CONFERENZE

"L’Eco della Versilia", n° 1 Anno XIX 28 Febbraio 1990

 

Socialismo e sindacalismo rivoluzionario di Mussolini

Giuseppe Niccolai

 

Benito Mussolini viene espulso dalla Sezione socialista di Milano, presenti Lazzari, Serrati, Bacci e Ratti.

Corre il 24 novembre 1914.

Mussolini, fra clamori e invettive, replica: «Voi siete più implacabili dei giudici borghesi. Voi credete di perdermi. Vi ingannate. Voi oggi mi odiate perché mi amate ancora. I dodici anni della mia vita socialista dovrebbero essere una garanzia sufficiente. Il socialismo è qualcosa che si radica nel sangue. Quello che mi divide da voi non è una piccola questione, è una grande questione che divide il socialismo tutto».

«Traditore!», «Fuori!», «Giuda!», «Rabagas!», gli gridano.

«Vedevo intorno a lui -scrive Paolo Valera ("La Folla", 29.11.1914)- mani agitate, furiose, come udivo invettive che gli si attorcigliavano al collo come se lo avessero voluto strangolare».

È così? Traditore?

Il Congresso socialista di Reggio Emilia del 7 luglio 1912 si era appena concluso, con il trionfo di Benito Mussolini contro «riformisti» e «massoni», che quest'ultimo, su "La Folla" dell'11 agosto 1912, scriveva:

«lo sono un primitivo anche nel socialismo. Io cammino nell'attuale società di mercanti come un esule. Non sono un uomo di affari. Non ho il gusto del commercio. Ora che il socialismo sta diventando un affare, per i singoli e per la collettività, non lo capisco più. Io vivo in un altro mondo. Sono cittadino di un'altra epoca».

Non lo capisco più, io vivo in un altro mondo. Sono parole di Benito Mussolini. Nel pieno del suo trionfo «socialista», quando il sogno, tanto accarezzato, di diventare direttore di un grande quotidiano nazionale, "l'Avanti!" (1.12.1912), si avvera. Ha ottenuto tutto, eppure afferma: «Mi sento un esule, questo socialismo che sa di affari, questo socialismo mercantile, non lo capisco più. Mi sento cittadino di un'altra epoca». Trionfava da socialista, in mezzo ai socialisti, ma la sua solitudine si faceva più amara.

Ma la «sua» solitudine da che cosa derivava?

Mussolini intuiva che quelli erano tempi di rottura, di scelte precise, di decisioni drammatiche. E si poneva l'interrogativo, angosciosamente: «Ma questo "socialismo" riformista delle mediazioni, dei compromessi, e degli affari, messo su dagli avventurieri della media borghesia e dai "balordi di Montecitorio", sarebbe stato, davanti alla "prova" tremenda che si avvicinava, all'altezza dei tempi?».

Prevedeva. Anticipava. Sentiva l'uragano avvicinarsi. No, questo socialismo riformista, collaborazionista, affarista, arrampicatore, non ce l'avrebbe fatta. Era del tutto simile a preti, borghesi, monarchici-giolittiani. Il Popolo sarebbe rimasto ancora senza Patria.

La solitudine di Benito Mussolini del 1912 è tutta qui. Questo socialismo non lo capisco più... Vivo in un altro mondo...

Ed è guerra. Agosto 1914. L’uragano si scatena. Non più scontro fra eserciti di mestiere come erano state le guerre del XIX secolo, ma spaventosa, logorante prova di popoli.

L'internazionalismo proletario, predicato in mezzo secolo di pace dal socialismo, frantumato.

Le frontiere nazionali, che avrebbero potuto essere abolite al canto dell'Internazionale, si levavano nuovamente minacciose e i «proletari» tedeschi e francesi si fronteggiavano. Gli uni al canto del "DeutschIand úber alles", gli altri della "Marsigliese".

 

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Dinanzi al conflitto che impegnava ormai tutti i popoli, che insanguinava i continenti, falcidiava il proletariato di tutti i Paesi, il socialismo italiano che fa?

Si rifugia nell'agnosticismo che Filippo Turati condenserà nella frase «né aderire, né sabotare». È la formula che veniva ad estraniare il socialismo dalle vicende nazionali e internazionali. In linea culturale è la dimostrazione visiva di quanto avesse ragione Mussolini a denunciare, nel socialismo, la crisi fra pensiero e azione. Fra dogmatismo e vita. Fra socialismo degli avvocati e socialismo religioso. Fra riformismo e mito, fra dogma e atto di fede. Fra diserzione (morotea) e partecipazione. Ciò che conta è l'azione, non la fuga. La neutralità è dei castrati.

 

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È il 18 ottobre 1914 (in Francia infuria la battaglia della Marna). Su "l’Avanti!", a firma del direttore (Mussolini), compare un articolo dal titolo: «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante». Sarà l'ultimo. L'espulsione seguirà fra pochi giorni.

«Abbiamo avuto -scrive Mussolini- il singolarissimo privilegio di vivere nell'ora più tragica della storia del mondo. Vogliamo essere, come uomini e come socialisti, gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo essere, in qualche modo, in qualche senso, i protagonisti?»

«Socialisti d'Italia, badate: talvolta è accaduto che la lettera uccidesse lo spirito. Non salviamo la lettera del partito se ciò significa uccidere lo spirito del socialismo». (vedi lettera di Gaetano Salvemini, 18.10.1914).

Resta solo. La Direzione socialista, riunita in Bologna, all'unanimità respinge l'o.d.g. di Mussolini. Prevale la tesi della neutralità assoluta. È la scelta che determinerà, nei destini dell'Italia e degli Italiani, conseguenze politiche, sociali e storiche che ancora continuano.

 

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Mussolini, dunque, traditore?

Mussolini è coerente con sé stesso. La guerra c'è, diceva. Nessuno contesta che sia la guerra della borghesia. Ma perché, invece di fare da spettatori, non trasformare questa guerra in guerra proletaria, in guerra rivoluzionaria tesa a sostituire, nella direzione del Paese, la borghesia con il proletariato? Non accettate questa scelta? Ed allora in piazza ad imporre, con lo sciopero generale, al Parlamento, la neutralità assoluta! Quello che non si può, che non si deve fare, è rimanere inerti, alla finestra. Questo sì che è tradimento!

Ma come era possibile portare su queste «posizioni» il partito socialista? Come era possibile portarlo al fronte, o sulle piazze, dopo che più di dieci anni di riformismo lo avevano reso refrattario ad ogni slancio? Come portarlo in piazza a rompere quella legalità che avrebbe significato la rinunzia alle conquiste borghesi, conquistate con anni di collaborazione con la borghesia?

Ed allora fuori!

15 novembre 1914. Il primo numero del "Popolo d'Italia" è nelle edicole. Il fondo ha un titolo: «Audacia!».

«Riprendendo la marcia, dopo la sosta che fu breve; è a voi giovani d'Italia, giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di fare la storia, è a voi che io lancio il mio grido augurale. Il grido è una parola fascinatrice: guerra!».

 

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Guerra patriottica, dunque, così come gridavano i nazionalisti?

Siccome in Italia tutto va male, tutti hanno torto, nessuno si salva: cosa resta? Paradossalmente l'Italia, ma separata e distinta dagli Italiani che fanno tutti schifo. E sia, dunque, guerra. Per l'Italia!

Questo non è l'interventismo-patriottico di Benito Mussolini.

Per Mussolini fare la guerra allo straniero significa fare la guerra anche al «nemico» interno. Vincere anche in Patria. Ce n'era bisogno.

Perché?

Perché il proletariato italiano era del tutto privo di fiducia in sé stesso, nelle proprie forze. Non era popolo, era gente. A renderlo «debole» era stata la stessa vicenda risorgimentale alla quale era rimasto estraneo, essendo stata quella vicenda opera di minoranze e di circostanze favorevoli, occasionali.

Ciò aveva impedito quella «grande prova di popolo» che, vaticinata da Mazzini, avrebbe sola consentito di gettare le premesse di una autentica rivoluzione italiana, rivoluzione di caratteri e di volontà che avrebbe rifatto gli Italiani.

Mussolini vede, nella guerra, la agognata «prova di popolo» di mazziniana memoria. Una prova che avrebbe «líberato» il popolo italiano dai suoi tradizionali nemici di sempre e che lo avevano, per secoli, tenuto soggetto: la Casa d'Austria e la Curia romana, alleata degli Asburgo. E poi i riformisti, i giolittiani, i doppiogiochisti, i vili, i conformisti.

Il concetto del primo Bonaparte: «La rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette» e quello successivo di Blanqui: «Chi ha del ferro ha del pane», fu alla base della nuova azione del socialista-interventista Benito Mussolini, così come del resto di quella dell'altro grande rivoluzionario, Vladimiro Ulianov, detto Lenin.

Non c'è Patria senza popolo.

E attraverso la guerra, il sacrificio, la sofferenza, il sangue, il Popolo conquista il diritto ad essere tale, ad essere classe dirigente, a vincere anche internamente.

È questo l'interventismo patriottico di Mussolini. Lo dirà a Dalmine, cinque anni dopo (20.3.1919). Agli operai che anziché scioperare alla vecchia maniera, restano al lavoro issando sulle ciminiere il Tricolore d'Italia: «Mentre infuria l'immonda speculazione degli sciacalli che spogliano i Morti, voi oscuri lavoratori di Dalmine avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa. È il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, miseria, disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella Patria libera e grande, entro e non oltre i confini».

 

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Ma Mussolini, quel Mussolini era davvero fuori dai tempi, era l'opportunista, l'avventuriero che, pur di arrivare, invocava la guerra, il sangue?

La vocazione alla guerra era solo sua?

Era uno sradicato culturalmente?

Scrive Giorgio Bocca ("Mussolini, socialfascista", Garzanti, pag. 2): «Gramsci, Togliatti, Montagnana e gli altri giovani torinesi che fonderanno "I'Ordine nuovo" il gruppo dirigente del PCI, attendono con ansia che esca il "Popolo d'Italia", pronti a seguire l'espulso di quel 24 novembre 1914; e Gramsci invierà un articolo sui contadini meridionali, e Mussolini lo inviterà a mandare altro».

Scrive Renzo De Felice nel suo "Mussolini il rivoluzionario" (pagg. 142-143): «... non è certo un caso che quasi tutti i quadri migliori della generazione socialista del primo dopoguerra, che più contribuì al rinnovamento ideologico e politico del socialismo e cooperò, in misura determinante, prima alla elaborazione teorica dei due gruppi più significativi sul piano culturale, quello torinese de "l'Ordine nuovo" e quello napoletano del "Soviet", e poi alla costituzione del Partito comunista, siano stati nel 1912-14 «mussoliniani» (e i più anziani, come Bordiga e Tasca, collaboratori de "l'Avanti!" e addirittura de "l'Utopia"). «Mussolini -ha scritto Tasca nel citato articolo- è, dalla fine del 1912, direttore de "l'Avanti!" e se i "vecchi" ne diffidano, i giovani sono quasi tutti con lui, su cui contano per un rinnovamento del partito». Mentre il riformismo mostrava -è sempre De Felice che scrive- ormai la corda ed era coinvolto nella crisi del giolittismo e mentre le aspirazioni rivoluzionarie erano sempre più vive nel Partito socialista, questi giovani andavano maturandosi culturalmente soprattutto nella pagine de "La Voce" di Prezzolini e su "l'Unità" di Salvemini; a questa maturazione contribuì però indubbiamente anche "l'Avanti!" di Mussolini, sulle colonne del quale la nuova sembrava prendere forma politica ed elaborare qualcosa di nuovo, di più adatto ai tempi, alle necessità, alle aspirazioni del movimento operaio».

 

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Non vi è alcun dubbio: l'interventismo mussoliniano si sostanzia di una vocazione nazionalpopolare: vocazione rappresentata allora dal cosiddetto «partito degli intellettuali» che voleva la guerra.

E questa vocazione nazionalpopolare di che cosa si nutre, di che cosa si sostanzia?

Si vuole il nuovo. Si vuole rompere con la vecchia Italia corrotta, inconcludente, chiacchierona, rappresentata da un Parlamento, la meretrice docile e pronta, la grande casa da tè.

Perché tutto questo?

Perché Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci, Alfredo Oriani, Gabriele d'Annunzio, Luigi Pirandello con il romanzo "I vecchi e i giovani", lo stesso Giuseppe Mazzini («questa non è che il fantasma d'Italia», Antonio Beltramelli con "il Cavalier Mostardo", le riviste fiorentine del primo '900 ("Lacerba", "La Voce"), lo stesso Benedetto Croce, in vari modi e accenti, affermano: «Questa Italia non ci piace. C’è insofferenza, rabbia, autentico disprezzo per la mediocrità della classe dirigente». E si intuisce, specie dal «partito degli intellettuali» favorevoli alla guerra (la quasi totalità) che l'intervento può essere l'occasione storica per ringiovanire e sostituire la classe politica, ammalata di giolittismo; guerra di ragione e di fede.

E se Mussolini prima, attraverso "l'Avanti!", parlava al proletariato, ecco che ora, determinando l'intervento, parla, attraverso gli intellettuali, alla Nazione tutta. In nome della guerra prima, in nome della Nazione poi, Mussolini punta a costituire l'unità della società italiana, incontrandosi, lui figlio del popolo, con le avanguardie più ardite e più impazienti della borghesia intellettuale e con quelle che dovevano nascere dal combattentismo.

Nella trincea si realizza la sintesi dell'antitesi: Classe e Nazione.

Si ha, nel fango delle trincee intriso di sangue, la saldatura fra intellettuali (favorevoli alla guerra) e popolo. Nasce quel legame interclassista da cui dovevano uscire le nuove gerarchie «catalinarie» dei giovani ufficiali, protagonisti del dopoguerra. È nelle trincee che i giovani assaporeranno il gusto del comando e la tentazione di non restituirlo più alla corrotta classe politica.

Ed è il fascismo. Ed è la dimostrazione che le origini del fascismo sono un fatto di cultura predisposto, preparato da una confluenza di fermenti intellettuali, i più vivi del tempo.

Mussolini, interventista, ne è l'interprete primo ed autentico.

 

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È uscito, in questi giorni, un libro di Italo Pietra, dal titolo: "Moro, fu vera gloria?".

All'inizio, proprio nelle prime righe, Pietra introduce un confronto a distanza fra Moro e Mussolini, una specie di filo conduttore che poi si ripete più volte nel libro.

Pietra, se è stato pronto a cogliere la verità di questo confronto Mussolini-Moro come lo spartiacque di due epoche, non sa capirne la profondità storica, direi religiosa di questo raffronto.

«Due tragedie -afferma Pietra in un`intervista-, due personaggi molto lontani. Giustiziato Mussolini dai partigiani a Piazzale Loreto, barbaramente rapito e trucidato Aldo Moro dalle BR».

Giustizia per Mussolini, assassinio per Aldo Moro.

È così?

È questo il significato del confronto?

C'è qualcosa di più, di più profondo.

Quale «messaggio» gli Italiani che assassinarono Benito Mussolini, vollero inviare all'Italia tutta? Quale fase storica chiudevano con quell'assassinio, e quale fase storica aprivano?

Quei «partigiani» aprivano, per l'Italia, la vacanza, la fuoruscita dell'Italia dalla Storia; chiudevano, con gli anni mussoliniani appesi ai ganci di Piazzale Loreto, il protagonismo dell'Italia nel mondo, la sua vitalità di nazione giovane e carica di destino, il suo dinamismo nelle scelte, la sua volontà di camminare, di pesare nel mondo. Era la resa.

Macché storia, macché popolo, macché destini.

Tu hai tentato di portarci nella Storia, da protagonisti; no, vogliamo vivere nella cronaca. Non ci importa di nulla. Vogliamo solo pane e petrolio perché possiamo continuare a vivere, dimenticando di essere vivi.

Ti assassiniamo, Benito Mussolini, perché, per venti anni, hai tentato di darci memoria storica e dimensione di popolo. Hai sbagliato. Noi vogliamo essere gente, un popolo spento.

È per questo che ti appendiamo a Piazzale Loreto, con la testa all'ingiù.

Questo è il messaggio che sale dal dramma mussoliniano.

 

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E per lunghi anni è germogliata l'Italia che si è presa la vacanza dalla storia, l'Italia (ecco il confronto) interpretata dalla politica mediatrice di Aldo Moro; l'Italia che abbiamo davanti, che tutti viviamo: l'Italia spenta come Nazione, il paese delle mafie, come scriveva il 5 settembre 1982 il "Corriere della Sera", a ceneri ancora calde di Carlo Alberto Dalla Chiesa; l'Italia dalle gloriuzze di Palazzo Montecitorio; l'Italia «... un territorio abitato da 56 milioni di uomini uniti dal caso, senza storia, senza radici e, quindi, senza immaginazioni e senza speranze per il futuro, rassegnati ad essere sballottati dai facitori, dai costruttori di storia: dagli americani, dai russi, dai tedeschi, dai persiani, dai libici, dai sauditi. Tornati ad essere la Terra dei Morti di risorgimentale memoria».

Questo è durato per tanti lunghi anni.

 

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9 maggio 1978: Via Caetani, in Roma. Il corpo di Moro, la sua tragedia.

Finisce l'Italia della mediazione, finisce l'Italia che aveva perduto la memoria storica, finisce la vacanza degli Italiani dalla storia. Riappare, sia pure timidamente, il protagonismo italiano: si riprova la gioia di vivere in senso comunitario, storicamente; tornano a pulsare i destini d'Italia. Tricolore e Popolo fanno la loro riapparizione. Siamo stanchi di essere comparse, oggetto di politica altrui.

Ed ecco la rivísitazione storica del ventennio mussoliniano; ecco che gli Italiani vogliono saperne di più degli anni del diavolo; ecco che dalla fase delle contrapposizioni che hanno marcato a ferro e a fuoco intere generazioni di Italiani, si passa alla ricucitura, alla ricomposizione, alla ritessitura -in senso unitario- della nostra storia nazionale. E si torna a meditare la lezione di Benito Mussolini.

Ritorna la storia, la vita.

 

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Le rievocazioni, le rivisitazioni storiche hanno un significato se si proiettano nel futuro in un insegnamento di vita.

È per questo che io dico -e vorrò essere confutato- che tutte le volte che il fascismo ha saputo tornare alle fonti battesimali del suo fiorire, all'incontro fra Patria e Popolo, l'Italia è stata grande. Tutte le volte che se n'è allontanato ha determinato la caduta verticale sua e dell'Italia.

Stato, Nazione. Il pendolo fra i valori permanenti della nazione e valori che passano (la statolatria); fra la vocazione nazionalpopolare e lo stato-caserma; fra il dato comunitario della società e le strutture burocratico- amministrative; fra lo stato che sa interpretare e realizzare la più autentica tradizione nazionalpopolare e lo stato-oppressore, agnostico, espressione di concezioni che snaturano la Nazione, ne tradiscono i suoi destini. L'oscillazione fra questi valori, Stato-Nazione, batte il tempo della vicenda storica -nelle luci e nelle ombre- del fascismo di Benito Mussolini.

Il Mussolini-interventista interpretò l'anima nazionale e popolare dell'Italia. La sua azione fu coronata dal successo. Non poteva essere diversamente.

Poi la caduta, la sconfitta, la guerra civile, il martirio di Piazzale Loreto, di cui abbiamo detto.

Tutto finito? No. Vi è un momento tragico in ogni grandezza politica. Ogni opera che porta il segno della novità (e quella di Mussolini quel segno ce l'ha) passa attraverso la porta del dolore, del sacrificio, della morte. E della momentanea sconfitta.

Ma vale la parola di Cristo: il seme per germogliare, per dare frutti, deve essere sepolto.

Il seme sepolto di Piazzale Loreto darà i suoi frutti.

Mussolini non è un ricordo.

È una speranza.

Giuseppe Niccolai

Beppe Niccolai e Alberto Giovannini - Forlì, 9 ottobre 1983