DICONO

da “Il Giornale” ("la posta"), 7 maggio 1991
 

La lezione di Niccolai


 

Caro Direttore,
leggo su “Il Giornale” del 26 aprile l’ottimo articolo di
Giampiero Mughini che ha inteso ricordare il “caro nemico” Beppe Niccolai.
Mi sono commosso, perché di Niccolai sono stato amico, io “giovane” classe 1952.
Quando Mughini scrisse “Compagni addio”, fu Beppe a segnalarmelo, a me ancora intriso dei postumi velenosi degli “opposti estremismi” e della “strategia della tensione”.
Beppe Niccolai fu per noi -e sia detto senza ombra di retorica- un faro di luce. Eravamo stati aizzati all’odio e allo “scontro fisico” e ci fece comprendere che “non capire le ragioni dell’altro” serve soltanto a fare della Patria lo strame delle soldatesche altrui.
Ci insegnò ad essere «intransigenti con noi stessi per pretendere l’intransigenza dagli altri». Ci tramandò la lezione di Berto Ricci, che ci fece riscoprire, e con lui l’importanza di avere un carattere.
Ci educò a dir sempre quello che si pensa, senza enfasi né metafore e soprattutto ci indusse a considerare la politica non come mestiere ma come servizio per gli altri.
Le sue lezioni non erano teoriche; rifuggì sempre dall’accademismo e in un Parlamento incartapecorito da presenze pluridecennali, ebbe il rarissimo merito di gettare volontariamente il laticlavio alle ortiche e continuare a fare politica.
Anche negli anni bui della strategia della tensione, mentre tutti avevano perso “lo ben de l’intelletto”, Niccolai inneggiò alla pacificazione nazionale. Capiva che gli “opposti estremismi” facevano il gioco del Potere intriso e permeato dai Servizi Segreti deviati e dalle logge della Massoneria. Arrivò a farci leggere Pasolini e i suoi “Scritti Corsari” e vi vedemmo la luce di tesi che, sia pure sostenute da versanti opposti ai nostri, erano condivisibili. Cominciammo allora a comprendere la differenza che sussiste fra nemici e avversari.
Quando Sofri incorse nell’incidente giudiziario ormai famoso, telefonai a Niccolai; «Son tutte balle» mi rispose, lapidario. Non me ne spiegò le motivazioni perché Beppe era stringato nei giudizi ma da allora ho la convinzione che il professor Sofri sia rimasto vittima di una delle solite macchinazioni che il pentitismo ha favorito e generato.
Fu sempre controcorrente, Niccolai, ma subordinò gli interessi di fazione allo spirito della Nazione italiana.
Il suo iperantiamericanismo aveva connotati culturali, di civiltà e nulla possedeva della retorica roboante del nazionalismo che Calamandrei chiamava «rifugio degli ultimi lazzaroni». Per Beppe Niccolai l’amor di patria si sostanziava nel rispetto delle patrie altrui, fatto che lo poneva agli antipodi di un mondo politico in cui erano rimaste vive le cialtronerie burlesche del peggior staracismo.
Di Romano Bilenchi ci ricordava sempre le parole che lo scrittore “cameragno” (li aveva chiamati in tal guisa, nella rubrica “Rosso e Nero” che curava sul “Secolo d’Italia” i fascisti camerati poi divenuti compagni comunisti) aveva proferito: «Non fummo noi ad abbandonare il fascismo; ma questo ad abbandonarci col suo volersi alleare con monarchici, massoni, capitalisti». Ci induceva a pensare sull’eterogenesi dei fini di Augusto Del Noce, ponendosi in rotta di collisione con i tanti “fiaschi vuoti” che affollavano il partito in cui militavamo.  Quando fui costretto a uscirne, mi regalò “Socialismo tricolore” di Giano Accame, a me meridionale con nessuna simpatia per il risorgimento, accompagnato da una lettera in cui mi scriveva: «Che valore ha una tessera quando c’è la religio dello stare insieme?» E con Beppe Niccolai rimasi fino a quando il buon Dio, nel quale credeva con pia devozione, decise di chiamarlo a sé.
Oggi ci sentiamo orfani mentre di lui è rimasto, oltre la foto sulla scrivania, il grande insegnamento di ritrovarsi, al di là delle fazioni, «in ginocchio solo davanti all’Italia, che ci fa bestemmiare ma che vorremmo più macra, vicino alla perfezione dei santi». Berto Ricci può riposare in pace. Aveva lasciato il testimone in buone mani.
Grazie a lei che mi ospita e grazie a Giampiero Mughini che ha voluto ricordare un Uomo come ce ne sono stati pochi in questo lungo dopoguerra.
 

Vito Errico
da "il Giornale", 7 maggio 1991