il banchiere Guido Carli.
I suoi uomini sfuggono, strisciano, svicolano allorché si tratti di dire che cosa vogliono e perché.
Intensità e durata ideale sono termini che i democristiani non conoscono. Sanno manovrare, giostrare, corrompere; gestire sentimenti, risentimenti, paure. Far vibrare le corde di un anticomunismo gommoso e querulo che serve a ricattare gli italiani all'insegna di uno «scegliamo il male minore» che è la tomba di ogni presenza storico-politica, di ogni iniziativa morale, di ogni piano a lungo termine.
DC come potere cristallizzato, inerzia elevata a potenza, equivoco. Il partito di Tartufo e di Don Abbondio. La paura di essere robustamente portatori di una tradizione cattolica virile non infetta da compromessi, di un senso dello Stato non inquinato dai guelfismi, di un'idea sociale coraggiosamente solidaristica, di un anticomunismo netto perché fondato su valori precisi, su una precisa analisi politico-sociale, su una limpida visione dell'uomo come veicolo di principi universali da tradursi in alfabeto storico, in proposta politica.
Per anni la DC e la Chiesa si sono reciprocamente sostenute mentre, entrambe in crisi, cedevano di fronte all'assalto del mondo moderno timorose come erano di contrastarne le ideologie secolarizzatrici, forti del patrimonio di fede che avrebbero dovuto potenziare.
Responsabilità della DC di fronte alla spirale d'odio degli anni di piombo.
Chi ha difeso le giovani generazioni contro la droga politica antifascista?
Chi ha difeso la libertà degli studenti di capire e di crescere, senza essere infettati dal dogmatismo e dal settarismo?
Chi ha regalato scuola e cultura ai marxisti legittimando, nel silenzio, ogni prevaricazione e uscendo allo scoperto solo e sempre quando si trattava di difendere posizioni di potere?
Chi ha invitato alla conciliazione, al disarmo degli animi, alla ricerca della verità?
Quali governi, quali uomini hanno parlato le parole della ragione, quando il neo-antifascismo mostrava il volto della furia allucinata, di un razzismo isterico che sproloquiava imponendo parole d'ordine e divise, e sprangava i dissenzienti?
Che cosa è stata la DC negli anni del ferro, del fuoco, della follia?
Uomini inquinati, servizi segreti inquinati e infeudati allo straniero, leggi speciali (lo sprazzo di prepotenza degli impotenti!), processi sommari (addirittura alle intenzioni!), tolleranza verso chi spandeva odio a piene mani, intolleranza (o mielosa comprensione che mai si traduceva in operosità operante) per chi cercava di difendere I DIRITTI DI TUTTI.
Il delitto Moro.
La DC a muso duro fa processare e condannare il suo leader in un tessuto di trame occulte, strane manovre, complicità e menzogne, per non essere processata di fronte all'Italia come il partito della destabilizzazione morale e civile.
La DC è il partito della pura sopravvivenza di un'Italia che esce dalla storia, innalzando a proprio vessillo la furbizia untuosa, l'abilità manovriera, la mancanza di fede, la spregiudicatezza cattiva del potere che in sé si esaurisce e da sé si giustifica.
Nella DC precipitano le speranze d'Italia.
Il risollevamento del Paese non richiede alleanze di tiepidi, di scettici e di praticoni, bensì di anime ardenti, che sappiano amare la libertà come i polacchi, che sappiano amare la Patria italiana come Wojtyla ama la sua Polonia.
Contro dunque la DC che baratta la religione per il potere, che, realizzando il regno dell'ipocrisia, produce lo sfacelo morale del Paese.
Contro la DC delle continue rinunzie, delle mediazioni permissive, per cui, vendendo i valori, riceve potere, un potere agnostico e materiale, sino al punto da disporsi a dividerlo anche con i comunisti, pur di mantenere la parte più grassa all'insegna di Yalta, e sotto il protettorato degli americani.
* * *
Per battere il comunismo, condizione essenziale è battere la DC, il male "oscuro" degli Italiani.


LA RASSEGNAZIONE


La rassegnazione. Dentro il Palazzo è il dato preminente. Con lo spengersi delle passioni e della stessa intelligenza politica, l'appiattimento, la omologazione, il rendersi tutti eguali, ha comportato la caduta di ogni speranza (quale progetto politico può essere costruito senza la speranza?), quindi la rassegnazione, la sfiducia, il cinismo.
Assistiamo alla fine di un ciclo storico, che però non è morto. Sopravvive, imputridendo tutto e tutti. Emergono la mafia, la camorra, la criminalità organizzata, la P2. Il sistema, ormai esaurito e ridotto cadavere, produce miasmi, veleni.
Ma la rassegnazione "dentro" di noi, nella nostra comunità che volemmo "diversa", quali spiegazioni trova?
C'è qualcuno che dissente da tale affermazione? Ma lo stesso Congresso, che abbiamo voluto modulato così, non è rassegnazione?
«Non c'è altro da fare»; «c'è da aspettare, dopo le elezioni dell'85, penseremo, vedremo»; «facciamo intanto il Congresso, poi ...».
È l'attesa. La sapienza della carne. Anche nel ventennio: «c'è lui, dunque seguiamolo»; «c'è lui, quindi non possiamo far nulla».
E poi:
il 25 luglio,
l'8 settembre.
* * *
Chi me lo fa fare? Io aspetto. È l'impotenza psichica. Oppure: scetticismo, sorridente, carico di presunzione, di senso di superiorità: schiocchi, ma perché "pensate", vivere bisogna!
Giorgio Almirante, analizzando questo fenomeno, trenta anni fa, da posizioni di oppositore, scrisse: «è la tomba di ogni fede, di ogni speranza, di ogni sussulto, di ogni serio impegno: è lo sputare su tutto, è il calpestare tutto, senza un briciolo di umana pietà».
Sono parole che restano. Valide. Vorremmo accompagnarle dalle parole che Berto Ricci, il 3 aprile 1938, quarantasei anni fa, decidendo di riprendere le pubblicazioni de "l'Universale", rivolse, in una lettera, ad alcuni suoi collaboratori, compreso Indro Montanelli:
«e per parte mia, vi garantisco, che sono asfissiato dalla troppa gente che mi dice e che mi scrive d'essere d'accordo con me in troppe cose».
E continuava:
«finirla con l'asfissiante frasario a base di ordine e basta. Finirla (c'era Mussolini! N.d.R.) col miracolismo DELL'UNO CHE PENSA PER TUTTI. Muoversi, sapere sbagliare. Sapere interessare il popolo all'intelligenza. Finirla con la psicologia dei momenti eccezionali, che sta servendo magnificamente gli interessi delle gatte morte e delle acque chete. Libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare; libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale. Che anche la libertà di manifestare opinioni teoriche è secondaria dinanzi a quella che l'ultimo Italiano deve esercitare, rispondendone di persona, ma deve poter esercitare: di controllo, di denunzia delle ingiustizie, delle imposizioni, delle prevaricazioni, da chiunque commesse. Finirla col tabù delle benemerenze personali: le benemerenze impegnano. Gli attestati sono troppi e contano troppo. Sono troppi e rendono troppo ...».
1938 - 1984. Berto Ricci riposa da 43 anni nel Cimitero dei Caduti d'Oltremare di Bari.
Berto Ricci fu carattere, fu coraggio civile, fu, per dirla con termini della grigia politica di oggi: l'antidoroteo, l'antimoroteo. Contro i pigri, gli immoti. A fianco degli inquieti.
Deve tornare fra noi, come esempio.
C'è una frase di Giorgio Almirante. È del 1969. Rende bene i tempi:
«Quando il vertice politico tenta di calare il silenzio sulla base, dalla base al vertice non può non salire il disprezzo».
Da lontano, Berto Ricci:
«Questo ci preme, questo vogliamo dire: che gli eunuchi, i vili piglianschiaffi disonorano il fascismo, che i saggi in cappamagna lo inceppano; i noiosi teorici della tradizione gli fan perdere tempo; gli adulatori lo avvelenano, i bruti spiritati dal gesto dittatorio e dagli occhi grifagni lo mettono in farsa: e l'Italia del popolo, l'Italia di Basso Porto e di Via Toscanella, essa sola, lo alimenta di vita. E questo non è classismo, non è bolscevismo, perché non importa essere nati in Via Toscanella, né starci: quel che conta è saperci stare (...) Affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo, chi non capisce la funzione dell'eresia, chi confonde unità e uniformità (...) È necessario che ognuno di noi sappia essere severissimo con sé stesso. È una regola di vita e metodo d'azione che noi ci imponiamo, e che va dalla purezza del nostro vivere pubblico, alla semplicità dello stile, dalla dedizione intera all'Italia, alla infrangibile unità fra noi. È il nostro fascismo; è anzi, più brevemente, il fascismo. Disciplina vera e bella: non rinunziare mai alle idee, ma saper rinunziare sempre al tornaconto personale».
Sono norme di vita e di comportamento.
Vorremmo che il MSI le facesse sue.

 

 

la Mozione

Segnali di vita



TESI PER UNA POLITICA DEL MOVIMENTO

Strutture statuali e l'anima della Nazione. Stato, Comunità.
Errore concettuale: un eccesso di riguardi per lo Stato; una insufficiente attenzione ai problemi della Nazione, della Comunità.
L'essersi aggrappati, fino dal 1948, allo Stato come elemento di continuità del vecchio stato monarchico-risorgimentale, è stato un errore di prospettiva politica e storica, dalle conseguenze gravi, specie per una Comunità che, scegliendo la strada della RSI nel 1943, aveva privilegiato la comunità nei riguardi delle Istituzioni, l'onore e la dignità nazionale nei confronti dei formalismi statuali. Si è finito per premiare del «fascismo» la forma regime a scapito di quella nazional-popolare e volontaristica di movimento.
* * *
Il lealismo istituzionale, l'oltranzismo statalista; il peso assorbente dell'attenzione dato all'obiettivo di occupare, nelle Istituzioni, modesti spazi elettorali, non solo ci ha fatto trovare, spesso, alleati della corruzione che andava poi, per sdegno, ad alimentare la crescita del comunismo, ma ha impedito il recupero di posizioni nella coscienza della società nazionale; mancato recupero che ci è costato poi discriminazione, sofferenze, sangue.
* * *
L'errore concettuale di aggrapparsi a tutti i costi al mito dell'ordine e dello Stato, senza comprendere che l'ordine è impossibile e non ha senso se non si realizza intorno a dei valori e che QUESTO STATO non può essere difeso perché la sua logica di servizio si è trasformata.
* * *
Mancata individuazione delle priorità fra Stato e Nazione in un momento in cui lo Stato risorgimentale si trasformava in stato-partito (la DC, partito delle Istituzioni); alla cui base fondante non c'era più il principio della sovranità nazionale (storia comune, lingua comune, tradizioni comuni), ma il concetto sovranazionale di "OCCIDENTE'' e di "DEMOCRAZIA"; concetti e princìpi che dalla DC, partito-stato, verranno impiegati come metodo di lotta politica e di discriminazione.
Sono gli Stati Uniti d'America a riconoscere, nella DC, la concretezza di questa figura storica; l'Occidente democratico, principio di legittimità dello Stato Italiano, stato occupato da un partito proconsole dell'Impero americano.
* * *
La condizione privilegiata riconosciuta alla DC, partito delle Istituzioni, partito "americano", ha comportato il vassallaggio di tutte le altre forze politiche italiane, compreso il PCI, il cui problema principe è quello di farsi "riconoscere" legittimate a governare, dal partito che rappresenta, in Italia, l'Occidente. Aspirazione massima per i vertici politici in questa Italia: andare in America e averne la benedizione (democratica), perché, a sua volta, la DC, il proconsole della provincia dell' Occidente, dia la sua legittimazione politica ad essere "parte" del governo.
Il PCI non sfugge a questa logica, anzi, di questa logica è un pilastro fondamentale.
* * *
L'idea di Nazione è respinta dall'Occidente-democratico, in quanto ritenuta capace di risonanze anti-democratiche.
La legittimità dello Stato Italiano nasce dunque dal suo inserimento in un'area culturale, l'Occidente, che è l'area madre delle Istituzioni democratiche, quella entro cui soltanto le Istituzioni democratiche hanno fondamento e valore. Ne consegue che lo Stato italiano è legittimo IN QUANTO NON È STATO NAZIONALE, in quanto rinuncia alla propria memoria storica, in quanto rinuncia all'autonomia nazionale, cioè alla sovranità nazionale come valore. E si fa "democratico". Nell'Occidente.
Democrazia "protetta", dunque, contro coloro che, ponendo al centro dei problemi la questione nazionale (senza indipendenza non esiste libertà); ritenendo la categoria nazione il valore fondante i nuovi rapporti della comunità dei popoli, vengono ghettizzati, discriminati.
* * *
La DC, per sua ammissione, dunque, è il regime che difende la democrazia. Se non vi fosse la DC, partito-stato, la democrazia, affidata alla semplice dialettica elettorale, crollerebbe. L'Italia, dunque, secondo questa logica, non è un paese democratico. Democratico è solo il partito DC, partito delle Istituzioni.
* * *
Si ripete la vecchia frattura, eterna costante della storia italiana, fra paese legale (il partito della corona) e il paese reale.
* * *
L'ALTERNATIVA: COME LIBERARE LE ISTITUZIONI DAL PARTITO-STATO
La scelta è fra la Nazione e l'Occidente. O estrema "marca" degli Stati Uniti, o un'Italia, certo legata alla grande cultura europea, certo radicata in Europa e impegnata all'unità europea, che non può che essere unità intorno ai valori ed ai miti della tradizione ma, appunto per questo, capace di responsabilità e di iniziativa. Del resto, un paese passivo che si fa trascinare, un popolo spento, finiscono per essere un peso anche per la maggiore potenza dell'occidente. L'utilità dell'Italia sarebbe appunto solo quella di un territorio occupato da missili.
Il Risorgimento sarebbe veramente finito, l'Italia tornerebbe ad essere un'espressione geografica.


NAZIONE È LIBERTÀ
OCCIDENTE è continuare, all'interno, ad essere subalterni, RUOTA DI SCORTA della DC.
Chiarezza, dunque, sulla figura reale della DC, sul suo ruolo, sul suo aspetto di partito delle Istituzioni, di partito americano, della sua figura di elemento portante di un regime che, privo di valori, completamente scristianizzato, secolarizza la società, rendendola facile preda del comunismo ateo.
L'autonomia nazionale, la sovranità nazionale come scelta del proprio destino di popolo.
Ridisegnare il MSI sull'individuato ruolo della DC nella società italiana, significa delineare, definire l'alternativa. Dare all'alternativa contenuti reali, vivi, da scuotere la pubblica opinione. La politica del MSI riprende senso, acquista realtà.
Non solo in politica estera, ma anche in politica interna, dove le Istituzioni, espropriate alla comunità nazionale, sono alla base di quella crisi della politica che, fra l'altro, nello stato-partito-occidentale, ci regala la mafia, la camorra, il separatismo, la corruzione permanente; tutti i vecchi nodi nazionali non risolti e che riemergono dall'aver assassinato, con la Nazione, la memoria storica degli Italiani. Il Mezzogiorno, colonizzato e subalterno, lasciato senza messaggio, ne è il terreno di coltura.
La sinistra politica e culturale è estranea alla questione nazionale. Fa parte del gioco. Difende Yalta. Difende il sistema. È sistema. Con la DC.
L'anticomunismo non può essere un alibi per difendere il meno peggio, o addirittura, la corruzione «perché altrimenti si farebbe il gioco del comunismo».
Allearsi alla corruzione, per non fare il gioco del comunismo, ha voluto significare il principale incentivo all'avanzata del PCI. La priorità dell'anticomunismo è comprensibile, necessaria, indispensabile, in alcuni momenti di emergenza. MA NON PUÒ DIVENIRE UN RICATTO PERMANENTE e oltre tutto strumentalizzato da quelle stesse forze che con il comunismo trattano in altra sede: la burocrazia statale e vaticana, il grande capitale, i professionisti dell'antifascismo. Non può diventare rinunzia permanente a essere sé stessi, a professare una fede, a ricercare l'obiettività, a volere cose positive per il proprio Paese, solo per restare uniti (insieme allo straniero e, spesso, ai ladri) in coalizioni ibride, di carattere negativo e che peraltro, ammalate sempre di antifascismo viscerale, ci discriminano.
Se facciamo un elenco delle cose a cui abbiamo rinunciato in questi anni, «per non fare il gioco del comunismo», ricostruiamo la metà dei motivi per cui il comunismo è riuscito a crescere.
Il comunismo vive più dei nostri errori che di vita propria. Occorre rompere il giro vizioso della paura del comunismo che ci fa tollerare la corruzione; e della corruzione che alimenta per sdegno il comunismo.
Bisogna indicare i modelli decenti, delle prospettive.
* * *
La tesi della DC come partito dello Stato, inamovibile, per cui abbiamo, in Italia, una situazione di stampo sovietico morbido, nel senso di una identificazione di un partito con lo Stato, e ciò da oltre 30 anni; e da qui che si deve partire per ridefinire una politica che ci faccia diversi. Perché è questa analisi che ci porta a scoprire, per la prima volta, da dove nasce il processo di lenta incubazione del terrorismo.
Il terrorismo nasce sulle rigidità e sulle perversioni del sistema dominante italiano, componente di fondo della crisi. È da qui che la violenza di Stato-partito prende corpo, con tutte le conseguenze del caso. L'identificazione tra Stato e partito, un processo durato 30 anni, grazie ad una Costituzione alla cui guardia si è messo anche il PCI, diventa elemento fondamentale per spiegare gli effetti di decomposizione, di feudalizzazione, di privatizzazione subito dallo Stato medesimo.
Le stesse stragi.
Ed è evidente che se si accetta tale analisi, salta la "politica dell'emergenza" portata avanti, in questi ultimi anni, dal MSI.
Da blocco d'ordine, da Comitato di salute pubblica si passa al politico, cioè al partito che nell'area sociale vastamente intesa, si fa luogo creatore di iniziative culturali, costituzionali, organizzative, capaci di mettere in movimento, e in tutte le direzioni, le energie vitali che pur ci sono nel Paese, immette nel corpo viscido del sistema elementi di conflitto che li fanno tornare protagonisti di politica.
* * *
Lo stesso dicasi per la politica estera. Tornare a predicare "sovranità nazionale" come fattore di libertà per l'Italia, significa anche schierarsi a fianco di tutti gli altri popoli, quelli che soffrono sotto il tallone sovietico e quelli, altrettanto tiranneggiati, sotto le dittature militari dell'America Latina, e quelli che, immersi nel consumismo, perdono le proprie radici, annientati nell'anima, popoli uccisi con dolcezza.
Una società che non è più capace di pensare la propria morte è già estranea alla vita. La società mercantile è destinata a morire, perché nessuno vuol morire al suo posto, e per essa.
Il regime libero che mi toglie, con l'identità nazionale le ragioni di vita, mi porta in braccio al comunismo. Distruggere per produrre, suo massimo ideale essendo il consumo; non importa se tra i beni da consumare figurino anche le nazioni, le città, le cattedrali, la memoria storica, le tradizioni, i campi, le industrie, e la stessa civiltà.
* * *
Quindi un'Italia, certo radicata nella grande cultura europea, certo impegnata all'unità europea, ma anche capace di responsabilità e di iniziativa. Del resto un paese passivo, che si fa trascinare, un popolo spiritualmente spento, quale aiuto possono dare all'alleato?


UN'ITALIA CAPACE DI RESPONSABILITÀ E DI INIZIATIVA.
Ed è per questo che avremmo gradito trovare nei documenti parlamentari, riguardanti l'installazione dei missili a Comiso, il fatto nuovo: la richiesta della presenza attiva dell'Europa nella trattativa e non, come è stato, la delega agli americani di trattare anche per conto degli EUROPEI.
Ci siamo chiesti il perché la DC, anche quella cilena di Frey, non sia riuscita a mediare fra le due Americhe? La DC non è un modello esportabile nell'area sudamericana.
L'America Latina non consente. Perché? Perché la DC è subalterna al modello USA. E il modello USA incontra resistenze nel Sud-America.
Domanda: incontrerebbero resistenza i nostri princìpi nazionalpopolari? Si tratta, dunque, di «liberare» l'Italia dal sistema di potere della DC che -non lo si dimentichi- ha come pilastro insostituibile il PCI. Non vivere perennemente come ruota di scorta DC «per non fare il gioco del PCI». Il gioco del comunismo si fa rimanendo subalterni al partito-stato, al super-partito che dispensa, a suo piacere, titoli di legittimità democratica, maggioranze, favori, potere. E se del caso -quando il gioco non torna- violenza di stato, morte.
DC e PCI all'unisono, proprio in questi giorni, hanno ribadito: Yalta non si tocca!
Se è cosi, è la schiavitù, più o meno morbida, che la farà da padrone. Sacharov e il dollaro.
Ma se si vuole essere alternativi, la opposizione, un'altra cosa occorre: ridefinirsi come alternativa totale al regime DC. Soprattutto in politica estera.

 

Giuseppe NICCOLAI
Umberto CROPPI
Peppe NANNI

 

 

Le firme


Il documento congressuale, che più sotto riportiamo, ha avuto 60 firme. 60 attestati che dovevano poi «far soffrire».
  Le firme, raccolte gioiosamente all'inizio, hanno avuto, come seguito, quello che non ti saresti mai aspettato, pur conoscendo tutti i veleni della vita politica: «cancella quella firma, altrimenti per te, è la fine politica», parola della "nomenklatura".
  La burocrazia soffocante, ne sono certo, non si è resa conto di quello che faceva. Non tanto nei riguardi dell'altro, quanto nei riguardi di sé stessa. Parola parlata e parola vissuta. D'un tratto vanificava la cascata di belle parole che, dal palco, faceva piovere sul Congresso: carattere, moralità, onestà, diversità.
  Qualcuno ha ceduto e, in cambio dell'abiura, ha avuto il posto. È stato premiato. Rientra nei tempi che viviamo, e che attestano, ahimé, l'inclinazione ad essere eguali agli altri, non la propria diversità.
  Ci si mette tutta una vita a conquistare la stima delle persone. Basta un secondo per perderla.
  * * *
  Ma come fa una comunità umana e politica a crescere, a migliorarsi, a misurarsi con gli altri, quando, dall'alto della "nomenklatura", si fa calare sulla comunità, la sapienza della carne e la morte dell'anima?
  Vivere le proprie idee. A qualunque costo. Assumendone, di fronte agli altri, tutta la responsabilità. È la dote essenziale, non solo per sentirsi bene insieme, ma per non tradire sé stessi, la verità che si riconosce nella propria coscienza.
  Sono norme di comportamento cosi essenziali da apparire banali nel doverle ricordare.
  Ringrazio coloro che, testimoniando ciò in cui credevano, hanno reso possibile richiamare l'intera comunità all'insegnamento di vita: vivere seriamente le proprie idee, testimoniandole di fronte a tutti, essere insomma carattere.
  Ed è ancora Berto Ricci, martire delle sue idee, a confortarci: «la disciplina vera e bella è quella di non rinunziare mai alle idee, ma sapere rinunziare sempre all'affermazione esteriore di sé».

  Giuseppe Niccolai


  
  ALEMANNO Giovanni, Roma
  BACCI Frediano, Lucca
  BAJONA Luca, Verona
  BERSANI Ugo, Milano
  BERTAZZOLI Gianluca, Milano
  BRIGUGLIO Carmelo, Messina
  BUSSINELLO Roberto, Verona
  BUTTAFUOCO Pietrangelo, Enna
  CARLI Antonio, Viareggio
  CASTIGLIONE Michele,Catania
  CAVALLARO Gino, Rovigo
  CHIODI Enrico, Firenze
  CLARIZIA Ferdinando, Pavia
  GROPPI Umberto, Roma
  CROVACE Ferdinando, Pavia
  DALPIAZ Stelvio, Arezzo
  DEGLI OCCHI Alessandro, Milano
  DELL'UTRI Salvatore, Caltanissetta
  FABRIZI Leonardo, Macerata
  FERRANTE Giovanni, Caserta
  FONTE Leonardo, Trapani
  FRANCESCHINI Gianfranco, Grosseto
  FUCIGNA Cesare, Pistoia
  GALLI Almerina, Modena
  GASTALDI Giancarlo, Ancona
  GHINELLI Oreste, Arezzo
  GIUNTOLI Sergio, Pisa
  GOLIA Pietro, Napoli
  GRILLOTTI Lamberto, Cremona
  LA PORTA Salvatore, Enna
  LOGLI Gino, Pisa
  LOMBARDI Filippo, Pavia
  LO PRESTI Renato, Messina
  MARCHESINI Raffaele, Pisa
  MARINO Francesco, Catanzaro
  MEMOLI Luisa, Salerno
  MINARDI Gaetano, Caltanissetta
  NANNI Giuseppe, Milano
  NESPOLI Vincenzo, Napoli
  NICCOLAI Giuseppe, Pisa
  NUCCIARELLI Alvaro, Grosseto
  PALADINI Leandro, Livorno
  PASSAQUINDICI Giovanni, Milano
  PEDICINI Vito Antonio, Benevento
  PERA Claudio, Lucca
  PIGNATA Carmine, Caserta
  PONTARELLI Paolo, Grosseto
  PUCCETTI Rolando, Lucca
  RAISI Enzo, Bologna
  RASSU Bruno, Forlì
  RATTI Diego, Cremona
  RIVERA Marco, Milano
  SABATUCCI Corrado, Ancona
  SACCO Domenico, Grosseto
  SANESI Sandro, Firenze
  SANO Gerardo, Salerno
  SCHEMBARI Rosario, Ragusa
  TANUCCI NANNINI Carlo, Napoli
  TELO' Giorgio, Cremona
  TERZARIOL Giovanni, Treviso
  VANDELLI Mario, Modena

Ringraziamo Bruno Rassu (Forlì) e "L'Eco della Versilia" per il materiale di questa pagina