FRAMMENTI

Riportiamo questo pamphlet pubblicato dal MSI della Toscana nel 1972 ed inviatoci dal sig. Benedetto Bargagli Stoffi di Pisa che ringraziamo di cuore.

 

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Il tiranno senza volto in Toscana (3.750 KB)

 

Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara

Il tiranno senza volto in Toscana

Anatomia del clerico-marxismo nel governo della cosa pubblica

 

 

Il connubio conciliare ha ristretto al minimo, nella circoscrizione più popolosa del vecchio Granducato, i margini di libertà distruggendo, altresì, ogni possibilità di ulteriore sviluppo economico. In Parlamento, alla Regione, nelle Amministrazioni comunali e provinciali, non rimane che la voce dei rappresentanti della destra nazionale -riassunta nel MSI- a denunciare i fenomeni di servilismo, di corruzione, di malcostume istituzionalizzato; di frattura completa fra elettori e partitocrazia, fra il materialismo dei «dittatori occulti» e le istanze spirituali dei giovani.

 


Importanza e validità della «svolta a Destra»
13 giugno - 24 dicembre 1971: due date da ricordarsi, due eventi che fanno giustizia di una infinità di luoghi comuni politici ed interessati. Sotto la spinta di questi due eventi è crollato, come cartapesta, il cosiddetto «arco costituzionale», la più stupida fra le trovate pubblicitarie dei comunisti per inserirsi nel gioco del potere; un errore che, Togliatti vivente, sarebbe costato moltissimo ai suoi ispiratori. Non solo, ma grazie a queste due date (vittoria elettorale del MSI a Roma, in Sicilia ed in molti altri centri d'importanza nazionale e determinante apporto della Destra alla elezione del nuovo Presidente della Repubblica in antitesi con il candidato del risorto «fronte popolare») è finito per sempre il ricatto psicologico che spingeva gli italiani a votare per la Democrazia Cristiana come «il minor male». Si è visto che con una Destra nazionale forte ed unita, non solo si possono condizionare le scelte della DC, ma si può impedire quell'immondo connubio con i comunisti -che era ed è tuttora nell'aria- salvando, così, non soltanto la libertà degli italiani ma anche i valori autentici della democrazia. E questo è un dato di fatto, un valore assoluto, che dimostra come nell'ambito dell'opposizione, l'unico interlocutore valido per la politica italiana sia il MSI, che riassumendo le tradizioni italiane, da quelle risorgimentali a quelle civili, obbliga due partiti -DC e PCI-, fondamentalmente antinazionali per la loro stessa dottrina, a tener conto della realtà della «maggioranza silenziosa». Viene in tal modo spezzata la spirale del ricatto che può riassumersi in queste due posizioni di comodo che durano dal 1945: «Io voto per la DC, in quanto la DC forte impedisce al comunismo di progredire» ovvero «Io voto a sinistra per impedire lo strapotere, le ruberie, il vassallaggio clericale da parte della DC». Tutta questa massa di persone in buona fede può, oggi, compiere un'altra scelta, che è scelta di libertà, nell'ordine e nella pace sociale, non assicurata dai carabinieri, bensì da autentiche radicali riforme che permettano un nuovo modo di valutare i rapporti fra capitale e lavoro, al di fuori delle leggi oppressive ed egoistiche del monopolio pubblico o privato e al di là di una «dittatura sindacale» fondata sulla violenza, che vorrebbe sostituirsi con le stesse caratteristiche, gli stessi difetti e gli stessi uomini alla languente «partitocrazia» che il compianto professor Giuseppe Maranini (il costituzionalista che negli anni sessanta, passò da posizioni socialiste all'idea di una repubblica presidenziale che ridasse dignità e sostanza allo Stato italiano) definì senza mezzi termini: «il tiranno senza volto».

Incisività della «presenza» di Destra
All'alba dello scorso anno il discorso che stiamo impostando adesso, sarebbe stato impossibile oppure sarebbe stato valutato come una follia. Si prospettava un regime oppressivo basato sull'accordo fra le frange clericali di sinistra (forze che, per quanto scarsamente rappresentative, impongono la loro politica alla DC) ed i marxisti. Pronube dell'infame contratto il PSI, quel partito in virtù dell'ingresso del quale nel Governo ognuno avrebbe dovuto «sentirsi libero».
Poi c'è stata la rivolta della «maggioranza silenziosa». Che cosa è questa «maggioranza silenziosa»? Non è certo un partito, né un sindacato, ma è l'una e l'altra cosa. Ha le caratteristiche di riconoscere il proprio simbolo nel tricolore e di abbracciare tutte le classi sociali, dall'operaio al professionista, all'agricoltore, al piccolo e medio industriale, dall'insegnante al «colletto bianco» ed al militare che servono silenziosamente lo Stato, mal pagati e peggio trattati. Tutta questa gente che sino ad oggi aveva votato, in gran parte, per i partiti del regime ha presentato il conto, nel modo più civile possibile, scendendo in piazza ed agitando da Milano a Torino, da Roma, a Napoli a Palermo, semplici bandiere tricolori e cartelli con sopra scritto la parola «basta». I «partitocrati», i tirannelli occulti, chiusi nel gioco delle loro piccole manovre di tutti i giorni, non hanno creduto a tanta gente dal volto onesto. Non hanno creduto a chi invocava libertà di lavoro e libertà di studio. Ed il 13 giugno sono stati serviti nella maniera più democratica possibile: con il voto, che se fosse stato un voto nazionale -dato che le indagini demoscopiche danno il 21 per cento dei suffragi di Milano al MSI- sarebbe divenuto valanga ed avrebbe mutato le sorti della Nazione con qualche anno di anticipo.
I risultati elettorali scanditi con aria funerea dai giornalisti del regime, lautamente stipendiati dal monopolio televisivo, sono caduti come una improvvisa doccia fredda sui «furori conciliari». La Sicilia e Roma, erano «insorte» condannando venticinque anni di malcostume e di tradimenti dell'elettorato. Si è parlato di «voto di protesta». Verissimo; ma voto non recuperabile, perché il popolo italiano ha voltato una pagina della sua storia.
Che questa affermazione sia vera lo possiamo dedurre dal fatto che fra il giugno ed il dicembre del 1971, la partitocrazia non ha rimediato ad alcuno dei suoi tragici errori. Al «fronte antifascista» basato sulle bombe «socialiste» di Catanzaro si è sostituito il ridicolo (e ridicolizzato) «arco costituzionale». Poi, in extremis, si è cercato di costituire l'«arco democratico». Non si è avuto, invece, nessun atto di coraggio da parte degli schieramenti politici che fanno professione di anticomunismo elettorale. La DC si è tenuta i suoi Moro, Donat Cattin e De Mita; il PSDI si è sacrificato sull'altare delle ambizioni senili di Giuseppe Saragat; il PRI ha ondeggiato fra Nenni e le posizioni che possono fruttare voti ai danni dei suoi stessi alleati di governo; il PLI è accorso al richiamo della foresta «centrista», una foresta dove rimangono solo belve fameliche fra alberi risecchiti.
Si è arrivati così alla battaglia presidenziale. Amintore Fanfani è stato immolato con rito tribale e cannibalesco dai suoi stessi seguaci, complice quell'Arnaldo Forlani che avrebbe fatto molto meglio a continuare la onorata carriera del calciatore, anziché darsi alla politica per tradire prima Tambroni poi il suo nuovo padrone di Arezzo. Successivamente si è tirata fuori dalla manica la carta di Aldo Moro, l'uomo dei comunisti. La manovra non è riuscita proprio perché la Destra era presente non solo con i suoi 43 deputati, ma con tutta la forza che le proviene dalla nuova situazione politica del paese. Ed infatti un ministro democristiano rivolto ai «grandi elettori» del suo partito ha detto: «se puntiamo su Moro, cento di voi non ritorneranno più in questa aula». La minaccia ha sortito il suo effetto con l'elezione «obbligatoria» di Giovanni Leone il quale -tuttavia- senza l'apporto determinante dei 43 voti missini e monarchici che hanno coperto la dissidenza degli estremisti democristiani, non sarebbe salito al Quirinale.
Quindi, il 24 dicembre, se comunisti, socialisti ed accodati sono usciti scornati per la più cocente sconfitta ricevuta in questo dopoguerra, la DC non può certamente essere considerata la vincitrice. E perché le cose vadano al meglio occorre che veramente cento deputati democristiani non ritornino più alla Camera, unitamente ad un proporzionale numero di senatori.
Una grande Destra, una forte Destra è in grado di impedire nuovi, ulteriori cedimenti, è in grado di bloccare l'avanzata delle forze di sinistra come provano i voti strappati al PCI in Sicilia. Anche perché la socialità della Destra politica (la destra economica la potete trovare nella DC, nel PSDI, nel PSI e nel PRI, quando non addirittura fra i finanziatori del PCI) è tale da garantire le vere fondamentali riforme, necessarie per fare dell'Italia uno Stato moderno ed al tempo stesso offrire ai lavoratori quel benessere cui essi hanno diritto, benessere non solo materiale ma anche morale, ottenibile attraverso una maggiore partecipazione ed una lotta serrata all'alienazione sui posti di lavoro.
Questa, dunque, l'incisività della «presenza di destra» laddove si decidono le sorti del Paese.

La Destra nazionale in Toscana
Tanto più importante e decisiva è questa presenza nelle cosiddette «regioni rosse», come la Toscana, dove sul terreno dei fatti concreti opera un «bipartitismo imperfetto» che vede da un lato, avviluppati dagli interessi comuni (ovviamente più affaristici che politici) PCI e DC e dall'altro la «maggioranza silenziosa», vittima di prevaricazioni di ogni genere anche se «colpevole» di aver creduto, per troppo tempo, nei clericali e nei loro alleati che, da queste parti, contano meno del due di briscola e si contentano delle briciole che cadono dalla tavola dei due più grossi padroni.
In Toscana, dunque, gli uomini della Destra al Parlamento nazionale, alla Regione, nelle amministrazioni comunali e provinciali, difendono un dato di libertà fondamentale e sono rimasti gli unici (dopo che il PLI è rimasto svuotato per le dimissioni di alcuni fra i suoi più importanti esponenti, come a Firenze; o per essere caduto in mano alla sinistra radicaleggiante del partito) a contestare, giorno per giorno, ora per ora, caso per caso, paesello per paesello, le prepotenze dei clerico-marxisti, le rapine da questi messe in atto nei confronti di coloro che lavorano e producono in condizioni di inferiorità, perché resi continuamente incerti sul loro avvenire da un clima che ricorda, più che la partitocrazia francese affossata da De Gaulle, i sistemi dei «sindacati» di «Cosa nostra». Per questa situazione di ricatto sistematico, i cittadini toscani (come gli umbri e gli emiliani e, forse, fra poco, i lombardi) tardano a svegliarsi e ad infliggere alle sinistre comuniste, socialiste e democristiane la lezione che esse meritano.
Ma i tempi stanno maturando e, proprio con questo studio approfondito della situazione politica ed economica, nella circoscrizione più popolosa e, al contempo, più bisognosa di autentica buona amministrazione della Toscana, intendiamo contribuire con fatti nuovi, ricordi scottanti, raffronti con situazioni del passato recente e lontano, ad accelerare il processo di decomposizione dell'ormai defunta «partitocrazia», rimasta in vita soltanto come consorteria mafiosa.

Luoghi comuni e verità
Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara, la circoscrizione occidentale della Toscana, 814 comuni in quattro provincie, 1.287.046 abitanti prima del censimento. Politicamente due provincie rosse, una rosseggiante (Massa Carrara) ed una (Lucca) bianca. Sul piano pratico ben poca differenza, dato che le popolazioni sono alla mercé di due clericalismi che si fanno scuola fra loro. Sociologicamente queste quattro provincie toscane possono essere prese a modello per una serie di indagini e considerazioni che dimostrano, in conclusione, come il popolo toscano -il più libero nel linguaggio- sia fra i più asserviti al carro della democrazia mafiosa che sta conducendo l'Italia alla rovina, a meno che non si voglia considerare come piena libertà la più innocua fra le libertà civili, quella del mugugno, che gli autocrati più illuminati (e da queste parti .è vivo il ricordo e forse il rimpianto dei Granduchi di Lorena) lasciavano e lasciano ai loro sottoposti.
Ma la vera libertà, quella di sapere dove va a finire il pubblico denaro, di conoscere come e perché si viene amministrati (o non amministrati affatto) in un certo modo, di influire dal basso sulle scelte compiute in alto dai presunti «eletti dal popolo»; questa libertà, insomma, non esiste né potrà mai esistere se le cose continuano ad andare come vanno, poiché nel soggiogare le popolazioni i clericali rossi e bianchi sono inflessibili. Il risultato è che le quattro provincie in esame sono fra le peggio amministrate d'Italia e fra le più soggette all'oppressione occulta che deriva dal potere gestito con la corruzione, sia essa corruzione morale o materiale; comporti essa, per i corrotti, vantaggi di carriera ovvero possibilità di illecito arricchimento.
Per dare inizio ad una seria analisi su questa «isola di malgoverno» basata sugli equilibri più avanzati, occorre far giustizia sommaria di uno dei luoghi comuni più falsi di quest'ultimo quarto di secolo. Vale a dire che soltanto la DC sia portatrice di corruzione e che i comunisti, invece, da furbi, tengano molto alla cosiddetta «buona amministrazione» impersonificata per anni, nella liturgia partitocratica, dalla figura bonaria -tutta agnolotti e Cardinal Lercaro- di Peppone Dozza, primo sindaco di Bologna.
I democristiani sono, in effetti, pessimi amministratori e spesso stupidamente tali, esercitando il potere soltanto per spolpare il più possibile l'osso; ma i comunisti sono sulla loro strada. L'enorme serie di scandali edilizi -i più facili a scoprirsi- da Bologna a Rimini (dove, alla fine di dicembre del 1971 sono stati incriminati due assessori), da Riccione alla «cintura rossa» di Firenze, da Pistoia, a Carrara, a Tirrenia, da Migliarino all'Isola d'Elba, intere zone di grande interesse turistico o abitativo o ecologico sono state deturpate da coloro sui quali nessun regista «impegnato» girerà un film intitolato "Le mani rosse sulla città".
I comunisti, dunque, non sono che dei volgari partitocrati, soltanto che svolgono la loro azione politica e corruttrice non ai fini di una «dittatura del proletariato» ma al servizio degli interessi di una potenza straniera, l'Unione Sovietica, che allenta o tira le briglie sul collo, a seconda che essi disturbino o meno i suoi piani di «aggressione pacifica» all'Europa.
Agiscono, pertanto, con sistemi clientelistici della peggiore specie ed arrivano con le minacce (imposta di famiglia, licenze commerciali, licenze edilizie, e via dicendo) dove non arriverebbero mai con il convincimento.
Le città affidate a giunte frontiste (nel nostro caso Pisa, Livorno, e Carrara oltre le centinaia di centri minori) sono abbandonate, desolate, gonfie di bisogni inascoltati; città che anziché viaggiare verso il futuro, si ripiegano in una asfissia lenta e inesorabile; città, comuni e provincie alle quali basterebbe un minimo di aiuto da parte di amministratori efficienti e capaci, per consentire ai cittadini, pieni di buona volontà, di produrre ed affrancarsi dalla miseria e che, invece, il comunismo ed i suoi alleati bloccano in un grande ghetto di immobilismo, per il quale gli amministratori rossi hanno sempre una spiegazione pronta, una scusa da sollevare, una accusa da lanciare contro il fantasma del governo centrale.
Pisa, Livorno, e Massa Carrara prese nel loro complesso dimostrano questo nostro assunto. Non hanno più forza vitale e, quel poco che viene fatto, viene compiuto per il volere di privati coraggiosi (ma che vanno sempre più rarefacendosi), mentre ogni iniziativa che non comporti tangenti cospicue per le avide casse del PCI e del PSI, è destinata ad essere boicottata, quando non addirittura stroncata sul nascere.
Non si tratta di esagerazioni polemiche dettate dalla «concorrenza» politica. Esiste tutta una casistica in grado di dimostrare che la Toscana occidentale è stata -negli ultimi cinque lustri- una delle zone più sconvolte da scandali, grossi e piccoli. Un calvario di irregolarità palesi e occulte, una vergognosa serie di esempi di malgoverno, tanto peggiori in quanto giustificati dalla presunta «socialità» delle intraprese. Per cui coloro che li scoprono sono nemici del popolo, coloro che li denunciano dovrebbero andare alla forca, naturalmente sotto l'albero della libertà piantato con la riconquistata democrazia. Insomma chi osa criticare è un «fascista».

La forza della Destra
Scrive Giuseppe Prezzolini, nel suo inimitabile "Codice della vita italiana": «L'Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l'Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono». Questo pessimismo è temperato dal pensiero che segue: «Per andare avanti ci sono due sistemi. Uno è buono, ma l'altro è migliore. Il primo è leccare i furbi. Ma riesce meglio il secondo che consiste nel far loro paura: 1) perché non c'è furbo che non abbia qualche marachella da nascondere; 2) perché non c'è furbo che non preferisca il quieto vivere alla lotta, e l'associazione con altri briganti alla guerra contro questi».
Questi paradossi educativi del vecchio Maestro de "La Voce", possono servire egregiamente ad illustrare quale è la funzione della Destra nazionale (del suo deputato, dei suoi consiglieri comunali, provinciali e regionali) in una morta gora come quella che, grazie al citato matrimonio incestuoso fra clericali e marxisti, governa le provincie di Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara. Con una sola differenza, che in una di queste l'opposizione di Sua Maestà (vale a dire la DC) ed il Governo di Sua Maestà (PCI e PSI) si danno il cambio, mentre nell'ultima si basano sull'imperialistico «fifty-fifty».
Stando all'assioma prezzoliniano se, per caso, «il fesso che fa paura» non ci sta ad associarsi con il «furbo brigante», allora sono guai. Trasferendoci dalla teoria alla pratica, se l'eletto di Destra al Parlamento -nel caso specifico l'onorevole Giuseppe Niccolai, definito da "l'Avanti!" terrorizzato, il «moralizzatore numero uno» del Parlamento italiano- ovvero nei consigli degli enti locali, non ci sta a fare l'oppositore «buono» e alza la voce, e pubblica scandali, la prospettiva del sole a scacchi diventa possibile per il «furbo» ladro ma troppo incauto.
Ancora Prezzolini: «Non è vero che l'Italia sia un paese disorganizzato. Bisogna intendersi: qui la forma di organizzazione è la camorra. Il partito, come la religione, la vita comunale come la economica prendono inevitabilmente questo aspetto. Non manca disciplina: ma è la disciplina propria della camorra, l'ultra disciplina che va dal fas al nefas».
L'antico direttore de "La Voce" ha nuovamente ragione. Ma in politica alcune cose cambiano. E ciò succede quando i «fessi» stanchi del giogo prendono coscienza. Merito precipuo della Destra nazionale è quello di essersi fatta portavoce delle istanze dei «fessi che lavorano» e di averle tradotte in una azione politica dirompente che, soltanto le ultime resistenze corruttrici dell'attuale regime dei partiti, rallentano ma non fermano. Il gioco è scoperto perché la camorra partitocratica (o la democrazia mafiosa come diceva Panfilo Gentile) hanno tirato troppo la corda. E in certe circostanze persino Renzo Tramaglino riesce a trovare il coraggio di opporsi alle violenze delle «autorità». Anche se queste «autorità» trovano difesa sotto il tarmato lenzuolo del fantasma antifascista».

Antifascismo e porcherie
Quando si parla di antifascismo bisogna intendersi. Non vogliamo parlare dei vecchi antifascisti, di coloro che hanno veramente avversato il passato regime. Oggi c'è un nuovo antifascismo che equivale a camorra, a omertà collettiva sulle porcherie che vengono commesse ogni giorno dai partitocrati, rossi o bianchi che siano. Contro questo «antifascismo» volgiamo la polemica, in quanto l'aver resuscitato una vecchia divisione fra gli italiani, non più sentita né dai giovani, né dai vecchi che pur furono i protagonisti della lotta fratricida, è un delitto contro la Patria. Ma l'averla resuscitata soprattutto per evitare una chiarificazione politica generale e per cercar di chiamare solidarietà del tutto fuori posto e fuori luogo, allo scopo di evitare quelle manette che, prima o poi, dovranno stringersi attorno ai polsi dei disonesti, ebbene è ancor più di un delitto, è il massimo della delinquenza politica.
La ventata di antifascismo di ritorno ha coinciso con lo stringersi delle accuse contro i socialisti i quali, guardatisi d'intorno come lepri braccate, scorgendo all'orizzonte l'ombra dei carabinieri, hanno ritenuto opportuno cercare solidarietà laddove la potevano trovare, vale a dire alla loro sinistra. Il PCI era lì pronto ad usare tutta la forza della sua mafia, ad utilizzare tutti i suoi «professionisti della Resistenza» come li ha chiamati di recente un giornalista romano non certo sospetto di simpatie fasciste, ed improvvisamente l'Italia si è accorta che esisteva un «pericolo fascista».
In Toscana, poi, queste vicende hanno raggiunto vertici di grottesco. Lelio Lagorio, il presidente della Giunta regionale che da nenniano è diventato tuttofare al servizio del PCI, si è scordato del passato di podestà di Volterra di suo padre ed ha sventolato il suo martirio antifascista riassunto nel fatto che tiene una riproduzione del "Guernica" di Picasso nel suo studio. Sono usciti dall'ombra i vari Nicola Badaloni, Silvano Filippelli, Maccarrone, tutti «antifascisti» della prima ora tanto che risultano ex appartenenti delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana.

 

Per Maccarrone,

 

il PCI non stampa

 

 manifesti dal titolo:

 

"È vero"

 


E tutto ciò perché? Per due ragioni pratiche: 1) per coprire le porcherie socialiste che, se sono grandi al centro, in Toscana sono grandissime; 2) per consentire l'inserimento indolore, avvolto nel logoro panno del patriottismo resistenziale, dei comunisti nell'area del potere effettivo, laddove non ci sono di già.
Ricordate la frase pronunciata, al momento delle elezioni regionali, dal segretario del PCI di Lucca al Sindaco democristiano di quella città: «D'ora in avanti dovrete fare ciò che vorremo noi»? Il democristiano subì. Ed i risultati sono noti. Anche in quei pochi posti dove il massimalismo di sinistra non ha mai allignato, i comunisti sono in grado di determinare scelte politiche ed amministrative. E sono scelte quasi sempre in sintonia con la concezione mafiosa che PCI e PSI hanno della società, concezione che trova terreno fertile nel clericalismo democristiano.

Il volto della classe dirigente
L'antifascismo scatenato sul piano nazionale è servito ai piccoli personaggi che guidano la politica locale nella Toscana d'occidente per far la voce grossa, gonfiare il torace, salir su piedistalli che non gli competono e tentar di somigliare ai loro predecessori. Difatti, e qui sta una delle cause fondamentali dell'attuale stato di caos, negli ultimi venticinque anni, il livello della classe politica della circoscrizione in esame è andato sempre più deteriorandosi. Una «crisi di decrescenza» ha colpito la politica partitocratica e dai protagonisti che portavano il nome della Toscana in campo nazionale sino a far parlare nuovamente di «Granducato», sino a far rivivere -come nel secolo scorso, ai tempi del Ferdinando Martini e del Ricasoli- la definizione di «cricca toscana», oggi si è passati ai portatori d'acqua muti e passivi.
Prendiamo la DC: Gronchi, Togni, Angelini, l'ex presidente dell'IRI, Fascetti e via dicendo, nel dopoguerra; oggi: Merli, Meucci, Lucchesi e la Maria Eletta Martini per i quali il bel tacer non fu mai scritto. Anche per i socialisti ed i comunisti (non parliamo dei psiuppini che contano solo come valletti del PCI) dai vecchi fusti, forse rozzi, forse un po' incolti ma che avevano qualche supporto ideale, siamo passati ai freddi professorini, alla gente che mira contemporaneamente all'edificazione dello stato socialista ed alla costruzione del proprio conto in banca, all'instaurazione della dittatura del proletariato ed all'ultimo tipo di barca da diporto. Insomma la partitocrazia toscana ha la classe dirigente che si merita, degna in tutto e per tutto del tipo di società senza ideali, braccio secolare di una tirannia fellona che opprime e perseguita chi le si oppone con sistemi degni dei «bravi» manzoniani e che , quasi sempre, si trova sulla propria strada dei Don Abbondio.
Alla categoria dei Don Abbondio politici appartengono, purtroppo, anche i liberali, i quali hanno dovuto far ricorso a personaggi di fuori per poter dare lustro alle loro liste elettorali. Ed allora, come i comunisti hanno dovuto chiamare da Roma Terracini per rimpolpare con un nome di prestigio le loro anemiche (intellettualmente e moralmente) file, così i liberali dopo aver fornito ogni appoggio diretto ed indiretto al centrosinistra, dopo aver solidarizzato con tutte le buffonate degli antifascisti in ritardo, hanno dovuto nel 1968 ricorrere alla leggendaria figura dell'onorevole Luigi Durand de la Penne, medaglia d'oro dei mezzi d'assalto, per cercare di far dimenticare agli elettori la loro diserzione, il tradimento al mandato ricevuto nel 1963. Ma non sono stati creduti. Perché mai come ai nostri giorni, un vero liberale -che è patriota in senso risorgimentale- è distante dalle posizioni autocratiche di Giovanni Malagodi, tutto teso verso la riconquista di una misera fettina di potere, mentre l'Italia intera sta crollando. I dirigenti del PLI in Toscana sono malagodiani oppure -come è il caso del consigliere subentrato al Comune di Pisa- appartengono alla sinistra di Bonea, cioè sono pronti a passare armi e bagagli al partito repubblicano od ai socialisti come molti loro predecessori, essendo il partito liberale di questo dopoguerra paragonabile ad uno staio di allevamento per futuri repubblicani, socialisti, socialdemocratici, e persino comunisti e psiuppini (si veda l'Antologia di "Critica liberale", curata dall'ex liberale ed oggi docente universitario per meriti saragattiani Giampiero Orsello, e se ne scopriranno delle belle). Tanto più che il fenomeno continua. Nella stessa Pisa la Federazione liberale è caduta in mano ai «giovani turchi» di Bonea che mal sopportano i vecchi esponenti ai quali, se non altro, bisogna riconoscere coerenza, serietà e un modo integerrimo di fare politica. Per cui l'elettorato liberale non si riconosce più nel partito che porta questo nome e va allontanandosi verso lidi migliori dove la libertà -intesa nel senso risorgimentale- non è stata tradita.

La Destra contro tutti
Di fronte a questo schieramento in decomposizione c'è adesso, con il bagaglio delle sue esperienze e delle sue recenti vittorie che ne hanno accresciuto il peso politico, il Movimento Sociale Italiano, partito capace di recuperare tutti i settori dell'opinione pubblica orientati verso le tesi nazionali, patriottiche, sociali (nel senso esatto della parola che esclude ogni spirito di classe) che intendono opporsi concretamente al perdurare di una situazione che sta portando il nostro Paese alla rovina. Abbandonati riti che non dicevano più nulla, affrontati invece problemi concreti, avallata la sua azione da una sempre più numerosa pattuglia di intellettuali coraggiosi che dibattono sul modo di uscire dal vicolo cieco nel quale la restaurazione «giolittiana» di un regime che aveva provocato il Fascismo, ci ha cacciati; i missini hanno tutte le carte in regola per chiedere alla DC ed agli altri partiti presupposti democratici, quando non addirittura ai partiti di sinistra, la restituzione di voti indebitamente trattenuti per le naturali conseguenze della guerra civile.
In questa circoscrizione il MSI ha uno dei suoi uomini più preparati, nella persona -come abbiamo detto- dell'onorevole Giuseppe Niccolai; ha inoltre consiglieri comunali e provinciali dappertutto, ovunque stimati per la loro onestà e per la incorruttibilità. Non è, per ora, un grande schieramento, ma è uno schieramento che si fa sentire.
Prima di tutto va valutata la differenza fra Niccolai ed i suoi colleghi che rappresentano la Toscana occidentale a Montecitorio ed a Palazzo Madama. Mentre i secondi mirano solo al piccolo cabotaggio elettorale, il parlamentare missino si è impegnato a fondo in una serie clamorosa di battaglie moralizzatoci che riguardano sia la Toscana (ed in questo quadro va osservata, con ammirazione, la sua costante presenza al consiglio comunale di Pisa, dove siede da anni in veste di pubblico accusatore), sia la vita pubblica nazionale, dal costo del Parlamento, alla vicenda di Mancini, dalle attività dei seguaci di Aldo Moro ai lucrosi stipendi dell'ente radiotelevisivo, dall'inutilità di un fronte antifascista quando la Commissione per le autorizzazioni a procedere è presieduta da Giuliano Vassalli, socialista, amico di Mancini ma, negli anni trenta, fervente giurista fascista, tanto da essere scelto giovanissimo per la cattedra e da essere inviato, come componente dalla commissione italiana, al convegno nazi-fascista di Vienna, dove le comuni questioni di interesse giuridico vennero discusse alla presenza di alcuni fra i più autorevoli esponenti nazisti condannati a Norimberga.
«Moralizzatore numero uno» ha scritto "l'Avanti!". E non faceva dell'ironia, perché i socialisti ne sono incapaci, quando le accuse intaccano alla base le fonti di finanziamento del loro partito.
Ed a questo proposito -prima di passare- ad un esame puntiglioso della circoscrizione toscano-occidentale, sarà bene ricordare che Niccolai ha presentato come suo primo atto di legislatore un provvedimento per l'anagrafe tributaria dei parlamentari, per poter stabilire, alla fine del mandato, quali «balzi in avanti» abbia fatto il loro patrimonio. La proposta non è stata accettata. Eppure chi non aveva niente da perdere poteva ben farla sua!
 


A questo punto non rimane che «scendere ai particolari», pur rendendoci conto che lo spazio non consentirà di riportare integralmente tutti i soprusi, tutte le soperchierie commesse dall'«arco costituzionale» toscano. Rimane in ogni modo consultabile la collezione de "il Machiavelli" giornale «disintegratore del malcostume politico» fondato e diretto da Niccolai da circa venti anni e le cui vendite sono in crescente espansione, segno dell'aria che tira in Toscana. Rimangono, inoltre, agli atti dei singoli consigli comunali e provinciali, gli interventi moralizzatori degli uomini del MSI che in Niccolai hanno il loro leader apprezzato, oltre che per le innate doti politiche, per la difesa delle «mani pulite» che è diventata un po' l'idea fissa della gente comune che ne ha viste di cotte e di crude. Idea fissa e speranza della «maggioranza silenziosa» dei toscani.

I «cileni» di Pisa
«O Pisa, o Pisa, per la fluviale / melodia che fa si dolce il tuo riposo»: cantava, così, Gabriele d'Annunzio nelle sue "Città del silenzio". Oggi il «riposo» non è più tanto dolce ma può trasformarsi in «eterno» perché difficilmente può riscontrarsi in Italia il caso di una città mal governata come questa. Se vogliamo indulgere in paragoni storici, Pisa è una piccola IV Repubblica alla francese, dove le Giunte comunali (quelle provinciali sono appannaggio frontista) cadono con un ritmo talmente frequente da renderne impossibile l'esatto conteggio. Ed i problemi rimangono insoluti. Alcuni di questi problemi hanno dato al popolino motivi per più di una frecciata che avrebbe fatto felice il Fucini. Ma la cosa è seria e le giunte cadono quando tentano di fare qualcosa, perché attorno a quel «qualcosa» c'è sempre uno scannamento generale. I motivi sono facilmente intuibili.
Città universitaria, provincia agricola, Pisa aveva iniziato la sua industrializzazione durante il fascismo quando nume tutelare della città di cui era stato sindaco e podestà, era il sottosegretario all'Interno (e poi ministro durante la RSI) Guido Buffarmi Guidi. Nell'immediato dopoguerra, funzionante il «Granducato», i Gronchi, i Fascetti, i Togni e gli Angelini in concorrenza fra loro tentarono di «ricostruire» se non altro per ragioni di clientela. Qualche industria fu dirottata verso la provincia, qualche altra abboccò a promesse compensative. Insomma sembrava che anche a Pisa si incominciasse a respirare l'aria del «miracolo» di cui si parlava in tutta Italia. Oggi, dopo dieci anni di centrosinistra, Pisa è un cimitero di industrie. Un piano regolatore jugulatorio ha gettato nella disoccupazione le maestranze dell'edilizia, una industria, questa, direttamente collegata con lo sviluppo economico della città capoluogo e delle città satelliti, da Pontedera a Volterra. Dal 1967 ad oggi l'Università è stata paralizzata da un manipolo di violenti che, ben conosciuti ai docenti e alle forze dell'ordine, hanno potuto seminare sangue e violenza fino a quando hanno voluto, sparpagliandosi poi -vedi il professorino Adriano Sofri- a gettare il seme della sovversione nel resto d'Italia da Torino a Reggio Calabria (dove, però, non hanno trovato aria per i loro polmoni marxisti).
Ci sono opere pubbliche che attendono da tempo indeterminato una conclusione: dal ponte Solferino al Palazzetto dello Sport (il Colosseo pisano) al famoso inceneritore dei rifiuti riguardo al quale «chi parla è perduto».
Città e provincia dalle immense necessità. Ma la partitocrazia non ha saputo far altro che figliare, negli ultimi tempi dell'estate scorsa, un nuovo esperimento amministrativo: la prima giunta comunale «cilena» d'Italia. Cattolici di sinistra, comunisti, socialisti, psiuppini hanno dato vita ad una alleanza che i giornali conformisti chiamerebbero «innaturale» ma che è invece «naturalissima» poiché si tratta di varie schiere di un medesimo «superpartito». Perché «giunta cilena»? Le notizie che vengono dal paese sudamericano dove il socialista Allende sta instaurando la dittatura per i comunisti, dopo essere stato portato alla Presidenza della Repubblica dai democristiani, ai quali cuce la bocca sequestrando giornali e stazioni radio, perseguitando i religiosi, chiudendo i maggiori collegi cattolici, sono indicative al riguardo. A Pisa non siamo a quel punto, perché sino ad oggi -con Aosta e qualche paesello meridionale- l'esperimento «cileno» è circoscritto. Inoltre a Pisa il Movimento Sociale Italiano è il terzo partito ed i suoi consensi sono destinati ad aumentare, anzi possono già ritenersi aumentati perché la gente non sta più zitta e parla, protesta ed infine troverà il coraggio di scendere in piazza e gridare dinanzi a Palazzo Gambacorti il suo sdegno contro tutti. Per le sinistre che hanno tradito le istanze popolari, per i democristiani di sinistra che si sono alleati alle congregazioni marxiste; per i democristiani ortodossi che non hanno saputo e non vogliono usare il bisturi nel timore -dichiarato- che questa Giunta riesca a portare a compimento qualche opera pubblica importante varata sotto le precedenti amministrazioni di centrosinistra.
Che povera cosa anche queste precedenti amministrazioni! Se oggi abbiamo un «Papa rosso» nella persona del tronfio sindaco forzanovista Elia Lazzari, ieri abbiamo avuto altri sindaci, indubbiamente più preparati e meno tronfi, ma immobili nell'attesa che accadesse qualcosa per salvarli da una paralisi da poltrona. Le loro giunte erano soltanto uffici procacciamento posti per pochi privilegiati, mentre l'intera sfera economica pisana perdeva colpi su colpi. Tutto ciò con l'intervallo della sindachessa socialista (demartiniana) Fausta Cecchini, nota mangiatrice di pane e antifascismo, una primula rossa che vive di rendita sul suo passato «partigiano», il che non le impedisce affatto di riposarsi delle fatiche di amministratrice socialcomunista e di insegnante settaria nei confronti di studenti che non gradiscono affatto le sue impostazioni «storiche», in una abitazione per capitalisti mi-lionari.
 

Il superattico della compagna Fausta Cecchini… e i … superattici dei compagni.


ILe parti che Fausta Cecchini ha avuto nei torbidi della contestazione violenta, quando un povero ragazzo che non c'entrava nulla fu colpito a morte, sono state tali da squalificare per sempre un personaggio politico, rivoluzionario da salotto, incapace di avere il minimo self control.

Piano Regolatore, Marina di Pisa, Tirrenia e la pineta di Migliarino
Alla paresi delle amministrazioni comunale e provinciale (quest'ultima, poi, in mano a comunisti dal cervello piuttosto mal funzionante, non è altro che un centro clientelistico e, al tempo stesso, un ricovero per estremisti dinamitardi come il geometra Corbara) ha corrisposto una grave crisi di fiducia che si è trasformata in un fallimento completo dei tentativi di industrializzazione (concretizzatosi nella crisi di industrie come la Saint Gobain e la Marzotto e nel ridimensionamento dei programmi da parte di altri imprenditori; nella fuga di coloro che avevano pensato a Pisa come ad una possibile tappa produttiva nel quadro dei programmi per la "Terza Italia"). Precipitando, così, le vicende economiche pisane c'era da pensare ad un rimedio, da trovarsi, se non altro, in quel toccasana tuttofare degli italiani che è il turismo. Chilometri e chilometri di costa, pinete marittime, colline meravigliose, un entroterra affascinante dal punto di vista monumentale, a cominciare dal capoluogo mèta dei turisti di tutto il mondo dall'ottocento ad oggi, potevano costituire i punti focali di un tentativo di rinascita, senza, naturalmente, perdere di vista altri obiettivi. Invece nulla di tutto questo è stato fatto.
Si legge su "il Machiavelli" del 24 marzo 1968 sotto il titolo "La città del silenzio": «La tragica farsa giocata sulla pelle dell'intera città e cioè di tutte le sue componenti che vanno dagli strati più umili alla grandi industrie, dagli istituti universitari, agli enti, alle associazioni avrebbero voluta farla durare almeno fino agli ultimi di maggio» (Vale a dire fino alle elezioni politiche del 1968 - N.d.R.). Così l'inganno -proseguiva "il Machiavelli"- sarebbe stato completo, la truffa magistralmente congegnata, il delitto perfetto. Invece la farsa si conclude oggi e non certo per volontà dei nostri melanconici amministratori. La farsa si conclude oggi perché solo oggi noi sappiamo, e possiamo sollevare lo scandalo denunciando autori ed attori, comparse ed inservienti e tutto ciò, si badi bene, senza alcun recondito disegno politico perché è da tre anni che conduciamo una coerente battaglia contro il cervellotico parto del «clan» Piccinato. Il Piano Regolatore Generale per la città di Pisa -redatto da due presuntuosi ma inesperti galoppini del consulente Piccinato (vecchio marpione voltagabbana che ha spumeggiato nel fascismo ed ora condiziona l'urbanistica antifascista) nonostante abbia ignorato le reali esigenze della città, rivelandosi punitivo e fortemente lesivo di pubblici e privati interessi- è stato approvato a Roma dove il vecchio trombone la fa da padrone. Tutte le osservazioni, anche quelle avanzate dalla giunta di centrosinistra, sono state respinte. Eccezione soltanto per il terzo albergo di Tirrenia e per i terreni di proprietà dei signori Ponti e Loren».

 

Carlo Ponti con l'on. Francesco De Martino.

Il regista è socialista.

Anche Piccinato.

 

Fin qui «il disintegratore del malcostume politico». Ma poi sono saltate fuori tante altre vicende. Si è saputo che dietro il terzo albergo di Tirrenia si muovono «alcune fra le più poderose mascelle del regime», mentre i terreni di Carlo Ponti e Sofia Loren hanno tutta una loro storia da raccontarsi.
Dunque, mentre altre località del litorale come Marina di Pisa, agonizzano abbandonate, ora devastate da alluvioni, ora sconvolte da mareggiate, si stabiliva di stralciare dal PRG di Pisa, il piano particolareggiato di Tirrenia. Verso Tirrenia, durante il fascismo, erano appuntate molte delle speranze turistico-lavorative dei pisani. A Tirrenia, infatti, erano sorti gli stabilimenti cinematografici di Giovacchino Forzano, allora all'apice della sua gloria di autore drammatico, di regista, di librettista e di cineasta. Giovacchino Forzano, grande anima e grande intelletto, uomo dalle mani bucate, generoso fino all'estremo, profuse molti dei suoi guadagni raccolti in tutto il mondo, a Tirrenia. Il regime fascista dal canto suo fondò l'Ente Tirrenia che avrebbe dovuto proteggere la zona da speculazioni, facendone una seconda Viareggio e, nello stesso tempo, una seconda Cinecittà maggiormente dotata di spazi per le riprese in esterno rispetto alla consorella romana.
Venne il dopoguerra. Forzano fu perseguitato per aver scritto un dramma insieme a Mussolini. Perse tutto. Venne isolato, gli furono contestati enormi profitti di regime. Non ebbe (anche per l'età, nonostante fosse un vecchio leone lottatore) la forza di risollevarsi. E fallì a Tirrenia. A questo punto comparve in scena il signor Carlo Ponti consorte dell'attrice, come lui fiscalmente francese, Sophia Loren. L'affiatata coppia cinematografica, sempre presente ai comizi di Pietro Nenni, nonostante l'affinità con Romano Mussolini, ebbe -grazie al compiacente interessamento delle autorità- la possibilità di mettere le mani sui terreni e sugli stabilimenti di Forzano per un tozzo di pane. Il vecchio, grande scrittore e uomo di teatro ebbe salva la sua onorabilità commerciale ma morì, lo scorso anno, nella miseria più nera con ventimila lire al mese di pensione da parte di quel ridicolo organismo che è la Cassa di Previdenza degli Autori Drammatici.
Intanto, grazie agli architetti Dodi e Piccinato, autori del piano speciale per Tirrenia si consentiva la costruzione su alcuni dei terreni già appartenenti a Forzano (e pensare che Ponti aveva promesso solennemente di riaprire gli stabilimenti e di dare nuovo lavoro alla mano d'opera locale specializzata: in quell'occasione tutte le Autorità furono mobilitate per onorare il magnate cinematografico, come dimostrano le fotografie) mentre venivano vincolati a verde i terreni di proprietà dell'Ente Tirrenia, in modo che ad essere «fregata» era ancora una volta la comunità sociale.
Non vorremmo sembrare volgari, ma questa vicenda come quella del "Terzo Albergo" non possono essere valutate alla luce delle sia pur normali vessazioni del regime. Qui siamo dinanzi a forme di «furto legalizzato». Non abbiamo paura delle parole, anche perché chi ha paura è la Giunta comunale pisana che non ha il coraggio morale di portare in fondo la vicenda dopo che giornali come "lo Specchio" ed "il Borghese", portavoce della «maggioranza silenziosa», hanno rivelato tutto ciò che avevano da rivelare; dopo che l'onorevole Niccolai in consiglio comunale, come in Parlamento ha parlato senza mezzi termini della vicenda, rinunciando subito alla protezione dell'immunità parlamentare, sperando anzi vivamente che gli amministratori pisani avessero il coraggio morale di difendersi dinanzi ad un Tribunale qualsiasi della Repubblica.
Per cui lo scandaloso piano regolatore generale di Pisa ha bloccato ogni possibilità di espansione edilizia. Ci sono imprenditori che da anni non vendono un appartamento e non costruiscono più. A Roma sono state respinte tutte le osservazioni dei cittadini pisani benestanti e disgraziati, (piccoli proprietari che hanno tentato di difendere il fazzoletto di terra nel quale avevano investito i risparmi) ed anche le 600 osservazioni che la Giunta di centrosinistra aveva accolte per motivi elettoralistici; sono state anche respinte le osservazioni del citato Ente Tirrenia, dell'Università, dell'Ospedale, degli ordini professionali, della Camera di Commercio, delle associazioni commerciali. Ma per la coppia Sophia Loren-Ponti via libera. E così sia.
Veniamo ora alla pineta di Migliarino, che rientra nel Comune di Vecchiano, amministrato alternativamente -secondo l'aria che tira- da centrosinistra e socialcomunisti. Una bella speculazione che tutti conoscono. Un accordo con gli antichi feudatari della zona, i Duchi Salviati e è pronto il progetto per «il popolo al mare» (ma il popolo non c'entra per nulla, mentre appaiono sulla scena speculatori d'ogni genere). L'affare ha visto da una parte i Salviati, legittimamente -dal loro punto di vista- disposti a vendere e dall'altra l'amministrazione comunale di Vecchiano allora comunista e socialista, anche se il vero secondo contraente della vicenda è il PSI.
Il PSI, difatti attraverso le società edilizie che hanno trattato con i Salviati alla cui testa erano uomini fedelissimi di Giovanni Pieraccini, il senatore sifarita della Verslia, e affaristi come Dino Gentili, l'amministratore de "l'Avanti!", si è esposto anche finanziariamente per alcuni miliardi pur di arrivare alla lottizzazione speculativa dell'ultima macchia mediterranea esistente sulla costa tirrenica, incontaminata da secoli. Naturalmente il boccone era troppo ghiotto. E nella rissa si sono gettati democristiani e comunisti. Infine, buona ultima, l'Associazione "Italia Nostra" ha snobisticamente accettato la sfida con un convegno, dal quale sono emerse chiaramente le posizioni di chi voleva la speculazione e chi, invece, l'avversava. È stata ancora una volta la decisa opposizione della Destra e dei suoi giornali, oltre che il litigio fra compari vecchi e nuovi, a costringere il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici a vincolare la pineta di Migliarino, facendo sfumare -almeno per ora- le speranze di una lucrosa, forse la più lucrosa, speculazione cementizia in pieno piagnisteo ecologico.
Intervenendo al Convegno di "Italia Nostra" l'onorevole Niccolai disse: «Fare la storia parlamentare dell'Arenile di Vecchiano significa trovare il bandolo della matassa, ci serve a capire il tempo presente, quelle che sono le difficoltà di vario ordine, per il momento insormontabili; quello di cui potremo dirci soddisfatti, se riusciremo a realizzarlo».

 

1962: quando la speculazione

veniva denunciata dal MSI,

il PCI faceva parte della «banda»

decisa a pietrificare la macchia meravigliosa.


Fatta questa «storia parlamentare», il puntiglioso parlamentare missino di Pisa, si chiedeva: «Sono sinceri gli aneliti nel dire no alla "foresta pietrificata"? Lasciateci esternare i nostri dubbi. Infatti nella non lieta vicenda della pineta di Migliarino, voi troverete costante una linea: il paesaggio, la natura, la pineta, i valori paesaggistici sono faccende strumentali per il mondo politico, seguono le sorti delle alleanze politiche a livello locale e a livello nazionale: Non se ne parla affatto, o fievolmente fino al 1962. La materia diventa calda, incandescente nel 1964. C'è il cambiamento delle alleanze al vertice e in periferia. Allora tutti si svegliano. Anche gli ambienti culturali. Prima non si erano accorti di nulla».
E più oltre: «La speculazione a Migliarino avrebbe potuto portare le cose a questo punto se avesse dovuto agire da sola? Chi se non il potere politico l'ha fatta esplodere? Non è questa la sede per discutere quali siano i correttivi per combattere tale degenerazione, in tutti i campi. Però questa è la sede per ribadire che i beni della natura, come la pineta di Migliarino, nell'attuale situazione, si difendono solo affidandoli alle sagge mani dei competenti, dei tecnici, degli scienziati».

Incenerimento morale
Questa è la storia breve, brevissima, delle più recenti speculazioni clerico-comuniste in quel di Pisa. L'ultima vicenda ha come protagonisti proprio i nostri «cileni». In una delle prime sedute dopo l'ingresso dei comunisti nella Giunta con democristiani di sinistra e socialisti, è stata portata all'esame del Consiglio Comunale la faccenda, annosissima, dell'inceneritore dei rifiuti solidi. Tale inceneritore dovrebbe essere comprato e costruito con l'apporto di Comuni limitrofi della provincia. Una commissione tecnico-politica ha studiato tutti i progetti e ne ha scelti due, pressocché identici come caratteristiche tecniche. Soltanto nel prezzo vi è una differenza di 180 milioni. Tentando il gioco di Ponzio Pilato, la Giunta «cilena» ha detto al Consiglio: scegliete voi. Hanno reagito i democristiani ortodossi con argomenti tecnici dettati dal buon senso, ma nessuno ha avuto il coraggio di chiedere freddamente «due cose» come ha fatto Niccolai: «Voglio sapere -egli ha detto- dall'ex sindaco Prosperi (democristiano fatto fuori dai «cileni - N.d.R.) perché dopo aver avuto un colloquio con la rappresentante di una impresa svedese di impianti di incenerimento ha deciso, a suo tempo, di sospendere la presentazione al consiglio comunale dei due progetti portati avanti ai tempi della giunta presieduta dalla socialista Cecchini. Voglio sapere, inoltre, dall'ex sindaco Cecchini, se è vero che ha avuto un tempestoso colloquio o frontale o telefonico con detta rappresentante ed i motivi del colloquio stesso».
Silenzio. E se anche è venuta fuori la notizia che il magistrato intende incriminare per calunnia questa donna, di cui la stessa Giunta comunale (presenti i socialisti) si occupò, resta il fatto che gli amministratori restano incapaci a dare una spiegazione plausibile di quei 180 milioni di differenza fra i due progetti, salvo il richiamarsi alla solita solidarietà antifascista che tutto dovrebbe coprire. E tutto ciò con offesa a coloro che combatterono il fascismo sul serio e magari morirono per lasciar il posto libero a così disinvolti eredi.

"Pisa: miseria senza libertà"
Questo è il titolo di un editoriale de "il Machiavelli" ed illustra nel modo più intelligente la situazione economica, politica e sociale della gloriosa città toscana. «Dieci anni di marxismo a Pisa non hanno solo portato miseria e emigrazioni. Hanno portato inquietudine e violenza. Dovunque. Nella fabbrica, nella scuola, nella famiglia. Non si studia, non si lavora, non si produce. Non c'è pace nella famiglia». Ed ancora: «E, i cattolici? Non ci sono più. Si sono arresi, quando, addirittura non fanno parte, sono alla testa nel predicare, nel seminare, a piene mani, marxismo».
Questa, dunque, non tanto in sintesi, la lacrimevole situazione pisana. I cittadini della costa tirrenica hanno già incominciato a reagire nel 1968, mandando il primo deputato missino alla Camera. Poi gli hanno confermato fiducia inviando al Consiglio Comunale quattro esponenti di destra. Si avvicina il momento delle grandi decisioni. Continuare a credere nei vecchi striminziti temi; ritenere buono l'anticomunismo elettorale di certi partiti, accoglierne le promesse, equivale a tagliarsi ogni via d'uscita. I pisani hanno sempre rissosamente fatto politica. Adesso debbono decidere se continuare in una strada che li condurrà al livello delle provincie più depresse d'Italia (Avellino, ad esempio, dove tiranneggia la «sinistra di base» di Ciriaco de Mita).

Livorno: il comunismo come piaga sociale
Da Pisa a Livorno. Pochi minuti di macchina o di treno. Le due città quasi confinanti, come ai tempi della maggior potenza marinara di Pisa e del Porto Pisano. Ma se a Pisa i guai sono misti e la partitocrazia impera; a Livorno è il comunismo che assume caratteristiche di piaga sociale, come le cavallette in certe zone agricole dell'America, come la malaria prima delle bonifiche maremmane o pontine. Comunismo vuoi dire: miseria per tutti, ricchezza per pochi gerarchi. E difatti la miseria è stata l'eterna nemica delle genti livornesi dal Capoluogo a Piombino, dall'entroterra delle colline metallifere alle Isole dell'Arcipelago Toscano, in primis l'Elba. Ma mentre il fascismo, per merito precipuo dei Ciano (padre e figlio), aveva tentato di risolvere i problemi, il comunismo che qui è padrone dispotico li ha aggravati mettendo i bastoni fra le ruote alla rinascita dell'intera costa labronica e delle sue isole, limitandosi a creare una fonte di potere assoluto nella Compagnia Portuale, che è diventata una grossa holding finanziaria attraverso la quale il partito comunista trova compiacenti finanziamenti e complicità a non finire. In questo gioco i democristiani reggono la corda per non essere tagliati fuori, mentre i socialisti pascolano indisturbati in alcuni feudi che la loro politica del doppio binario ha creato, tenendo i piedi nella staffa di centrosinistra al governo ed in quella frontista negli enti locali.
Nostalgie, le nostre? Saremmo stupidi come i nostri avversari se scendessimo sul loro terreno preferito, quello del rifritto binomio fascismo-antifascismo. La nostra è una testimonianza. Sul "Telegrafo" del 6 gennaio 1962, dieci anni orsono, apparve una lettera aperta intitolata: «Questa è Livorno signor Ministro: eccone la parte essenziale:
«Nel 1938 esistevano nell'intera Provincia di Livorno, 500 ditte industriali, con un totale di oltre 29.000 operai e, sempre nel 1938, la posizione relativa alla provincia di Livorno rispetto alle altre provincie italiane, era al n. 16, vale a dire che nel complesso delle 90 provincie italiane, quella di Livorno si inseriva al sedicesimo posto. In questo intervallo oltre 22 stabilimenti hanno cessato la loro attività: stabilimenti di primissimo piano, quali quelli della Società ILVA a Portoferraio, della Società Metallurgica, della Società FAG, della Società Montecatini, della Società Nazionale Radiatori, della Pisani & Mejer, della Del Buono, della Vetreria S. Marco, della Società Materiali refrattari ecc, a Livorno. Veramente un lungo e tragico elenco. Conseguenza di questo fenomeno è il fatto che più di 7.000 operai hanno perso la possibilità d'impiego. Oltre agli stabilimenti che hanno cessato totalmente la loro attività, vi sono dei complessi industriali che hanno ridotto il loro ritmo di produzione ad una frazione di quello che avevano nel 1938. Mi riferisco ad es. alla Motofides, che dava lavoro ad oltre 2.100 dipendenti, ridotti ora a poche centinaia; la Torelli, da 350-400, a poche decine; la Società Materiali Refrattari, da oltre 300 a poche decine; la Società la Magona d'Italia da oltre 2.600 a qualche centinaia. Concludendo, non credo fare una valutazione in eccesso se calcolo che nell'intera provincia di Livorno si sia perduto per cessazione o per diminuzione di attività, l'equivalente di almeno 10-12.000 posti di lavoro di cui gran parte perduti nel capoluogo».
"Il Telegrafo" (anche se deve gran parte della sua fama alla famiglia Ciano ed a Giovanni Ansaldo che ne fu il più brillante ed acuto direttore) non era certamente, nel 1962, su una linea politica vicina alle posizioni di destra, così come non lo è affatto oggi; la testimonianza taglia corto ad ogni difesa dei «padroni» della politica livornese anche se è ... carente sul piano della ricerca delle responsabilità. Perché se è vero che gran parte del danno subito da Livorno può imputarsi al Governo centrale, si deve andare a ricercare negli enti locali, nei loro massimi rappresentanti (teorici dell'ultima ora marxista, professorini rimediati alla politica) una netta incapacità di rappresentare al centro le esigenze vitali di questa provincia tanto bella quanto abbandonata.
Un esempio clamoroso è stato quello dell'accordo fra l'Italsider e la Fiat per le Acciaierie di Piombino, già ILVA. I comunisti, esclusi da una torta che pensavano già di assaggiare grazie a manosi pedaggi, hanno tentato, sino all'ultimo, tramite i sindacati della «triplice metalmeccanica» e gli enti locali, di ostacolare l'accordo. Soltanto il MSI ha puntualizzato chiaramente la sua posizione. Pur non essendo in rapporti di «buon vicinato» con i due monopoli che hanno dato vita alle Acciaierie, il partito di destra ha subito individuato nell'accordo -del resto necessario all'economia nazionale, più che mai affamata di acciaio, per il quale siamo tributari all'estero- una possibilità di ripresa dell'intera zona piombinese con benefici effetti in tutto l'entroterra. E quando i comunisti hanno attuato il boicottaggio, sono stati denunciati all'opinione pubblica nazionale e locale senza mezzi termini. La miseria è il pane del comunismo; il benessere è l'unico mezzo per far ragionare la gente e indurla a ripudiare il marxismo apportatore di una società ancor più ingiusta dell'attuale.
Il caso di Piombino è sintomatico. Ma vediamo che cosa hanno fatto i gerarchi comunisti per i livornesi. Hanno tentato di boicottare gli americani. Siamo arrivati allo smantellamento del "Campo Darby" con conseguente licenziamento del personale ivi occupato. E soltanto la voce del MSI si è levata contro questi licenziamenti.
I comunisti hanno tentato di creare una frattura completa fra la popolazione e la Brigata Folgore, così come a Pisa hanno fatto con gli allievi della Scuola Paracadutisti e con gli avieri del locale aeroporto militare. Non ci sono riusciti perché la saggezza popolare e la reazione dei gloriosi reparti hanno smontato la manovra. Però, anche questi tentativi di bassa lega politica, sono stati compiuti sulla pelle dei livornesi.
Unico vanto del PCI (non parliamo degli altri partiti, che fanno da comparse avide solo di guadagni) è la "Compagnia Portuale". Con questa organizzazione perfetta, in senso funzionale e moderno, dalla cui amministrazione sono esclusi tutti i partiti di sinistra salvo il PSIUP, finché questo partitello dura, essi si sono assicurati entrature nel mondo industriale. Non c'è operatore economico livornese che non abbia a che fare con la "Compagnia" che ammicca, concede crediti a lunga scadenza, tratta sul piano manageriale. Mentre, naturalmente, i suoi massimi dirigenti vivono da managers capitalisti in superattici, hanno macchine fuori serie e panfili o barche da diporto ormeggiati in località limitrofe, ma fuori della portata e della curiosità dei lavoratori livornesi.
I dirigenti comunisti non sono più quelli di una volta. Scomparso Jacoponi, usciti di scena i «vecchi», anche quelli che presero la via dell'esilio all'avvento del fascismo, sono oggi gli uomini delle ville, dei superattici, della «intellighentia» salottiera, a guidare il carro. E fra loro -Filippelli e Baladoni insegnano- non manca chi ha giurato fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana, al suo Capo ed alle sue Forze Armate.

La speculazione rossa
Lungo la costa livornese ed all'isola d'Elba, la speculazione edilizia impazza. Per questo si ripetono connubi innaturali. Si è vista una discendente dai nobili lombi dei Ginori candidata del PCI a Rosignano Marittimo. A Castiglioncello, invece, dove d'estate albergano più di 70.000 turisti, si è pensato ad approvvigionare d'acqua la villa isolata di Giovanni Gronchi, ex presidente della Repubblica (e durante le ultime elezioni presidenziali grande elettore di Aldo Moro, con i comunisti) mentre alberghi, pensioni e case private rimanevano, in piena stagione di villeggiatura, privi del prezioso e liquido elemento.
E già che ci troviamo sulla costa sarà bene parlare dell'inquinamento. Nessun provvedimento è stato preso per evitare che il mare di quella parte economicamente così importante del litorale tirrenico si tramuti in una fogna. Mancano disposizioni, non esistono porti per le imbarcazioni turistiche, si evita l'emanazione di norme igieniche che vietino gli scarichi industriali nei corsi d'acqua e quindi in mare. Davanti a Livorno è facile buscarsi l'epatite virale in cambio di una buona nuotata. Mani rapaci si tendono verso gli ultimi luoghi di bellezza selvaggia, come il Golfo di Baratti e le insenature dell'Elba, cantati dalla letteratura dell'ottocento. Scompare sotto il cemento la Toscana dei macchiaioli.
Del porto di Livorno abbiamo in parte detto. La Compagnia Portuale vi fa da padrona e soltanto pochissimi imprenditori sono in grado di tenerle testa.
Piombino attende nuove attrezzature portuali che la mettano in grado di funzionare come città altamente industrializzata, nonché come scalo turistico di primaria importanza. Invece interessi particolari di Società di Navigazione spostano le linee per l'Elba, per la Corsica e per la Sardegna verso Livorno, in una confusione di intendimenti e di direttive che fa pensare ad un prestabilito disegno di predoneria.
Riguardo all'Elba, in parte feudo della famiglia dell'onorevole Lucchesi, come del resto tutta la DC livornese, abbiamo anche qui da ricordare un buon esempio di «buona amministrazione» comunista, quella di Capoliveri, (l'unica comunista dell'isola riguardo alla quale venne affermato che «finalmente i comunisti avrebbero potuto dimostrare come si amministra un comune»). Ebbene, il sindaco di Capoliveri, Corrado Galli, funzionario del partito delegato a tanto compito, è stato accusato dall'onorevole Niccolai di una serie di illeciti confermati dalle puntuali risposte del Ministro dell'Interno. Un altro primo cittadino sarebbe stato quanto meno sospeso dalle sue funzioni ed al suo posto sarebbe stato inviato un commissario prefettizio. Invece il Galli continua a cantare nello staio comunista, anche se non è potuto diventare -come sperava e proprio per gli scandaletti in cui è immerso fino al collo- consigliere regionale.
Niccolai ha chiesto di sapere notizie in merito all'acquisto ingiustificato di enormi quantità di materiale, cominciando dalla carta igienica! Il ministro Restivo ha affermato che sono state annullate perché illegittime alcune deliberazioni del Comune di Capoliveri riguardanti lavori vari, in quanto non era stato preventivamente deliberato l'appalto. A Restivo veniva sempre chiesto se era vero che il Comune di Capoliveri finanziava il PCI attraverso contributi in favore dell'inesistente sezione dell'UDI (l'accusa è di provenienza socialdemocratica). Un autista incaricato di portare gli aiuti dei capoliveresi ai terremotati siciliani ha affermato di aver ricevuto 50.000 lire di compenso, mentre il Sindaco afferma di avergli dato 170.000 lire. Chi dice la verità? Un impresario edile socialdemocratico ha accusato il PCI dell'Isola d'Elba di avergli chiesto quattro milioni per consentirgli la costruzione del II lotto dell'Eurotel di Capoliveri. La magistratura informata non agisce. Una ispezione della prefettura di Livorno, però, accerta irregolarità amministrative e Sindaco ed assessori comunisti vengono indiziati di reato. Altre irregolarità amministrative segnano la via del «buon governo comunista» all'Elba. Ma l'omertà di regime non porta l'eco di queste vicende fuori delle cronachette locali.
Concludendo, Livorno è una immensa centrale del clientelismo comunista. Tutto viene accentrato e vagliato in sede di partito. Ne sanno qualcosa i cittadini che si oppongono a tale andazzo di cose. A loro non sarà mai consegnata in tempo una licenza commerciale o d'altro genere o dovranno attendere anni l'assegnazione di una casa popolare, ma in compenso saranno i primi ad essere tassati brutalmente. E chi non abbozza deve rinunciare. Alla faccia di coloro che si lamentavano della tessera obbligatoria del PNF durante la fase finale del «ventennio nero».

Carriere «degne di rispetto»
Del resto, se si vuole capire, quale mentalità animi i nuovi dirigenti comunisti livornesi, basta dare un'occhiata a questi «profili» pubblicati, senza querele di parte, da "il Machiavelli".
Eccoveli, a memento di carriere «degne di rispetto»:


Nicola Badaloni
Pur ricoprendo, per tanti anni, la carica di Sindaco è riuscito a portare avanti i suoi studi e a diventare, a pieno merito, Preside della Facoltà di lettere dell'Università di Pisa. Eccellente il suo saggio su Vico. È indubbio che, fra il politico e lo studioso, sia riuscito meglio come studioso. Anche perché, nelle vesti di Sindaco di Livorno, faceva melanconia sentirlo girare sempre il solito disco sul «defunto dittatore», tanto da far apparire questa sua mania «antifascista» alquanto sospetta. Infatti era così. Doveva farsi perdonare qualcosa. L'avere aderito, nel 1944 alla Repubblica di Mussolini. E questo precedente lo ha ostacolato nella scalata alla presidenza dell'Istituto Gramsci emanazione culturale del PCI.
 

 

È stato Sindaco di Livorno. È Presidente dell'Istituto Gramsci.

Nessuno si era accorto che aveva giurato fedeltà a Mussolini

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Gino Romano
Il dott. Gino Romano è uno dei personaggi più interessanti del mondo comunista livornese. Se il Sindaco Raugi è la personalità di spicco sul piano politico, addirittura proiettato sul proscenio (e l'uomo certo non manca di qualità), il dott. Gino Romano è colui che, dietro le quinte, organizza e tiene in mano le fila di tutta la regia. Guardando le sue «operazioni» sì ha la possibilità di capire in certi risvolti della politica livornese che, senza Romano, sarebbero e resterebbero incomprensibili. Ne citiamo uno per tutti. Il PRI, in Livorno, non è all'opposizione, o meglio fa finta di opporsi ma, nella sostanza, tegameggia. Come mai «la coscienza critica della sinistra italiana» a Livorno balbetta? Gino Romano potrebbe rispondere con questa parola: «Soricol». La Soricol lavora sul porto: pulisce le banchine e le calate. Dipendenti: quattro persone. Proventi: calcolati sul fatturato della Compagnia Portuale. Incassi: diversi milioni di lire. Proprietari della Ditta Soricol: Garibaldo Paggini e Alcide Cafferata. Il Porto: ecco il grande teatro dove Gino Romano recita la sua parte. E il Porto a Livorno è... tentacolare. Controlla tutti e tutto, non solo il PRI, anche le banche e, con le banche, buona parte del mondo imprenditoriale. È il capolavoro di Gino Romano. Il PCI lo guarda con un certo sospetto, ma non può fare a meno di lui. Anche perché il PCI, in Livorno, piaccia o no, si è modellato su di lui e a lui si ispira. È una verità che va detta, anche se può a parecchi dispiacere. Quello che è ingiusto è che molti comunisti di vertice, pur dicendo peste e corna del dott. Romano, poi, in pratica, altra aspirazione non dimostrano, se non quella di diventare come lui e di vivere come lui.

Dino Raugi
Nulla da eccepire sull'uomo politico. Se Gino Romano è lo strumento di cui il PCI si serve, dietro le quinte; il Sindaco Raugi, sul piano politico, è l'uomo di cui il PCI fa sfoggio. E l'uomo vale. E per il passato di coerente antifascista, di cui, a diversità di coloro che devono farsi perdonare qualcosa, fa parco uso; e per le sue doti umane e di preparazione, anche se non può vantare titoli accademici. Soprattutto Raugi da l'esatta percezione di avere capito come stanno le cose, di essere spesso contornato di «poveri» (sia detto in termine gentile) uomini e di esserne, per le «bischerate» che dicono e fanno, insofferente. Capisce che deve fare da se. Ed ecco che vengono fuori, dalle liste del PCI, degli eletti che hanno un solo compito: stare zitti o, tutto al più, leggere il compitino preparato in altra sede e votare. E non lo fa solo verso i propri compagni. Lo fa anche nei riguardi dell'intero Consiglio Comunale di Livorno, ormai ridotto a spolverino, velocissimo, delle decisioni prese nella stanza del Sindaco. In nessun Consiglio Comunale, come quello di Livorno, si discute tanto poco e sull'essenziale. Ma è anche il motivo che, malgrado la crisi e la recessione, a Livorno ancora qualcosa va avanti. Il merito va dato a Raugi, sotto la cui gestione il PCI ha perso il contatto con le masse popolari livornesi.

Silvano Filippelli
Nessuno degli antifascisti autentici come Barontini, Diaz, Iacoponì, Guelfi, Frangioni, Montelatici, neppure nei difficili e caldi momenti del 1945, quando c'era da «tirar su» la Città, si persero, in tante professioni di antifascismo come le attuali e più giovani leve. Anche Filippelli, conte Badaloni, le sue migliori energie le ha dedicate all'antifascismo, dimenticando che lui con .... Mussolini, si era spinto più in là di Badaloni, facendo parte delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana. A sua giustificazione c'è una frase che pronuncia davanti a pochi intimi: «del resto, nel 1944, quando Togliatti si metteva d'accordo con il Re e Badoglio, meglio era restare al fianco di Mussolini che dava vita alla Repubblica». Filippelli dipinge. Ma i suoi quadri, a diversità di quelli del Padre, sono .... incolori. Come la sua vita politica.

Emanuele Cocchella
Proviene dalla Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. Dopo una esperienza nei cristiani sociali è approdato al PSIUP. A Livorno lo chiamano il «rivoluzionarissimo». Raccontano le cronache che, spesso, si ferma alle cantonate delle strade e dinanzi a quattro, cinque pensionati, che non sanno come passare il tempo libero, attacca Nixon, l'America, il Capitalismo, il sistema e gli alti fitti. Anche se per quest'ultimi faccia una unica eccezione, cioè per il Restaurant a mare «CISA», di sua proprietà, dove, a chi lo gestisce, ha ingiunto, ultimamente, un considerevole aumento dell'affitto. Comunque a Livorno è considerato un «brav'uomo»; un rivoluzionario romantico che, per carburarsi, ha bisogno di caricarsi di parole da macinare durante il giorno. Un socialista di altri tempi, dicono i professorini della sinistra comunista.

Lucca : l'acquasantiera del diavolo
Nell'immediato dopoguerra Lucca, provincia e comune, veniva considerata la «Vandea» della Toscana, l'isola bianca, incontaminata. Gli enti locali chiudevano i bilanci in attivo, le rimesse degli emigranti dalla lucchesia in America erano abbondanti e rimettevano in sesto l'economia e supplivano alle difficoltà. La radicata fede cattolica degli abitanti non aveva subito scosse conciliari. Il comunismo dilagante si arrestava sotto i bastioni ben conservati della «cittadella dei preti» orgoglio e vanto dei democristiani vecchio stampo, già militanti nel PPI di Luigi Sturzo.
Oggi Lucca è ancora democristiana, ma la classe politica è cambiata. Il partito è in mano alla morotea Maria Eletta Martini in nome del «cartello delle sinistre», mentre in Garfagnana fa sentire il suo peso l'onorevole Loris Biagioni, fanfaniano quando conviene, anticomunista quando è possibile. Per questo la «città trema». Qui il connubio clerico-marxista assume i suoi aspetti peggiori, perché è clandestino e si basa su spartizioni di potere, che prima o poi, consentiranno al PCI di divenire determinante anche dove non lo è mai stato. Questo tipo di «matrimonio di incoscienza» della DC con il PCI ha aspetti deteriori, in quanto i due partiti trovano motivo d'accordo nell'esercizio quotidiano del clientelismo più sfacciato. In provincia le cose non vanno meglio. Biagioni, sottosegretario all'industria, non ha certamente tonificato l'economia depressa della Garfagnana, terra d'emigrazione tradizionale come il Meridione. A Bagni di Lucca, una singolare figura di sindaco, il Mariani, tiranneggia una popolazione che tace perché deve acconsentire e segue il primo cittadino nelle sue giravolte politiche.
La sconfitta di Aldo Moro nella corsa per il Quirinale ha creato notevole malcontento nella base democristiana. Anche se il potere mollemente esercitato dalla onorevole Martini, per ciò chiamata la «Granduchessa», avrà sicuramente la meglio sui dissensi.
Per questo entra in gioco la Destra nazionale. Il MSI ha ambiziosi traguardi perché si pensa giustamente, che la «maggioranza silenziosa» dei lucchesi stia per dare il benservito ad un partito che, oltre a rovinare politicamente la città, ne ha bloccato lo sviluppo economico cedendo ad ogni richiesta demagogica dei marxisti. E se da altre parti i democristiani possono balbettare qualche scusante, a Lucca, la «loro» città, non hanno alcuna attenuante. Debbono solo rendersi conto di aver tradito un elettorato fedele e paziente che adesso sta aprendo gli occhi e comprende la necessità di condizionare, da destra, Granduchesse e vassalli.

Viareggio : la contestazione che rende
Nell'ambito della provincia bianca, c'è il grosso centro balneare di Viareggio con tutta la riviera versiliese che, sino ad oltre il Cinquale, porta ai confini di Massa Carrara. A Viareggio speculazione e contestazione si intersecano e si sviluppano attorno ai partiti del regime. Alle amministrazioni di centrosinistra si susseguono quelle frontiste.
La realtà finale è che tutta la Versilia, nonostante le presenze estive, è in netta decadenza. Il PCI è forte ma non sufficientemente. Deve, quindi, attenersi ad una linea «conciliare» stretta, per trovare, oltre all'omertà socialista, punti di contatto con la DC che da queste parti è in mano agli estremisti della sinistra, con buona pace di Giuseppe Togni il quale, non senza vivaci contrasti, vi è stato eletto per la prima volta senatore. Così come il PSI è rappresentato dal «sifarita» (5 milioni per il partito, più il viaggio in America per la moglie) Giovanni Pieraccini.
Gli scandali viareggini sono noti. Scandali politici ed edilizi (parliamo dello sfruttamento delle ultime zone verdi) e scandali morali sul tipo Lavorini.
 

Viareggio

Il compagno socialista Biggi Pietro

ha risolto il problema della casa …

 … non i baraccati di via Virgilio


La contestazione è appannaggio di pochi privilegiati, figli di noti professionisti addentellati con la politica, che viaggiano su macchine fuori serie o straniere. Il più clamoroso episodio avvenne la notte di Capodanno di tre anni orsono con i fatti della "Bussola" che costarono le gambe a Soriano Ceccanti, il giovane pisano che si trovava «lì per caso». Tutti «per caso» si trovavano allora in Versilia i più noti contestatori figli di papa-compagno. E «per caso» non andarono a farsi medicare agli ospedali. Anche a Viareggio la gente è stanca e stufa di prepotenze di ogni genere e della paralisi con la quale i partiti di regime (DC, PSI e PCI) bloccano la rinascita turistica della Riviera versiliese, monopolizzando enti locali e turistici, favorendo speculatori ai danni di un paesaggio che aveva dato a Viareggio, al Forte dei Marmi ed a tutte le altre località minori dignità internazionale e lo stile necessario per richiamare il bel mondo da ogni parte dell'Occidente.
Le forze della partitocrazia temono il MSI. Si arrivò persino a profanare alcune tombe del cimitero ebraico per fomentare la popolazione contro i «fascisti». Ma i «professionisti della resistenza» sbagliarono calcoli. Furono infatti profanate tombe di ebrei militanti nel MSI. Di qui il ridicolo che ancora gronda su chi si lasciò andare ad ispirate dichiarazioni contro gli «epigoni dei nazisti».
Ma, come si sa, il «professionismo della resistenza» rende ed alla sua ombra è possibile compiere ogni misfatto. Compreso quello di mettersi d'accordo con i capitalisti senza morale e rovinare ciò che madre natura ha fatto di bello. Per questo il centrosinistra ha trovato pronti, in un cappello, i voti determinanti del PCI che gli ha permesso l'approvazione del bilancio.

Massa Carrara: due volti di una stessa esperienza
1962: congresso di Napoli della DC. Aldo Moro parla, parla per ore e ore, come Hitler.
In conclusione: si deve fare il centrosinistra per ampliare la maggioranza governativa, acquistare l'apporto fattivo dei socialisti alla democrazia, isolare i comunisti. A Massa governa il centrosinistra, a Carrara comandano i frontisti, all'Amministrazione Provinciale della vecchia «provincia di Apuania» è ancora il centrosinistra a formare maggioranza. Ma si tratta di due volti di una stessa esperienza. Il comune di Carrara, a maggioranza socialcomunista (personaggi di spicco il socialista Martinelli, farmacista deluso da Mariotti, candidato trombato elle elezioni politiche, ex sindaco travolto da scandali edilizi come la costruzione di enormi palazzoni di cemento in zone destinate a verde pubblico e Sauro dalle Mura, nipote di Bruna Conti adesso seconda moglie di Luigi Longo) è malgovernato; quello di Massa presenta gli stessi difetti, accentuati da una perenne crisi nel Comitato Provinciale della DC dove il «moderato» senatore Del Nero non ha esitato ad allearsi con il trombato e sinistrissimo Andrea Negrari, permettendogli di recuperare la segreteria provinciale dopo un breve periodo di «confino» nella fedelissima Lunigiana. Negrari, già coinvolto in una serie di disastri amministrativi, già uomo di Gronchi (oggi fiero avversario dell'ex gronchiano Merli che gli ha soffiato il posto a Montecitorio), da l'esatta misura della statura degli uomini del regime in zone depresse come queste. Nonostante ciò in Lunigiana gli è stata intitolata una piazza.
 

 

Da Carrara: la casa (di campagna)

dell'assessore comunista Sergio Nardi.

I baraccati di Carrara possono aspettare.


INulla da eccepire, dunque, se la vecchia vena anarchica apuana non si estingue e se la gente non crede più a nulla. Anche se non è fuori luogo pensare che, proprio da questa provincia abbandonata al clientelismo dei partiti più corrotti, possa partire una scintilla di riscossa valida per tutta la Toscana. E le premesse ci sono.

Conclusioni
In questo studio, necessariamente incompleto, del malgoverno partitocratico in quattro fra le più importanti provincie non solo della Toscana ma della "Terza Italia", abbiamo fatto cenno soltanto ai casi più clamorosi, alle vicende più scandalose. Abbiamo tralasciato a bella posta motivi di inquietudine assai gravi, riguardo alle organizzazioni sovversive che agiscono indisturbate da anni, ora esplodendo in fatti come quelli della "Bussola", della stazione di Pisa, dell'assedio alla Federazione del MSI pisano, dell'aggressione ad Almirante e Niccolai in piena campagna elettorale a Livorno, nella quotidiana vessazione contro studenti e lavoratori che non vogliono piegare il capo, nell'assassinio politico quale è configurato alla Magistratura pisana dall'arresto del geometra dell'amministrazione provinciale Corbara e dei suoi complici. Ebbene, di fronte a questo stato di cose, il PCI tenta blande difese degli extraparlamentari; i partiti dell'«arco democratico» si sbranano fra loro; i liberali disertano; rimane il MSI come unico interprete di una maggioranza che è veramente tale, la maggioranza che non vuole né il comunismo, né compromessi con il comunismo.
L'arma di questa maggioranza può essere una sola: il coraggio. Il coraggio dei milanesi che hanno saputo scendere in piazza, il coraggio dei siciliani e dei romani, che hanno -con il democratico uso del voto- sbarrato la strada al malcostume partitocratico del quale il comunismo è la parte più vitale e propulsiva.
13 giugno - 20 dicembre 1971. Ricordiamoci di queste date. Sono la prova lampante che la Destra nazionale serve, che la Destra nazionale è l'unica forza politica utile a difendere la libertà di tutti. Condizionare a destra la DC significa vincere la battaglia contro il comunismo, volenti o nolenti i democristiani. I Toscani della zona occidentale hanno già visto l'utilità di una rappresentanza di destra in Parlamento. Occorre uscire dall'equivoco e rafforzarla perché fra deputati democristiani che non parlano e deputati missini che si battono fino allo spasimo per la loro terra e per moralizzare la vita nazionale, la scelta non può essere dubbia.
Questo studio, pur nelle sue naturali imperfezioni, ha lo scopo di ricordare a tutti i cittadini che l'arma della riscossa è nelle loro mani. Basta rammentarsi, al momento del voto, che esiste una sola forza capace di combattere il comunismo ed il malgoverno: la Destra nazionale riassunta nel Movimento Sociale Italiano.
 

Ora dobbiamo separarci.

Poi, dopo le elezioni, torniamo insieme.


Pacini Mariotti - Pisa - Marzo 1972
 

Ringraziamo Benedetto Bargagli Stoffi di Pisa che ha inviato il materiale di questa pagina