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L'articolo dello scrittore siciliano per la rivista
"Percorsi" nel quale tratteggia i cardini distintivi del "maestro di carattere"
toscano
Il ritratto
Beppe Niccolai, la bussola
per gli eretici

Pierangelo Buttafuoco (26
novembre 2020)
In quella storia perfetta nei suoi incastri umani di passione e
contraddizione qual'è la storia del Movimento Sociale Italiano, Beppe Niccolai,
deputato di Pisa, carismatico galantuomo del garbo, recita il ruolo più
difficile, quello di essere stato il migliore. Parlamentare nella fase più
difficile della prima Repubblica, quella della emarginazione e del conflitto tra
gli opposti estremismi, diventò il riferimento degli eretici fascisti proprio
sul finire della stagione terroristica.
Grande carisma
Se la politica, la militanza politica, ha mai avuto un senso, un imperativo
etico, Beppe Niccolai per la fiamma tricolore fu il senso e l’imperativo etico.
Aveva la capacità di vedere la realtà senza l’affanno elettorale. Odiava la
«pesca delle occasioni», non avrebbe mai cavalcato la «protesta del popolo delle
tasse», la «guerra dei tassinari», la «sollevazione dei bottegai». Con lui vivo,
nessuno si sarebbe permesso di infoiare il dibattito con l’orgia cartacea dei
manifesti dove ognuno gareggia per avere il cognome in grassetto.
Niccolai fu innanzitutto il senso e l’imperativo di un impegno politico
costruito con il cemento del progetto. A lui, infatti, un uomo già monumento per
stile e dirittura morale, si rivolsero gli inquieti e tutti quelli che dopo
avrebbero lasciato la Destra alle loro spalle. Non c’è oggi in circolazione un
fascista che non abbia avuto da Niccolai un regalo: la fotocopia di una pagina
importante, un libro sottolineato nei punti giusti, una lettera.
Di grande carisma, ebbe al suo fianco i più moderni e, paradossalmente, i più
socialisti. Parlava di quel parlare che ognuno tra i fascisti aveva strappato
dall’officina di Alessandro Mussolini, dunque parlava di quel parlare della
generazione di Benito Mussolini, quello dei figli che, del socialismo, avevano
scelta la trasfigurazione di riscatto e Nazione. Parlava il parlare della
modernità. Lo intuirono gli avversari, e Niccolai contaminò la mistica della
fazione facendosene gioco. Una volta alla riunione di direzione del MSI presentò
un ordine del giorno approvato all’unanimità. Non ci sarebbe stato niente di
straordinario se non fosse che il documento era stato da lui volutamente
ricopiato da un altro ordine del giorno di un’altra direzione, quella del PCI.
Quando Francesco Merlo sul «Corriere» raccontò questo episodio, il clima attorno
a Niccolai era diventato rovente. L’almirantismo aveva punte esasperate di
insofferenza e i missini di più stretta obbedienza avevano già maturato un
fastidio totale verso Niccolai, ne subivano certamente l’intransigenza, qualcuno
poi, coltivò l’insulto cercando a poco a poco di trovare nella sua vita privata
un qualche elemento per di struggere il mito. Fu inutile. Niccolai non andò
neppure ai funerali di Giorgio Almirante, ma se oggi qualcuno chiede ad Assunta
Almirante di Niccolai, lei dice la più orgogliosa delle verità: «Niccolai fu un
grande, un galantuomo».
L’Eco della Versilia
Certamente ci sono formule che non reggono l’agguato della retorica, ma dire che
Beppe Niccolai è stato quanto di meglio quella storia abbia potuto offrire nel
suo svolgersi, è già meno di quello che si vorrebbe dire. Fu grande anche negli
errori. Quando, nel 1981, lui che di Giorgio Almirante era stato amico e
fedelissimo, si reimmerge nella lettura degli “Avvisi” di Berto Ricci, Niccolai
si scarnifica leggendo, ridiscutendo innanzitutto se stesso. «Si sente in colpa
per avere egli qualche volta in passato, accettato e subito passivamente
direttive e comportamenti della nomenclatura del Partito che in cuor suo
rifiutava». Antonio Carli, il suo più grande amico, oggi custode dell’archivio
Niccolai e direttore di “Tabula Rasa”, la rivista che è figlia diretta de “L’Eco
della Versilia”, lo ricorda innanzitutto in ragione di questa «sofferenza». E
spiega: «Andrebbe giudicato sul piano umano. Infatti egli faceva politica a mo’
di interprete degli umili e degli indifesi». quando Niccolai non è più un
deputato, ma semplicemente Niccolai, «da non-deputato -ricorda ancora Carli- si
mise a percorrere tutta la Penisola, da missionario. Il suo linguaggio non era
forbito. Era semplice, come semplice era allora la nostra comunità. Nella quale
lui non aveva la pretesa di portare il Verbo, bensì vivo il desiderio di
scambiare con essa i propri sentimenti e, con essa, poter condividere l’amore
per questa dannata nostra terra e l’orgoglio di appartenervi».

Gli italiani impossibili
Niccolai appartiene alla categoria degli italiani improbabili, di quelli che
vengono difficili anche da raccontare. Arrivato da una prigionia, recluso dagli
americani in un campo di concentramento, si rifiutò per un moto della psiche di
parlare una sola parola di inglese. Vestito di un’eleganza disadorna,
raccoglieva intorno a sé un mondo fabbricato con la fatica «degli umili e degli
indifesi». Se ne accorse Leonardo Sciascia quando, rovistando tra i documenti
della commissione antimafia, ritrovò in Niccolai «una natura diversa e
introversa». E diverso e introverso fu infatti Niccolai. Di quella introversità
e di quella diversità con cui la generazione ultima del MSI bruciò un ultimo
comitato centrale. Per qualcuno, infatti, il MSI non è morto a Fiuggi, ma in
quell’ultima riunione dove, già morto Niccolai, le porte si erano chiuse alle
spalle di alcuni che erano solo spaesati, estranei, eretici senza più Chiesa.
Niccolai è stato anche l’ultimo grande fascista. Fascista di un fascismo
impossibile. (dal periodico Percorsi, diretto da Gennaro Malgieri)
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Pierangelo
Buttafuoco (26
novembre 2020)
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