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				7 gennaio 1984 
				
				Pertini uno e due 
				
				 
				La stampa «moderata» lancia al cielo grandi lamenti: «ma questo 
				non è il Pertini che conosciamo!». Nel libro "Memorie" di 
				Alessandro Lessona (Sansoni editore, Firenze), a pagina 73, 
				trovo descritta questa vicenda: 
				«Altro episodio che accadde durante la mia permanenza a Savona 
				fu quello riguardante l'on. Sandro Pertini. Il fratello di lui 
				era ufficiale nella legione della milizia col grado di 
				centurione: i rapporti fra i due fratelli erano pessimi non solo 
				per ragioni politiche, ma anche per motivi familiari. Il Pertini 
				fascista non si peritava a dipingere il Pertini socialista con 
				le più fosche tinte e con giudizi offensivi. L'atteggiamento 
				cosi sfavorevole, assunto da un membro della famiglia, 
				contribuiva ad infiammare sempre più l'ostilità già molto accesa 
				verso l'antifascista Pertini fra l'elemento dello squadrismo 
				savonese. La casa natale del Pertini era a Sassello, un piccolo 
				paese del retroterra montano. Quivi viveva il Pertini fascista 
				con la vecchia madre. Il fratello Sandro vi capitava assai 
				raramente. Un giorno, però, l'on. Pertini improvvisamente 
				apparve a Savona: fu disgraziatamente riconosciuto da alcuni 
				squadristi, i quali lo ingiuriarono e percossero malamente. Il 
				Pertini, vistosi a mal partito, si sottrasse alla foga dei suoi 
				assalitori fuggendo e venne a cercare protezione ed aiuto alla 
				Federazione fascista. Io ero a Roma, ma il mio collaboratore e 
				amico, Aurelio Archenti, che mi sostituiva durante le assenze, 
				lo accolse cordialmente, stigmatizzò con veementi parole 
				l'incidente e si dichiarò pronto a tutelare la incolumità 
				dell'onorevole. Gli ordini miei erano tassativi e l'Archenti 
				era, per indole e per disciplina, uno scrupoloso esecutore. Io 
				non volevo più violenze, dacché il Governo era in nostro potere, 
				ed avevo già dato esemplari punizioni a tutti coloro che avevano 
				mancato al rispetto che si deve agli avversari o, peggio, 
				avessero manifestato intenzioni di ricorrere a vie di fatto. 
				L'Archenti, dunque, promise a Pertini che lo avrebbe fatto 
				accompagnare fino all'autobus in partenza per Sassello poiché, 
				soggiunse, non riteneva prudente che egli si trattenesse più a 
				lungo a Savona in quel giorno. Poco tempo dopo l'Archenti 
				ricevette una lettera cortese dell'on. Pertini con la quale lo 
				ringraziava dell'accoglienza premurosa e del trattamento 
				cavalleresco usatogli. Passarono gli anni, molti anni, e venne 
				la guerra, la sconfitta e la liberazione. L'Archenti si trovava 
				a Milano e, nella sua qualità di squadrista ante-marcia, era 
				continuamente in pericolo. Il caso volle che proprio l'on. 
				Pertini fosse in posizione di comando a Milano. L'Archenti 
				allora, ricordando l'episodio savonese, pensò di rivolgersi a 
				lui per avere un valido testimone del suo equilibrato, se pur 
				doveroso, comportamento. Il Pertini lo ricevette, ma non dette 
				segni di riconoscerlo. L'Archenti cominciò a dirgli che aveva 
				avuto il piacere di incontrarlo a Savona. Ma, non dando ad 
				addivedere il Pertini di ricordarsene, pensò che fosse opportuno 
				esibire la lettera che aveva ricevuto dallo stesso Pertini al 
				tempo dell'incidente di Savona. Con sua grande sorpresa vide il 
				suo interlocutore andare sulle furie e dirgli che non aveva 
				alcun motivo di riconoscenza ma, semmai, di rimprovero, per 
				avere egli, Archenti, impedito a lui in quel giorno a Savona di 
				godere della sua libertà di cittadino. "Ella mi ha messo al 
				bando dalla mia città!". L'Archenti rimase di sasso: riprese la 
				lettera, se la mise in tasca ed uscì salutando un Pertini 
				sorprendentemente diverso da quello precedentemente conosciuto». 
				* * * 
				«Giovanni Spadolini ha energicamente rimproverato il senatore 
				repubblicano Libero Gualtieri, di fronte ad altri esponenti del 
				partito, per una dichiarazione sul Libano. Il ministro della 
				Difesa si è lamentato per questa «libertà d'azione» del 
				parlamentare su una materia tanto delicata: «ti invito 
				formalmente a non fare più dichiarazioni sul Libano. Tu del 
				resto non puoi capire nulla anche perché non hai fatto il 
				servizio militare». ("l'Espresso", «Sul Libano parlo io») 
				Ora sarebbe interessante sapere «quando e dove» il Ministro 
				della Difesa, Giovanni Spadolini, ha prestato servizio militare. 
				* * * 
				«E di Mussolini ne parla con suo padre?». «Certo, come no? Su 
				Mussolini le nostre opinioni concordano. Io stimo Mussolini. Ho 
				molta ammirazione per la sua figura di uomo politico "nuovo", 
				forse perché non ho vissuto quel periodo. Però ho ascoltato i 
				dischi dei suoi discorsi: la dichiarazione di guerra 
				all'Etiopia, la dichiarazione contro la Francia e Inghilterra, 
				quel grido "Vincere e vinceremo", mi ha sempre provocato 
				tensione, forse paura, però mi piace. Il fatto che la gente, 
				anche se solo emotivamente, partecipasse alla vita del paese, 
				che l'Italiano fosse fiero di sentirsi italiano, erano tutti 
				fenomeni importanti. Mussolini è l'uomo politico più importante 
				del secolo, come si fa a coprirlo solo di fango? Era un uomo di 
				straordinaria carica vitale». 
				("Gente", n. 50 ,23.12.83, "Il Presidente del Consiglio Bettino 
				Craxi in un racconto inedito del figlio Vittorio"). 
				* * * 
				«Perchè ha deciso di candidarsi nelle liste del PSI, per le 
				recenti elezioni e come ha accolto il suo fallimento?». 
				«Io non ho deciso niente. Sono un socialista ereditario, mio 
				padre era Segretario della sezione socialista di San Zenone sul 
				Po. Il partito mi ha chiesto di andare in questua di voti e io 
				non potevo rifiutarmi. Se fossi stato eletto sarebbe stata una 
				bella fregatura, perché io guadagno più d'un deputato o d'un 
				senatore e ho una famiglia gravosa da mantenere. Ho accettato 
				anche perché stimo Craxi, che è il miglior socialista che abbia 
				avuto l'Italia dopo Benito Mussolini, uomo di grandissima 
				statura». 
				(Gianni Brera, "Giornale di Sicilia", 20.10.1983) 
				* * * 
				«Solo una volta, nel corso della lunga conversazione, il viso ha 
				uno scatto che tradisce la vivacità della sua tiroide. È quando 
				parla del soldato tedesco. Io conosco, mi dice mentre 
				conversiamo dell'attuale momento di tensione Est-Ovest, il 
				soldato tedesco. Sono arrivato con lui, come tenente della Prima 
				Divisione Panzer, alle porte di Leningrado nell'autunno 1941. 
				L'anno seguente, sempre con i carri, ci battevamo a meno di 
				cento chilometri da Mosca: i russi ci erano superiori di numero 
				come tre a uno, eppure avevamo raggiunto due storiche capitali. 
				Nell'inverno 1944-45 partecipai all'offensiva delle Ardenne. Li 
				gli americani erano cinque contro uno: per poco non li 
				ributtammo nel Mare del Nord. Ancora oggi quelle virtù di 
				coraggio e di tenacia, ormai a disposizione di tutta l'Europa 
				Occidentale, sussistono e si appoggiano ad una organizzazione 
				che non è inferiore a quella di un tempo. Che giorno è oggi? 
				Venerdì: ecco se oggi, venerdì, il nuovo ministro della difesa 
				Woerner pigiasse un bottone, mercoledì prossimo vi sarebbero in 
				armi 1.200.000 tedeschi di meno trenta anni, ben addestrati ed 
				equipaggiati e motivati. Una aggressione sovietica sul fronte 
				centrale non sarebbe una passeggiata ...». 
				(«Colloquio con Schmidt: come nacquero gli euromissili», 
				"Corriere delta Sera", 30.12.82) 
				* * * 
				L'ex-cancelliere tedesco Helmut Schmidt è socialista. Come 
				Sandro Pertini. Si notano le differenze. 
				  
				
				17 gennaio 1984 
				
				Palmiro Togliatti e 
				un «atto scellerato» 
				
				 
				C'era qualcosa di più significativo nella vita di Umberto 
				Terracini, il leader rifiutato, scomparso di recente, che valeva 
				la pena di essere ricordato. Nessuno lo ha fatto e ciò ci 
				conferma come la falsità, l'ipocrisia come sistema, in breve la 
				doppiezza, non siano solo caratteristiche del PCI, ma di tutto 
				il mondo politico italiano. 
				L'episodio che riferiamo, e che tutta la stampa ha taciuto, nel 
				ricordare Umberto Terracini, risale al marzo 1928. È un episodio 
				sconvolgente. Fa da «paradigma», da modello, nel dimostrare a 
				quali estremi giunga, all'interno dei partiti comunisti, la 
				lotta per il potere. 
				I protagonisti sono, da una parte Antonio Gramsci e Umberto 
				Terracini, dall'altra Palmiro Togliatti e Ruggero Grieco. 
				* * * 
				Si tratta di questo. È il marzo 192S. A Mosca Stalin espelle dai 
				partito Trotskj, Zinoviev e Kamenev. Palmiro Togliatti e Ruggero 
				Grieco si trovano a Mosca. Orbene, a Antonio Gramsci e a Umberto 
				Terracini, reclusi nel carcere di San Vittore sotto l'accusa di 
				eversione contro lo Stato, arrivano due lettere (vedi 
				"Rinascita" n° 32 del 9.8.68) a firma di Ruggero Grieco. Si 
				faccia bene attenzione al particolare: quelle lettere, da Mosca, 
				vengono inviate, non attraverso i canali clandestini, come il 
				PCI era solito fare dati i tempi, ma per via normale. Vengono 
				imbucate a Mosca, con tanto di francobollo, con tanto di 
				indirizzo (carcere di San Vittore Milano), con i nomi dei 
				destinatari (Antonio Gramsci e Umberto Terracini) e del mittente 
				(Ruggero Grieco). 
				* * * 
				È evidente: chi spedisce quelle lettere, vuole che siano lette, 
				oltre che dagli interessati, anche dal magistrato che, contro 
				Gramsci e Terracini, ha spiccato mandato di cattura per 
				eversione contro lo Stato. 
				* * * 
				Che c'è scritto in quelle lettere di Grieco che, fra l'altro, si 
				premura di far sapere che scrive a nome di Togliatti, scusandolo 
				per la sua nota «avarizia» nello scrivere, degna, dice Grieco, 
				di un rabbino? 
				Le epurazioni staliniane in atto, non solo vengono giustificate, 
				ma esaltate. Aver eliminato la opposizione e ogni altra voce di 
				dissenso, scrive Grieco, è un atto responsabile in un momento in 
				cui la minaccia di guerra all'URSS è fatto reale. In questi 
				frangenti, sottolinea Grieco, «non si può giocare 
				all'opposizione». 
				* * * 
				Fermiamoci su questa frase: «non si può giocare alla 
				opposizione». Grieco, scrivendo in questi termini a Gramsci e a 
				Terracini, intendeva informarli su quanto accadeva a Mosca, o 
				viceversa il riferimento, partendo dal comportamento di Stalin, 
				era personale? 
				Il riferimento è personale. È diretto a Gramsci e Terracini che, 
				fin dal 1926, non si erano peritati di esternare il loro 
				profondo dissenso dai metodi con i quali Giuseppe Stalin 
				conduceva il partito. «Trotskj, Zinoviev, Kamenev, hanno 
				contribuito ad educarci per la rivoluzione, sono stati nostri 
				maestri, non possono essere espulsi», aveva scritto Antonio 
				Gramsci in una lettera indirizzata a Stalin, tramite Togliatti, 
				lettera mai consegnata. 
				* * * 
				Ma il «brutto» di quelle lettere che, scientemente, Palmiro 
				Togliatti voleva che cadessero nelle mani delle autorità 
				fasciste, stava nel fatto che Grieco, dando quelle notizie, 
				indicava Antonio Gramsci, non lo si dimentichi in concorrenza 
				con Togliatti per la nomina a capo della Segreteria del PCI, 
				come uno dei più alti dirigenti del comunismo internazionale. Il 
				che veniva a vanificare la difesa dello stesso Gramsci che -in 
				attesa di essere processato- si era difeso dicendo che non 
				faceva parte dell'esecutivo del partito, cioè era sì comunista, 
				ma figura di secondo piano. 
				Il che, in parole povere, significa che Palmiro Togliatti, per 
				sbarazzarsi del suo concorrente alla Segreteria del partito, non 
				si peritava di denunciare Gramsci alle autorità che stavano per 
				processarlo «per banda armata»! 
				* * * 
				È un'accusa pesante quella che il sottoscritto rivolge a Palmiro 
				Togliatti. Me ne rendo conto. Potrebbe sfociare nella calunnia. 
				Ma che cosa è che mi fa insistere nella tesi prospettata? 
				È lo stesso Antonio Gramsci che viene in aiuto a quanto da me 
				affermato. Infatti, in una lettera indirizzata alla cognata 
				Tania del 5 dicembre 1932, Gramsci ritorna sulle strane lettere 
				del Grieco datate 1928. 
				«Ricordi», scrive Gramsci, «che, nel 1928, quando ero nel 
				giudiziario di Milano, ricevetti una lettera di un amico molto 
				strana» e «ti riferii che il giudice istruttore, dopo avermela 
				consegnata, aggiunse testualmente: "onorevole Gramsci, lei ha 
				degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo 
				in galera"». «Tu stessa», insiste Gramsci, «mi riferisti un 
				altro giudizio dato su questa lettera, giudizio che culminava 
				nell'aggettivo "criminale"». 
				«Si trattò -si chiede Gramsci- di un atto scellerato, o di una 
				leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo. Può darsi l'uno e 
				l'altro caso insieme; può darsi che chi scrisse (Grieco - N.d.R.) 
				fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro (Togliatti 
				- N.d.R.), meno stupido, lo abbia indotto a scrivere ...». 
				* * * 
				Umberto Terracini non sarà da meno. Infatti, rispondendo a 
				Grieco, nel commentare quella frase, per cui Grieco si accingeva 
				a scrivere per conto di Togliatti in quanto costui era «avaro 
				nel prendere la penna», commenta: «Per scrivere, oltre al 
				francobollo, occorre un certo quid di sentimenti e di impulsi 
				non cedibili e permutabili». 
				* * *  
				È una vicenda quantomeno crudele. Fra compagni. Nessuno se ne è 
				ricordato, commemorando Umberto Terracini. 
				* * * 
				«Come prestigio l'Università in Italia è una istituzione 
				definitivamente sepolta. Consigli dì facoltà e di istituto sono 
				assemblee di spettri, veri e propri uffici di collocamento di 
				mano d'opera abusiva o eccedente». 
				«Usano il sangue degli studenti per celebrare riti sacrificali 
				di auto-legittimazione». 
				«Gli accademici sono dei nìcodemiti, parlano in codice. Se ti 
				dicono sì, vuol dire di no, e viceversa. Le loro regole sono, in 
				generale, puramente mafiose: di cooptazione degli amici, o di 
				guerra tra capizona». 
				«Le Università, invece di essere laboratori, funzionano come 
				sentine in cui si distillano i vizi più torbidi. Per fare la 
				ricerca all'università devi bussare a quattrini al tavolo dei 
				partiti. Attraverso Comuni e Regioni possono finanziarti. La 
				condizione non scritta ma inesorabile è di non dare fastidio. È 
				il prezzo che si paga per la commessa che ricevi». 
				(Salvatore Sechi, professore presso l'Università di Bologna, 
				politologo, già iscritto al PCI) ("il Giorno", 29.XII.1983). 
				* * * 
				«Se non hai la rete protettiva di un partito, conti come la 
				schiuma della terra. Sei una pizza da immagazzinare». 
				(idem) 
				* * * 
				«Siamo precipitati morbidamente in un sistema di tipo 
				sovietico-consociativo, dove la reticenza di massa viene 
				chiamata pluralismo, la spartizione democrazia, la tolleranza 
				(eventuale) libertà». 
				(idem) 
				* * * 
				«Se dici a voce alta (o peggio scrivi) ciò che dici in privato, 
				diventi un appestato. Odio i conformismi. A Bologna, dove vivo 
				da più di dieci anni, ho trovato la capitale sudario del più 
				soffocante regime di partito». 
				(idem) 
				* * * 
				"Il Corriere della Sera" (5.1.84), in un neretto riquadrato, 
				molto vistoso, ci fa sapere che sarà interrogato dai giudici 
				savonesi, che stanno indagando sul caso Teardo, Franco Gregorio, 
				ex-funzionario di segreteria del Quirinale, allontanato dopo che 
				il suo nome era apparso negli elenchi della P2 e oggi rinchiuso 
				nel carcere di Imperia con l'accusa di associazione a delinquere 
				di stampo mafioso. 
				«Se conoscevo quella gente» (alludendo ai socialisti finiti in 
				galera), ha fatto sapere il Gregorio, «è perché fino a qualche 
				anno fa frequentavano il Quirinale». 
				
				 
				27 gennaio 1984 
				Inquinamento mafioso 
				
				 
				Giuseppe Azzaro, vice presidente della Camera, è un galantuomo, 
				nel vero senso della parola. Ho lavorato con lui, per anni, 
				nella Commissione antimafia e ho avuto modo di saggiare l'uomo, 
				in più occasioni. Non ci sono dubbi: la sua denuncia è sincera. 
				Si sente che gli è sgorgata dal cuore. Non ne poteva più e ha 
				parlato. Il problema ora è di sapere se avrà altrettanto 
				coraggio per andare fino in fondo. Intanto ascoltiamo alcune 
				delle sue accuse. 
				* * * 
				«Negli affari di mafia si cerca sempre la testa del serpente. Si 
				tenta disperatamente di individuare quello che tira le fila, ma 
				rimane sempre nell'ombra. Tutto questo è importante, tuttavia 
				quando se ne è tagliata una ne rispunta subito un'altra. Allora 
				perché non proviamo a mettere a nudo e sconfiggere il sistema di 
				connivenze e complicità che rende possibile l'infiltrazione 
				mafiosa in tutte le amministrazioni pubbliche? È patetica 
				l'affermazione del sindaco di Catania quando dice che la sua 
				città non è mafiosa. Ma che significa? I comitati di affari 
				esistono anche nell'amministrazione». 
				("la Repubblica", 14.1.84) 
				* * * 
				«Il sistema è collaudatissimo. Alle imprese che stanno per 
				vincere gli appalti si chiede di gonfiare i preventivi per fare 
				entrare anche la tangente che è diventata una componente del 
				costo. Si tratta di una maggiorazione che mediamente si attesta 
				al 15 per cento e che alla fine viene pagata dai cittadini. La 
				mia sensazione di parlamentare siciliano è che ormai non sia più 
				possibile alcuna azione amministrativa che non sia collegata con 
				tangenti e bustarelle. La mafia segue da vicino l'evoluzione 
				economica della società, sta dovunque vi sia un interesse 
				parassitario. Poi esercita la violenza, la corruzione. È questo 
				il problema numero uno. In Sicilia, prima o poi, bisogna 
				capirlo». 
				(idem) 
				* * * 
				Cos' Giuseppe Azzaro. Ma solo in Sicilia? O il sistema ha ormai 
				dilagato dappertutto? 
				Qui siamo a Torino. È appena scoppiato lo scandalo delle 
				tangenti che ha travolto la Città, capitale del perbenismo 
				piemontese. Ascoltate queste dichiarazioni: 
				«Un giovane industriale scoppia a ridere: tangenti? Scandalo? Ma 
				se Io sapete benissimo, ogni galantuomo che commerci in qualcosa 
				lo sa, che se si vuole vendere, bisogna ungere, gratificare, 
				assecondare spartizioni umilianti, distribuire secondo il più 
				aggiornato manuale del parassitismo politico, che prevede le 
				percentuali, non solo ai partiti, ma anche alle correnti, alle 
				sottocorrenti, alle famiglie. Torino dovrebbe fare eccezione? E 
				perché? Forse i nostri magistrati non sanno che larga parte 
				dell'indotto Fiat è taglieggiato da parassiti che chiedono la 
				tangente? Millantatori? Si, alcuni sono millantatori. Ma ci sono 
				anche interi uffici che pretendono la mazzetta. Chieda, chieda, 
				quali umiliazioni debbono sopportare grandi e medie aziende 
				costrette ad includere nei costi dei loro prodotti le mance per 
				i singoli uomini e i partiti politici». 
				("la Repubblica", 9.3.83) 
				* * * 
				Sempre a Torino. Questa volta è un lavoratore che parla. «Guardi 
				che il sistema della corruzione non è nato mica l'altra 
				settimana. Giusto ieri sera ho incontrato un mio amico che aveva 
				il problema di trovare un lavoro al figlio. Gli dico: ohe, 
				Arturo, come va? E quello: bene, il mio ragazzo lo assumono alla 
				SIP. Ma ho dovuto tirare fuori otto milioni. Capito? Ed è la 
				regola». 
				("a Repubblica", 9.3.83) 
				* * * 
				Torino, Catania, Palermo, Roma, Milano, che differenza fa? 
				Partito eguale mafia, mafia eguale partito. Citerò degli 
				avversari. Il siciliano Girolamo Licausi: «Ormai la mafia è il 
				cardine della vita politica italiana». Meglio sarebbe dire: 
				incarnazione. Il comunista Giancarlo Paietta: «È sempre più 
				difficile discernere il confine fra politica e criminalità». 
				Ed allora? Che ne facciamo di questa Repubblica mafiosa? La 
				teniamo così, in modo che Sandro Pertini possa, confrontandosi 
				con il fango che ci sommerge, continuare a dire che lui, e solo 
				lui, è bravo? 
				* * * 
				Ma ritorniamo a Giuseppe Azzaro. Ce la farà? Io ho i miei dubbi. 
				Si, Azzaro è galantuomo, ma è anche uomo di partito, intriso, 
				spesso, di quel «mal democristiano» che lo porta a cercare 
				coperture nel PCI. 
				«Bisogna fare un patto contro la mafia con uomini credibili», ha 
				affermato Azzaro, «non ricattabili, capaci di prendere decisioni 
				rapide e impedire l'ulteriore degenerazione del sistema, 
				evitando che si cada sempre più nelle mani della mafia. Da 
				questo fronte è assurdo escludere il PCI». 
				* * * 
				Perchè questo accenno, così nobile, al PCI, ad un partito che, 
				proprio in Sicilia, sul piano della moralità pubblica, non se lo 
				merita? 
				Cosa teme Azzaro? Che i comunisti gli ricordino che lui è stato 
				l'estensore della relazione (davvero ignobile, me lo consenta, 
				onorevole Azzaro!) di maggioranza sul caso Sindona? Che ha 
				scritto, lui di suo pugno, che nella vicenda del bancarottiere, 
				accusato di assassinio, «non vi è in alcun modo la 
				rappresentazione di un momento di degrado delle istituzioni», né 
				che «ai suoi torbidi disegni si piegarono esponenti politici o 
				amministrativi»? Teme che gli rimproverino che, con la sua 
				relazione, ha assolto tutti: il governatore della Banca d'Italia 
				Guido Carli, i dirigenti del Banco di Roma, il Presidente del 
				Consiglio Giulio Andreotti che indicherà in Sindona il salvatore 
				della lira, i segretari di partito che da Sindona presero i 
				soldi, i banchieri vaticani che ordirono il disegno di 
				salvataggio per sventare il crack, le collusioni fra il 
				sistema-Sindona e la P2? 
				Temeva tutto questo, ed allora, per salvare la Sicilia dalla 
				mafia, ha invocato l'aiuto del PCI? 
				Onorevole Azzaro, mi creda, i comunisti, non meritano la sua 
				attenzione. Non sono dei moralizzatori. Non ne hanno la stoffa. 
				Infatti, anche sul caso Sindona, sono stati zitti per ben cinque 
				anni. Dal 1974 al 1979. Nessun documento in Parlamento, in 
				questi anni, chiede indagini rigorose sul bancarottiere, con 
				firma PCI. Infatti -e lei onorevole Azzaro lo sa- quel silenzio 
				del PCI su Sindona aveva un solo ed univoco significato: quello 
				di non creare noie a Giulio Andreotti, amico di Sindona. E, in 
				contemporanea, del PCI. Io do una cosa a te, e tu dai una cosa a 
				me. 
				* * * 
				Comunque l'onorevole Azzaro una prima cosa può ottenerla. Il 26 
				gennaio 1972 il Consiglio di Presidenza della Commissione 
				antimafia ascoltò il dott. onorevole Alberto Alessi, 
				democristiano, che aveva chiesto di essere sentito. Da quella 
				audizione ne è venuto fuori un documento di 22 pagine. Però, 
				quando si è trattato di renderlo pubblico, il dott. on. Alessi 
				ha posto il veto. Il tutto è rimasto top secret. 
				In quel «memoriale» ci sono i nomi. Ebbene, onorevole Azzaro, un 
				primo passo: faccia in modo che quanto, a suo tempo, fu 
				affermato dall'on. Alessi, sia reso pubblico. Un primo passo, ho 
				detto. Verso la verità. 
				* * * 
				È tornata di attualità la vicenda della Raffineria ISAB di 
				Melilli (Siracusa). Un affare, non è una novità, di tangenti. Il 
				Presidente della Regione Sicilia, l'on. Santi Nicita, è caduto 
				proprio perché quel vecchio brutto affare di dieci anni fa, è... 
				ribollito. 
				Già, ma in quell'affare anche il PCI ha preso i soldi. Domandi 
				anche questo, onorevole Azzaro: come mai il giudice di Siracusa 
				Roberto Campisi non abbia ancora provveduto ad inviare al Senato 
				l'autorizzazione a procedere nei riguardi di Emanuele Macaluso, 
				direttore de "l'Unità"? 
				Onorevole Azzaro: il senatore Macaluso è un uomo credibile, tale 
				da dare concretezza al fronte anti-mafia? 
				* * * 
				Dalla Sicilia ai soldi riciclati della mafia nel Casinò di Saint 
				Vincent. 
				Enzo Biagi, giornalista principe, ha preso una lodevole 
				iniziativa. Essendo fra i vincitori del premio Saint Vincent di 
				giornalismo, premio alimentato dai soldi del Casinò, ha scritto 
				ai colleghi, vincitori come lui del premio, di restituire quei 
				soldi cosi chiacchierati. 
				È una iniziativa da apprezzare. 
				  
				
					
						
							Pare 
							non debba dirsi Italia 
							ma lo sfascio. 
							È un fatto che si allunga 
							urge studiarlo 
							perché esiste, 
							dopo sarà tardi.
							(Eugenio Montale)  | 
						 
					 
				 
				  
				  
				
				4 febbraio 1984 
				Berto Ricci: l'anticonformista e 
				il credente 
				
				 
				2 febbraio 1941: cadeva, combattendo contro gli inglesi, a Bir 
				Gandula, in Cirenaica, Berto Ricci, fiorentino, poeta, 
				scrittore, matematico. 
				Sono passati 43 anni dalla sua morte. Fu un fascista 
				anticonformista, sanguigno, strafottente, spavaldo. Nella storia 
				della letteratura italiana contemporanea il suo nome rimane. Lo 
				stesso commentatore, nutrito di cultura marxista, è costretto a 
				citarlo, a ricordarlo. 
				Il foglio da lui fondato e diretto si chiamò "l'Universale" 
				(Gennaio 1931 - Agosto 1935). 
				* * * 
				Una sua nota -che intitolava "Avvisi"- del 3 giugno 1931: «Certe 
				nostre noticine di cronaca locale, innocentissime del resto, non 
				sono andate a genio a certi goletti duri di nostra conoscenza: 
				son piaciute, in compenso, a vinai, meccanici, macellari. 
				Benone. Noi facciamo questo "Universale" assai più per i vinai e 
				i meccanici che per i goletti duri. E proseguiremo con quella 
				schiettezza fiorentina che dà noia, pare, a tanti galantuomini 
				indigeni e forestieri e seguiteremo a dir bene e male di quel 
				che ci piace e non ci piace. Troppa gente c'è oggi in Italia che 
				batte le mani a tutto e a tutti, e approva ogni cosa, e crede, o 
				mostra di credere, che discutere un editto d'un podestà sia come 
				discutere il regime, il che non è fascismo, anzi servilità 
				vilissima e antifascismo morale. Che in Italia manchi la libertà 
				è una frottola straniera: ma aiutata, purtroppo, da molte deboli 
				schiene italiane». 
				* * * 
				In tempi di revisione del Concordato, la stampa è tornata a 
				parlare della Chiesa e della sua storia. Ebbene, fate un po' un 
				raffronto fra ciò che la stampa scrive oggi (dolciastre 
				considerazioni!) e la noticina che, sempre in materia di Chiesa, 
				scrisse Berto Ricci il 3 luglio 1931, cioè 53 anni fa. 
				«Noi preferiamo il clero dei tempi di Papa Innocenzo e di San 
				Francesco, crudele e cuncubinario ma anche capace di sacri e 
				profani eroismi, a questa grande burocrazia di onesti impiegati, 
				e piccoli risparmiatori che somigliano maledettamente, nel tono 
				e nei modi, e nella vita, a pastori protestanti; e ci ricordano 
				un po' troppo le sagome ottocentesche dei nostri amici del 
				cattolico e poetico Frontespizio, simili a comparse della 
				Favorita o dell'Emani. Venga presto, per il bene della 
				Cristianità, un Papa gagliardo e rivoluzionario che 
				sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi la 
				religione, lasci alle donnacciole le polemichette puntigliose, 
				riporti nel mondo l'alito del Vangelo, riceva si i pellegrini 
				d'America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere e entri, 
				Vicario di Cristo, nelle case di San Frediano». 
				* * * 
				Giovanni Ansaldo nel suo "Dizionario degli Italiani illustri e 
				meschini" (edizioni Longanesi, 1980), parlando di Berto Ricci, 
				così scrive: 
				«Carattere risentito e fiero, non privo di una certa faziosità 
				toscana, ma incapace di bassezze e di piccinerie, mente temprata 
				dagli studi matematici e aperta ai più alti entusiasmi della 
				poesia, il Ricci, in due piccoli periodici pubblicati a Firenze, 
				"l'Universale", e poi "Campo di Marte", espose le sue idee in 
				articoli brevi e taglienti che contrastavano stranamente con lo 
				stile dei tempi. Mussolini in alto, come l'uomo che esprimeva 
				meglio le esigenze di grandezza politica del popolo italiano, ma 
				trattato senza piaggeria. E puntate di ogni sorta contro i 
				gerarchi ai quali ricordava che «una adunata non è una 
				Austerlitz» e ironie inesorabili contro le mani che applaudano 
				tutto. Detestato da molti federali, sospettato di sovversivismo 
				dai ministri che parlavano di andare verso il popolo, il Ricci 
				fu sempre Ietto, e, entro certi limiti, protetto da Mussolini; 
				al quale doveva apparire la personificazione dèi tipo d'uomo che 
				il fascismo avrebbe dovuto creare, per adempiere davvero le 
				proprie speranze». 
				* * * 
				Indro Montanelli, nella prefazione al suo "Primo tempo" (Casa 
				Editrice Italiana, Milano 1936) scrive: 
				«Questo "Primo tempo" è nato quando non si parlava della guerra 
				d'Africa, quando chi scrive aveva la stessa età o quasi del 
				protagonista; il secondo tempo, e cioè la definitiva formazione 
				di un anima e di un carattere in clima fascista, la racconterò 
				dopo la guerra, se a Dio piaccia. Anzi, nel "Primo tempo", più 
				del formarsi di una coscienza si narra di uno stato d'animo; e 
				gli stati d'animo sono storia dell'animo e variano, e niente più 
				di una guerra vale a superarli. 
				L'adesione incondizionata di tutta la nostra gioventù a 
				Mussolini non è ossessione, come spesso si pensa Oltralpe e 
				Oltreoceano, se bene la figura di Mussolini sia di tale 
				grandezza da giustificare anche l'ossessione: ma è coscienza 
				chiara della Rivoluzione (la maiuscola è di Indro Montanelli - 
				n.d.r.) che in Lui (la maiuscola è di Indro Montanelli - n.d.r) 
				si identifica. Coscienza che si forma: che si forma attraverso 
				prove, talvolta attraverso sbandamenti e inabissamenti; ma 
				sempre tesa verso un ideale che nella storia della società umana 
				non trova riscontri. E può darsi che nello stato d'animo di 
				Valerio (il protagonista del libro di Montanelli - n.d.r.) 
				qualcuno ritrovi il proprio. Qualcuno che poi vuol dire molti. 
				Questo libro -conclude Montanelli- è dedicato a Berto Ricci, 
				uomo nuovo di Mussolini, senza deteriorazioni né ideali né 
				sentimentali; a Diano Brocchi, a Guido Comis, a Romano Bilenchi, 
				a Giuseppe Bianchini, della stessa razza». 
				(Indro Montanelli, 5 Gennaio 1936, anno XIV) 
				* * * 
				Ricordiamo oggi Berto Ricci, a 43 anni dalla sua morte, 
				chiedendogli, ancora una volta, perdono per non essere stati, 
				nemmeno in questo secondo dopoguerra, all'altezza della sua 
				predicazione, della sua vita di credente, di Italiano purissimo. 
				* * * 
				Ho iniziato con il ricordo di Berto Ricci; un ricordo bello, 
				virile, pulito. Non mi va scendere ora a commentare fatti che ci 
				tocca vivere. Preferisco ritornare alla memoria, alla memoria 
				storica. I giornali ci informano che dei sommozzatori israeliani 
				hanno ritrovato, nelle acque di Haifa, lo scafo del Sommergibile 
				"Sciré", con i resti dei 59 marinai italiani che, nell'agosto 
				del 1942, perirono insieme alla loro nave, una delle più 
				gloriose e prestigiose della Marina italiana, protagonista di 
				imprese leggendarie. In primo luogo quella di Alessandria 
				d'Egitto del 19 dicembre 1941 quando lo "Sciré", dopo una 
				navigazione da manuale, al comando del Principe Valerio 
				Borghese, emerse davanti al Porto di Alessandria, centrando il 
				punto esatto da dove doveva iniziare la missione dei 
				siluri-umani che doveva portare all'affondamento delle corazzate 
				inglesi Queen Elisabeth e VaIiant. 
				La TV di casa nostra, anche recentemente, esibendo agli Italiani 
				1983 gli episodi più salienti delle battaglie combattute nella 
				2a guerra mondiale dai nostri soldati, si è lungamente 
				soffermata, con perverso compiacimento, sulle sconfitte subite e 
				sofferte dagli Italiani, in terra, in mare, in cielo. Nulla da 
				eccepire. È un copione che rispetta la direttiva: la fuga dalla 
				storia, il compiacimento del disimpegno, l'esaltazione del: 
				tutti a casa! 
				Per ricordare i 59 marinai dello "Sciré", da 42 anni sepolti 
				nella carcassa del loro sommergibile nel mare africano, caduti 
				perché fedeli al dovere, al quale erano stati chiamati, non 
				andrò a pescare possibili riconoscimenti fra le carte 
				dell'Italia ufficiale, uscita dalla storia. Per ricordarli, 
				ricorrerò ad un grande patriota che, 42 anni fa, nel momento 
				drammatico per la propria Patria, l'Inghilterra, assumeva su di 
				sé tutte le responsabilità del comando, promettendo agli 
				inglesi: sofferenze, lacrime, sangue. Per rimanere nella storia. 
				Ebbene Wiston Churchill, parlando ai Comuni, in seduta segreta, 
				nell'ora più difficile per l'Inghilterra sull'orlo della 
				sconfitta, riferendo sulle dure prove a cui il Paese era 
				sottoposto, così descrisse l'affondamento della Queen Elisabeth 
				e della Valiant, da parte dei marinai italiani: 
				«Un altro colpo mancino stava per esserci vibrato. All'alba del 
				19 dicembre, mezza dozzina di Italiani, che indossavano 
				scafandri di forma insolita, furono catturati mentre nuotavano 
				nel porto di Alessandria d'Egitto. Estreme precauzioni erano 
				state prese contro i vari tipi di uomini torpedine o di 
				sommergibili comandati da un solo uomo che avevano tentato di 
				penetrare nei nostri porti. Non solo vi sono reti e altri 
				sbarramenti, ma scariche subacquee vengono ogni tanto fatte 
				esplodere sulle rotte di sicurezza. Ciò nonostante, questi 
				uomini erano riusciti a penetrare nel porto. Quattro ore dopo si 
				verificarono delle esplosioni nelle chiglie della Queen 
				Elisabeth e della Valiant, provocate da bombe adesive, applicate 
				dai marinai italiani con straordinario coraggio e ingegnosità, 
				il cui effetto fu di aprire delle larghe falle nelle chiglie 
				delle due navi, mettendole fuori combattimento». (Wiston 
				Churchill, Camera dei Comuni, 23 aprile 1942). 
				* * * 
				Sulla bara-ossario dello "Sciré", idealmente, scriveremo queste 
				parole dell'avversario illustre, dello statista combattente, del 
				patriota indomito che ai Marinai italiani rende 
				cavallerescamente, omaggio. Per il loro valore. Per il loro 
				coraggio. 
				Per il resto, lasciamo lo "Sciré" là dove è. Sono d'accordo con 
				l'ammiraglio Giuseppe Rosselli Lorenzini che fece la guerra sui 
				sommergibili: «Per un marinaio non esiste tomba migliore del 
				mare». Lasciamoli là. In pace. Questa Italia non capirebbe. 
				
				 
				18 febbraio 1984 
				I burattinai sul «loggione» 
				
				 
				«La mia prima fondamentale opinione è questa: la loggia P2 è un 
				elemento del sistema massonico. Un sistema che, scoperti gli 
				elenchi della P2, si è cercato di tenere in piedi puntando su 
				Roberto Calvi, al cui fianco erano stati messi personaggi come 
				Carboni, fiduciario di Corona e Pazienza, proprio per assicurare 
				una continuità. Il delitto Calvi può essere nato all'interno di 
				una certa criminalità legata a questi personaggi». 
				* * * 
				È la diagnosi che Bettino Craxi rilascia davanti alla 
				Commissione P2 (8.2.84). Se è vero, ed io ritengo sia vero, che 
				secondo Craxi, fra P2 e massoneria ufficiale esiste una 
				strettissima continuità, mi meraviglia il fatto che il Governo 
				sia ancora in piedi. E mi spiego. 
				* * * 
				Quando gli elenchi vengono trovati nella villa di Licio Gelli a 
				Castiglion Fibocchi il 17 marzo 1981, è in piedi il Governo 
				Forlani (DC-PSL-PRI-PSDI). Sulla vicenda degli elenchi non 
				consegnati, o consegnati in ritardo, spunta la «questione 
				morale», sulla quale Giovanni Spadolini costruirà l'orditura che 
				lo porterà a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio. Le 
				dimissioni di Forlani sono del 6.5.81; il veto di Spadolini per 
				il reincarico a Forlani e, subito dopo, l'investitura di 
				Spadolini da parte di Pertini, sono del 28.6.81. Cioè voglio 
				dire che Giovanni Spadolini diventa presidente del Consiglio, 
				sfruttando vistosamente una faida massonica, ma che faida, in 
				fondo, non è. È un semplice trapasso di poteri. 
				* * * 
				La continuità della P2, ormai sputtanata, afferma Craxi, è 
				assicurata da Corona, tramite Carboni e soci. È un passaggio di 
				consegne. Cadono certe teste, ma ne risorgono di nuove, senza 
				che nulla cambi. E se è vero che Giovanni Spadolini, da 
				presidente del Consiglio, aiuta l'amico fraterno e di partito 
				Armando Corona a salire sul seggio di Gran Maestro della 
				massoneria; è altrettanto vero che Corona continua, sotto il 
				governo Spadolini, le «operazioni» che, ieri, erano di esclusiva 
				pertinenza di Lido Gelli. E con gli stessi metodi. Servendosi di 
				personaggi, come Carboni e Pazienza, che della criminalità 
				organizzata sono espressioni. 
				* * * 
				Giovanni Spadolini non può venire ora a raccontarci di avere 
				«scaricato» Armandino Corona. Troppo facile oggi, a sputtanatura 
				avvenuta. Ma prima, quando «Armandino» girava per il Palazzo con 
				il placet repubblicano e aveva rapporti, tramite i faccendieri 
				Carboni e Pazienza, con Ciriaco De Mita, con l'editore 
				Caracciolo, con monsignor Hillary, tutti personaggi impegnati a... 
				proteggere Roberto Calvi (e i soldi di cui disponeva) e a 
				mettere le mani sull'impero editoriale dei Rizzoli, quando tutto 
				ciò accadeva, subito dopo che Corona era stato ricevuto (e 
				lodato) al Quirinale, per Spadolini andava bene, benissimo. Le 
				precisazioni, le ricusazioni sono venute. Sì, ma dopo. Quando 
				Calvi altro non era se non un relitto. Il relitto che si doveva 
				poi trovare appeso sotto il ponte dei Frati neri, a Londra. Alle 
				due di notte del 17.6.1982. 
				* * * 
				E quando Craxi afferma che «Flavio Carboni rappresenta il filo 
				della continuità della protezione massonica, il fiduciario di 
				Corona presso Calvi», che altro vuol dire se non che il punto 
				nevralgico dì tutta la vicenda P2 è questo, e cioè che, più che 
				Licio Gelli, sono Flavio Carboni, sono Corona e soci, ì Belzebù 
				della situazione? 
				* * * 
				Il banchiere Calvi» -afferma Bettino Craxi- «quando crolla la 
				P2, ricerca, sul medesimo binario massonico, la ricostituzione 
				di una rete protettiva. Trattando della questione del "Corriere 
				della Sera", per esempio, si arriva (è sempre Craxi che parla) 
				ad una sistemazione proprietaria, in cui l'Istituzione (la P2, o 
				meglio la massoneria in genere - N.d.R.) compare a titolo di 
				garante nella figura di un fiduciario, cui viene intestato 
				gratuitamente dai proprietari un pacchetto azionario che diventa 
				arbitro della situazione, il famoso 10,2%, che, è inutile farla 
				lunga, era il pegno dato all'Istituzione (la P2 - N.d.R.) come 
				garanzia che arbitrerà il governo di questo controllo». 
				* * * 
				Che vuol dire Craxi? A chi e a che cosa si riferisce? Presto 
				detto: al periodo in cui Tassan Din diviene, con quel 10,2% e 
				per conto della P2, arbitro della situazione circa il destino 
				del "Corriere della Sera" e delle altre testate Rizzoli. Craxi 
				si riferisce, per precisare meglio, all'accordo siglato il 29 
				aprile 1981 fra il gruppo editoriale Rizzoli e il presidente 
				della finanziaria Centrale, Roberto Calvi. In quell'accordo -che 
				Craxi afferma pilotato dalla P2- vi sono due punti, il 5° e il 
				6°, in cui gli azionisti, nelle mani tutti del piduista Tassan 
				Din, indicano come «garante» il repubblicano e attuale ministro 
				delle Finanze Bruno Visentini, affidandogli anche il compito di 
				trovare altri azionisti. 
				* * * 
				La notizia dell'accordo "Calvi - Rizzoli - Corriere della Sera - 
				Visentini", di cui parla Craxi, qualificandolo operazione P2, è 
				così commentata da "l'Espresso" (3 maggio 1981): 
				«I primi elogi sono arrivati dai tre ministri finanziari: 
				Andreatta, Reviglio e La Malfa, i quali erano stati informativi 
				tempestivamente da Angelo Rizzoli; poi ha telefonato Adalberto 
				Minucci, della direzione del PCI, anche egli per complimentarsi 
				e giovedì, infine, il presidente Pertini ha confidato al 
				vicedirettore del "Corriere" Gaspare Barbiellini Amidei, 
				invitato a colazione al Quirinale, che quella era la migliore 
				notizia che avesse ricevuto nella giornata». 
				* * * 
				Ci si chiede nei giorni di quell'accordo (29.4.81): ma chi sono 
				i soci che hanno portato, o si sono impegnati a portare i loro 
				denari alla Rizzoli? 
				Risponde Bruno Tassan Din, il piduista secondo Bettino Craxi: 
				«Sono impossibilitato a soddisfare queste banali curiosità, 
				neanche io so chi siano questi industriali e comunque non c'è da 
				preoccuparsi dal momento che la Rizzoli è diventata una azienda 
				sana (sic! - N.d.R.) e chi vi entra deve sottostare alle regole 
				fissate da uno statuto fresco di stampa fatto apposta per 
				impedire agli azionisti di interferire nella compilazione dei 
				giornali della casa» (leggi P2 - N.d.R.). 
				("l'Espresso", 3.5.1981) 
				* * * 
				Ora Bettino Craxi, presidente del Consiglio in sostanza, 
				afferma: Guardate, quell'accordo "Calvi - Rizzoli - Visentini" 
				era un accordo massonico. Lo portava avanti la stessa P2 che, 
				benché sotto accusa, si era «rigenerata» sullo stesso tessuto 
				(massonico). Tanto che la sistemazione proprietaria è fatta in 
				modo tale che il suo fiduciario (della P2), precisamente Bruno 
				Tassan Din, fra l'altro vicino al PCI, è messo, azionariamente, 
				nella condizione dì gestire il governo del gruppo Rizzoli. 
				E Pertini esclama: «Ma questa è la più bella notizia della 
				giornata!». 
				* * * 
				Spadolini, Corona, Carboni, De Mita. Monsignor Hillary (del 
				Vaticano), Caracciolo-Scalfari, Calvi, Visentini (e soci). 
				È uno spaccato che l'attuale presidente del Consiglio mette, di 
				sua iniziativa, sotto accusa, dicendo alla Commissione P2: 
				È lì che dovete cercare. E lì che c'è il Belzebù. Fino ad ora le 
				vostre indagini sono risultate fasulle, perlomeno scontate. 
				Hanno puntato su falsi scopi, o quanto meno su vicende di cui 
				già conoscevamo tutto. Quello che deve venire fuori è ben altro. 
				È la P2 rigenerata sul tessuto massonico ufficiale, quella che 
				dovete mettere sotto torchio. Ed è una P2 che opera. Eccome se 
				opera! Non solo ai soliti livelli, ma perfino nella Commissione 
				P2. Bando, perciò, alle ipocrisie. E ai salvataggi pilotati. 
				Anche i radicali la smettano di fare i puri. Perché hanno fatto 
				silenzio (e continuano a fare silenzio), per esempio, sul caso 
				Zilletti? Chi vogliono coprire? E perché si tace su Lorenzino? E 
				perché De Mita, amico di Carboni, viene risparmiato? E le bobine 
				di Carboni? Dimenticate nel cassetto? E perché mai? 
				* * * 
				Questo il senso (chiarissimo) delle dichiarazioni di Bettino 
				Craxi davanti alla Commissione P2. 
				Mi sono chiesto all'inizio, come faccia il Governo a restare in 
				piedi in una situazione simile. 
				Infatti quando Craxi chiama Corona allude a Spadolini. E 
				Spadolini è ministro della Difesa nel governo Craxi. Quando 
				Craxi parla del tentativo di Calvi dell'aprile 1981 di sistemare 
				il "Corriere della Sera" con una operazione concepita dai 
				piduisti di vertice, chiama in causa Tassan Din, ma allude a 
				Bruno Visentini, che di quella operazione era indicato come 
				garante. E Bruno Visentini è ministro delle Finanze nel governo 
				Craxi. 
				Quando Craxi parla insistentemente del faccendiere Flavio 
				Carboni, faccendiere di Corona e legato alla malavita, chiama in 
				causa Ciriaco De Mita, di cui Carboni sì fece sponsor elettorale 
				nei riguardi dell'altro gruppo editoriale, 
				"l'Espresso-Repubblica". E nella fase della elezione a 
				segretario nazionale della DC, e durante l'ultima competizione 
				politica del giugno 1983. 
				Se a tutto questo aggiungete che Forlani, che si volle «fuori» 
				nel maggio del 1981 per questioni morali, è in questo governo 
				vicepresidente del Consiglio, accanto a Craxi, Spadolini e 
				Visentini, credo che ve ne sia abbastanza per dire: ma che razza 
				di governo è questo? Mai come adesso gli Italiani sono stati 
				presi per i... fondelli. 
				* * * 
				Per riassumere. Da Calvi si sono fatti dare i soldi: la DC, il 
				PCI, il PSI. Hanno preso i soldi i Rizzoli, vicini al PRI; 
				Tassan Din, vicino al PCI; Flavio Carboni vicino alla massoneria 
				di Corona, amico di Spadolini. Con i soldi di Calvi sono stati 
				pagati gli stipendi ai giornalisti del "Corriere della Sera". 
				Sette miliardi ha avuto da Calvi il presidente dell'Olivetti 
				Carlo De Benedetti, amico di Berlinguer e di Scalfari, per 
				andarsene dall'Ambrosiano dopo un... parcheggio, nel suo 
				consiglio di amministrazione, di appena due mesi. 
				Ora Craxi dice: è qui che dovete guardare. Belzebù è qui. 
				Prendersela con il solo Licio Gelli non ha senso. Ma la 
				Commissione sulla P2 guarda da tutt'altra parte. Non cerca la 
				verità. 
				* * * 
				È la tesi di Lido Gelli «fascista» che mette su la P2 onde 
				operare il «golpe»? Dove è andata a finire? Nessuno è rimasto 
				più a sostenerla. Gli riderebbero sul muso. A Gelli, e ai suoi 
				simili, piace «questa» Repubblica. Immensamente. Tutte le porte 
				gli erano aperte: dal Quirinale a Palazzo Chigi, al Vaticano. E 
				dove troverebbero l'eguale? 
  
				
				13 marzo 1984 
				Si sta avverando la profezia di 
				Moro? 
				
				 
				Qual'è, a mio modesto parere, la chiave di lettura, la più 
				appropriata, del recente congresso nazionale della DC? 
				È che si avvera la profezia di Aldo Moro: «Senza di me non 
				farete più nulla. Muoio, se così deciderà il mio partito, ma 
				questo bagno di sangue non andrà bene né a Zaccagnini, né ad 
				Andreotti, né alla DC ...». 
				(Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e 
				l'assassinio di Aldo Moro, pagina 110, volume II, Doc. XXIII, n° 
				5) 
				* * * 
				Senza di me non farete più nulla. «Ho un immenso piacere di 
				avervi perduto e mi auguro che tutti vi perdano, con la stessa 
				gioia con la quale io vi ho perduto». 
				(idem, pagina 154) 
				E qui la chiave di lettura del congresso. Aldo Moro era l'unico 
				uomo politico capace di guidare, nelle sue tortuosità, un 
				partito come la DC, partito che lui stesso aveva costruito a sua 
				immagine. Fin dal 1962. Trasformandolo da partito 
				social-cristiano a partito di potere. È lui che, autentico 
				prestigiatore della crisi della decadenza, trova, inventa le 
				formule perché la DC resti, eterna, al potere. 
				* * * 
				E lui che tiene in sella tutti i capi storici della DC, a 
				cominciare da Andreotti. Sono le sue «formule» magiche che 
				evitano alla DC la frana totale. Sono le sue formule stregate 
				che, consentendo alla DC di riprodursi come potere (la nuova 
				fede) in qualsiasi circostanza, perfino nella sconfitta, 
				decompongono gli altri, i propri dirimpettai. Qui è la grandezza 
				di Aldo Moro. Qui sta la sua consapevolezza: Volete che io 
				muoia? E sta bene. Ho capito. Voi ritenete che, scomparso Moro, 
				proprio sulla sua morte, riscatterete, rinnoverete, rigenererete 
				la DC. Voi ritenete, servendovi del mio cadavere, di cogliere 
				l'occasione storica di riprodurre la DC, il suo eterno potere. 
				Ebbene, io vi dico che sbagliate. Perdendomi, vi perderete. Non 
				farete più nulla, volendo la mia morte. Sarà la vostra fine. 
				È ciò che Aldo Moro scrive dalla prigione delle BR. 
				* * * 
				Fateci caso: sul frontone del cimitero di campagna in cui Aldo 
				Moro viene seppellito, c'è una scritta impressionante: "Nemini 
				parco". Cioè non perdono, non risparmio nessuno. Un motto 
				attribuito alla imparzialità della morte, che prima o poi arriva 
				per tutti. Ma Aldo Moro dice le stesse cose ai suoi amici 
				democristiani. In una lettera a Zaccagnini, allora segretario 
				della DC, scrive: «Non creda la DC di avere chiuso il suo 
				problema liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto 
				irriducibile di contestazione e di alternativa. Per questa 
				ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei 
				funerali non partecipino né autorità, né uomini di partito ...» 
				(idem, pagina 104). 
				* * * 
				«Io ci sarò come punto irriducibile di contestazione». È la 
				profezia. Si faccia attenzione: è da allora che la DC non trova 
				più una bussola orientativa. Incespica. Brancola. Cade. Pensava 
				di riscattarsi sulla morte di Moro, ma è la morte di Moro che la 
				fa franare. Anche all'EUR è una frana... 
				* * * 
				Piccoli: «De Mita deve sapere che se vorrà decidere da solo 
				dovremo scegliere insieme». 
				Bisaglia: «Non mi piacciono le tentazioni monocratiche del 
				Segretario. Io chiedo una direzione collegiale del partito». 
				Zaccagnini: «Caro De Mita avrai in noi dei sostenitori convinti, 
				ma gelosi della loro autonomia di giudizio». 
				("Corriere della Sera", 26.2.84) 
				* * * 
				Moro, lui solo, con la sua insuperabile arte levantina, avrebbe 
				potuto tenerli insieme. Non c'è più. E De Mita non è Moro. E i 
				tempi di De Mita non sono più quelli di Moro. Siamo passati ad 
				un'altra fase storica. Si chiude con Moro un'epoca di 
				disfacimento. Il tempo delle mollezze, delle mediazioni a 
				qualunque costo, che ci hanno regalato crisi, viltà, morte, si è 
				consumato. Ho l'impressione che la ruota della storia, anche per 
				l'Italia che ne è stata espulsa, si rimetta in moto. Siamo alle 
				scelte. A scelte dure. Ecco perché la DC, la molle, la 
				mediatrice DC di Aldo Moro, costruita sulle macerie delle 
				ideologie e impastata dell'unità del potere, non serve più. I 
				tempi si fanno trasparenti. La doppiezza è di ieri. 
				* * * 
				Giulio Andreotti, dalla tribuna del congresso DC, ha sostenuto, 
				incondizionatamente, la candidatura di Ciriaco De Mita. È stato 
				il suo, fra quelli pronunciati dai Capi storici della DC, un 
				intervento senza riserve a favore dell'uomo politico avellinese. 
				Anche qui soccorre Aldo Moro. «Un regista freddo, 
				imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un 
				momento di pietà umana», scrisse Aldo Moro di Giulio Andreotti. 
				Un regista freddo. Giusto. Perché tutti hanno capito che 
				l'intervento di Giulio Andreotti, più che al congresso DC, 
				puntasse «a mettere qualche mattone in più alla scala che sta 
				costruendo e che dovrebbe, quando sarà il momento, farlo salire 
				al Quirinale». 
				("la Repubblica", 1.3.84) 
				* * * 
				«La sinistra DC rimprovera a De Mita, fra l'altro, di non aver 
				dato nemmeno un cenno di risposta al discorso di Zaccagnini che 
				ha rappresentato un vero e proprio programma politico». ("la 
				Repubblica", 1.3.84). 
				Aldo Moro: «La pallida ombra di Zaccagnini, indolente senza 
				dolore, preoccupato senza preoccupazioni, appassionato senza 
				passioni, il peggior segretario che abbia avuto la DC». 
				(Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e 
				l'assassinio di Aldo Moro, pagina 153, volume 11, Doc. XXIII, n° 
				5) 
				* * * 
				«A Piccoli gli sono rimasti Gava, Gaspari, Pontello, tutti 
				fedeli sostenitori di Ciriaco De Mita». ("la Repubblica", 
				1.3.84) 
				Aldo Moro: «Onorevole Piccoli, come è insondabile il suo amore 
				che si risolve sempre in odio. Lui sbaglia da sempre e sbaglierà 
				sempre, perché è costituzionalmente chiamato all'errore». 
				(idem, pagine 153-154) 
				* * * 
				«Parla Galloni e chiede a De Mita di tenere la DC al riparo 
				dell'ambiguità socialista e dalle aspirazioni dei laici alleati. 
				Per De Mita senza riserve, perché De Mita e Zaccagnini sono una 
				cosa sola». ("la Repubblica", 29.2.84) 
				Aldo Moro: «Onorevole Galloni, volto gesuitico che sa tutto, ma, 
				sapendo tutto, nulla sa della vita e dell' amore». 
				(idem, pagina 154) 
				* * * 
				«Eccolo il rinnovamento di De Mita. Ha sfasciato tutto. Ma come 
				ha potuto lui, speranza della sinistra e del rinnovamento 
				ideologico, diventare ostaggio di Gava e Bisaglia?». 
				(Calogero Mannino, "Corriere della Sera", 1.3.84) 
				* * * 
				«Ciriaco De Mita dice di apprezzare l'inchiostro indipendente, 
				il giornalismo non dimezzato. Sono balle, replica Donat Cattin. 
				Il 22 gennaio l'ex petroliere Monti è a pranzo da Bisaglia e ci 
				trova Ciriaco De Mita. Notevoli rimostranze di De Mita per gli 
				scritti di Enzo Bettiza e Francesco Damato su "la Nazione" (di 
				proprietà di Monti - N.d.R.) Monti se ne va impensierito. Viva 
				la libertà di stampa!». 
				(Giampaolo Pansa, "la Repubblica", 28.2.84) 
				* * * 
				Nella vita di Ciriaco De Mita c'è un destino che lo porta, alla 
				vigilia di prove importanti, ad incontrare i padroni della carta 
				stampata. E da quegli incontri ne esce, puntualmente, 
				sputtanato. 
				Anche alla vigilia dell'altro congresso DC (1982), che lo vide 
				eletto, per la prima volta, segretario nazionale della DC, fu 
				invitato a cena. E si trovò accanto, oltre all'editore de "La 
				Repubblica" e de "l'Espresso" Carlo Caracciolo, anche il Gran 
				Maestro della massoneria Armando Corona e Monsignor Hillary del 
				Vaticano. L'abitazione (via Guidi) in cui l'incontro avveniva: 
				quella di Flavio Carboni, un portaborse, oggi in galera, 
				imputato di reati vari, fra i quali l'omicidio. 
				  
				
				17 marzo 1984 
				Cadaveri e assassini eccellenti 
				
				 
				Michele Pantaleone, il famoso mafiologo, insiste. Sia nella 
				prefazione al libro di Michele Falzone "La mafia: dal feudo 
				all'eccidio di via Carini" (Flaccovio editore, 1983); sia su 
				"Pagina" (febbraio-marzo 1984), porta spavaldamente avanti la 
				tesi, per cui la Commissione parlamentare di inchiesta sul 
				fenomeno della mafia, che ha chiuso i suoi lavori il 4 febbraio 
				1976, decidendo di tenere segrete le schede da essa stessa 
				compilate, e riguardanti i politici, ha praticamente detto «no» 
				alla verità. 
				* * * 
				Nel dicembre u.s. a Reggio Calabria, nel convegno promosso dalle 
				Regioni Sicilia e Calabria sulla «mafia», Michele Pantaleone, 
				ripetendo dalla tribuna la tesi su esposta, e con un vigore che 
				andava al di là di ogni misura, venne avvicinato dal 
				sottoscritto. E gli fu fatto presente, con tutto il garbo 
				possibile e senza, per carità, difendere l'operato della 
				Commissione Antimafia di cui avevo fatto parte, che non era 
				possibile dare corso alla pubblicazione di quelle schede perché 
				compilate, in gran parte, anche su denunce anonime, non 
				verificate. E tanto vera era la mia affermazione che proprio la 
				scheda intestata a Michele Pantaleone, di cui ero in possesso, 
				dimostrava che proprio lui, se le schede fossero state 
				pubblicate, sarebbe stato il primo ad essere «sputtanato». 
				Perché si ha voglia di dire che quelle sono calunnie; nei tempi 
				odierni vigoreggia il motto: calunniate, calunniate, qualcosa 
				resterà. 
				* * * 
				Michele Pantaleone non si è dato per vinto e, per giunta, mi 
				rilascia la dichiarazione che segue: 
				«Onorevole Giuseppe Niccolai, componente la Commissione 
				Antimafia. Mi riferisco alla sua dichiarazione fatta poco fa 
				relativa alla scheda in suo possesso. 
				La invito e La autorizzo a pubblicarla e segnalarmi il giornale 
				sul quale sarà pubblicata. 
				Colgo l'occasione per sollecitare la sua benevola attenzione per 
				un suo intervento in sede parlamentare per la pubblicazione di 
				tutte le altre schede delle quali si fa cenno nella relazione 
				dell'antimafia alle pagine 140 e 141, voi. XXIII n° 2, septies. 
				La prego gradire cordiali saluti. Reggio Calabria, 17 dicembre 
				1983, ore 17,15 f.to Michele Pantaleone». 
				* * * 
				Ripeto qui quello che a Pantaleone dissi a voce. E cioè che nel 
				mio comportamento non vi era nulla che potesse essere 
				interpretato come ostilità nei suoi riguardi. Anche perché 
				quando in Commissione Antimafia venne discussa (5.2.75, pagina 
				1041, Doc. XXIII n° 2, VII legislatura) la richiesta di dare, o 
				no, tutto ciò che noi, come Commissione, avevamo raccolto sul 
				ministro Gioia, alla 2a Sezione Penale del Tribunale di Torino, 
				dove era in corso il procedimento intentato per calunnia dal 
				ministro Gioia contro Michele Pantaleone, fu proprio il 
				sottoscritto (solo!) a presentare un ordine del giorno che 
				autorizzava la Commissione antimafia «a mettere a disposizione 
				dei magistrati torinesi i documenti in suo possesso e da 
				consultare con le modalità concesse ai membri della 
				Commissione». 
				* * * 
				E se quell'ordine del giorno venne respinto, Michele Pantaleone 
				non può prendersela con il sottoscritto, ma se mai con l'intera 
				Commissione che non ne volle sapere. Dissero «no» anche Pio La 
				Torre, anche il caro amico mio, l'indipendente eletto nelle 
				liste del PCI, il magistrato Cesare Terranova, entrambi poi 
				assassinati dalla mafia. 
				La sinistra, dunque, fu compatta nel dire no. Ed è qui che 
				faccio io un primo rilievo a Michele Pantaleone. E cioè quello 
				che, nelle sue analisi sulla mafia, ha sempre evitato di 
				scrivere alcunché che potesse nuocere all'immagine della 
				sinistra politica, anche quando questa «sinistra» puzzava 
				(tremendamente!) di mafia. Michele Pantaleone, il mafiologo lo 
				fa un po' a senso unico. A sinistra non guarda, non vede, non 
				sente. È davvero un peccato. 
				* * * 
				Ma torniamo alle schede. Pantaleone mi autorizza a pubblicare la 
				sua. Sono in imbarazzo. Pubblicare o non pubblicare? 
				Decido di no. Le notizie raccolte nella scheda sono talmente 
				rozze che le lascio lì. D'altra parte lo stesso Pantaleone 
				conosce perfettamente quanto in quella scheda c'è scritto; al 
				punto che, nel lontano febbraio 1975, quando il periodico "Il 
				Settimanale" pubblicò parte di quello che in quella scheda c'era 
				scritto, sporse querela per diffamazione (anzi: come è finita 
				quella vertenza?). 
				Ora la domanda è lecita: quando Pantaleone chiede 
				perentoriamente, e in nome della verità, che tutte le schede 
				vengano rese pubbliche, e sono le stesse per cui lui si lamenta 
				e querela, che dovrebbero dire gli altri «politici» che, al pari 
				e come lui, in quelle schede sono rappresentati? 
				* * * 
				E bene quindi che Michele Pantaleone lasci in... pace quelle 
				schede. Invece può fare un'altra cosa, se lo crede. Non io, ma 
				Alberto Giovannini, ne sono certo, e prontissimo a mettergli a 
				disposizione il giornale per quanto lui vorrà replicare. Si 
				tratta di questo. 
				Michele Pantaleone, uomo di sinistra da sempre, nella citata 
				intervista su "Pagina", afferma: 
				«Sono convinto che gli ultimi omicidi, le cui vittime sono state 
				"eccellenti", sono stati commessi per la volontà di mandanti 
				"eccellenti"». 
				Ebbene, la frase: «Non ci sono cadaveri eccellenti senza 
				assassini eccellenti», non è di Michele Pantaleone, ma del prof. 
				Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale assassinato. E tale 
				frase è contenuta in questa riflessione (lucidissima!) apparsa 
				su "la Repubblica" (18.XII.82) sotto il titolo «Pax mafiosa»: 
				«La mafia, è bene ricordarlo diventa più potente nel decennio in 
				cui cresce, e non di poco, la sinistra. C'è un interrogativo più 
				inquietante. Quali sono i princìpi che regolano tattiche, 
				strategie, formule, e soprattutto alleanze, della sinistra in 
				quel periodo? Forse le leggi della politica che lì essa pratica 
				sono le stesse in cui può navigare il potere mafioso? Il fatto è 
				che è cresciuta la compenetrazione della mafia col potere e per 
				questo si possono colpire le istituzioni. Non ci sono, cadaveri 
				eccellenti senza assassini eccellenti. Se ciò è vero, ed è vero 
				che il salto qualitativo si realizza nel decennio, c'è a 
				sinistra un approccio al potere e alla politica che va criticato 
				impietosamente. Senza di che la denuncia delle responsabilità 
				democristiana resterà sacrosanta quanto inefficace». 
				* * * 
				Provi un po', Michele Pantaleone, a rispondere al quesito di 
				Nando Dalla Chiesa: perché mafia e sinistra crescono insieme? 
				Perché il salto qualitativo della mafia si realizza nel decennio 
				in cui la sinistra politica aumenta il suo potere? 
				È nel contesto di questo interrogativo che occorre porne altri e 
				tutti molto inquietanti. 
				È proprio vero che Pio La Torre e Piersanti Mattarella si erano 
				posti fuori ogni «compromesso»? 
				È vero: sono caduti sotto il piombo mafioso. Ci togliamo il 
				cappello. Però il doveroso atto di omaggio si ferma qui. La 
				morte non può impedirci di ricercare la verità, di capire come 
				stanno le cose. Non ci può impedire, per esempio, di scrivere, 
				in contrasto con le gazzette democratiche, che la relazione di 
				minoranza presentata dal PCI, a firma di Pio La Torre, è una 
				relazione che non cerca affatto la verità, ma il compromesso con 
				la DC. La data dice tutto: 2 febbraio 1976. Chi governava? Aldo 
				Moro. E in Sicilia l'alleanza DC-PCI vigoreggiava. Anche negli 
				appalti. 
				* * * 
				Sedici dicembre 1974, la Commissione antimafia è scesa in 
				Sicilia. Per indagare. Pio La Torre (siamo in Prefettura, e 
				scorrono i tempi del compromesso storico) dichiara: 
				«Do atto che in questi ultimi tempi nella DC siciliana c'è un 
				processo critico, autocritico, di ripensamento e quindi c'è uno 
				sforzo di rinnovamento che si tenta in mezzo a mille difficoltà, 
				di portare avanti ...». 
				«Non vi è dubbio che la presa della mafia e il suo potere 
				capillare di controllo sull'elettorato in Sicilia, si siano 
				ridotti e di sono ridotti per tutto quello di progresso e di 
				sviluppo che in Sicilia c'è stato». 
				Così Pio La Torre nel dicembre 1974. Cresceva la sinistra, e 
				secondo Pio La Torre, insieme a questa crescita, si riduceva la 
				mafia, e tutto perchè DC e PCI andavano sottobraccio. 
				Ahimè, sono venuti poi gli assassinati eccellenti, uno di 
				questi, Pio La Torre. Nando Dalla Chiesa, che è uomo di 
				sinistra: «Il fatto è che, con la crescita della sinistra, la 
				compenetrazione della mafia col potere è aumentata, ed è per 
				questo che si possono colpire le istituzioni. Non ci sono 
				cadaveri eccellenti senza assassini eccellenti». 
				Michele Pantaleone è pregato di rispondere. E per ciò che 
				riguarda l'assassinio di Pio La Torre dia, intanto, una 
				guardatina approfondita all'appalto riguardante la costruzione 
				del Palazzo dei Congressi in Palermo. Un appalto di diversi 
				miliardi. Una ditta, cara a sinistra, data per vincente, e che 
				poi non ce la fa... Le interrogazioni a Palazzo dei Normanni. Un 
				materiale da raccogliere. A Michele Pantaleone non mancano certo 
				le entrature per osservare «bene» come sono andate le cose. 
				  
				
				24 marzo 1984 
				Impronte digitali sporche di 
				petrolio 
				
				 
				Procedimento penale n. 1774/80 R. G. Garrone Riccardo più 44. 
				Di che si tratta? 
				Diciamolo con le parole contenute nella requisitoria del 
				Pubblico Ministero dott. Dolcino Favi, della Procura della 
				Repubblica di Siracusa. 
				Gli elementi di prova che l'istruttoria ha evidenziato, e che 
				riguardano la costruzione della Raffineria ISAB del gruppo 
				Garrone di Genova, in Melilli (Siracusa), prospettano, per i 
				loro contenuti, «un caso scolastico di corruzione». 
				* * * 
				Caso scolastico di corruzione, da manuale. Il "Secolo d'Italia", 
				su questa vicenda, c'è tornato più volte; ora c'è la 
				requisitoria del PM che ci racconta la storia. Possiamo parlarne 
				con giudizi più pertinenti. 
				I fatti risalgono a 10 anni fa. La Guardia di Finanza di Genova, 
				su disposizione della Magistratura, effettua il 10/1/74, 
				indagini presso dirigenti del gruppo petrolifero Garrone onde 
				accertare violazioni di legge in materia di prodotti 
				petroliferi. 
				* * * 
				Dai cassetti salta fuori un tabulato in cui sono indicate delle 
				spese extra non documentabili; spese impegnate nel corrompere 
				ministri, giornali, partiti, uomini politici, portaborse. Il 
				tutto, perchè alla società ISAB venissero concesse, velocemente 
				e senza storie, le licenze di legge per costruire la raffineria 
				di Melilli. 
				Direte: roba vecchia. Si, è roba vecchia ma non è male 
				ritornarci sopra. E per due ordini di motivi. Il primo, ahimè, 
				per rinnovare il ricordo della vergogna di avere, attraverso 
				tangenti, massacrato uno dei paesaggi più suggestivi d'Italia, 
				il golfo di Melilli. Il secondo perché, fra coloro che pigliano 
				i soldi per favorire l'operazione-massacro dei petrolieri c'è, 
				inequivocabilmente, anche il PCI. 
				* * * 
				La cifra globale, elargita dai corruttori ai corrotti, e che si 
				è riusciti approssimativamente a quantificare, ammonta a due 
				miliardi e 677 milioni (valori del 1971). 
				Come al solito la parte del leone la fa la DC nazionale. A tale 
				riguardo, il magistrato, nella sua requisitoria, ci fa sapere 
				che «era noto negli ambienti imprenditoriali che la DC, a 
				livello nazionale, concordava tangenti con gli interessati, in 
				misura di lire 350 lire per tonnellata di concessa 
				raffinazione». 
				* * * 
				Ma le elargizioni, oltre andare alla DC, entrano, nelle tasche 
				dell'ex-ministro, ora defunto Gioia; del ministro, ora in 
				carica, Nino Gullotti, oltre a personaggi dell'Assemblea 
				Siciliana come l'ex-presidente dell'Assemblea Nicita Santi, 
				funzionari, sindaci, presidenti di amministrazioni provinciali, 
				perfino della Confindustria. Poi, nel tabulato ritrovato, fra i 
				beneficiati, il PCI, il PSI, il PSIUP, il giornale comunista 
				"l'Ora" di Palermo. Pigliavano i quattrini con il compito di 
				dire «si» all'operazione-massacro e di tenere «buona» la 
				pubblica opinione. 
				* * * 
				E i pagamenti, scrive il magistrato, avvengono contestualmente 
				al rilascio delle licenze, delle modifiche del Piano Regolatore, 
				dei decreti regionali. Infatti il versamento di due miliardi e 
				19 milioni ai corrotti, avviene alcuni giorni prima del decreto 
				assessoriale n. 537 del 21.5.71 dell'assessore Savino Fagone, 
				che concede la licenza all'ISAB, quella fondamentale, e dalla 
				quale dovevano partire poi tutti gli altri atti di legge. 
				Prima il malloppo, poi il decreto. 
				* * * 
				C'è di più. Lo scrive il magistrato. L'assessore regionale allo 
				Sviluppo economico, Giovanni Tepedino del PRI (il partito della 
				moralizzazione!), se la prende con gli uffici perchè (testuale) 
				«non si lasciano condizionare sufficientemente dalle sue 
				pressioni». 
				Non solo, ma il parere, obbligatorio per legge, dell'assessore 
				Tepedino fu «apertamente» (sic) contrattato nei suoi contenuti 
				con l'ISAB e il decreto 90/4 del Presidente della Regione, che 
				serviva per legittimare atti amministrativi precedenti e poneva 
				le basi per il rinnovo della licenza dopo la scadenza triennale, 
				fu comunicato all'ISAB prima della sua emanazione. 
				* * * 
				E facevano le cose in famiglia. Si è scritto che l'ISAB sborsa 
				due miliardi e 19 milioni, subito dopo che l'assessore Savino 
				Fagone, socialista, poi condannato per truffa e peculato, emana 
				il decreto regionale concessivo. La somma a chi va? Alla DC. E 
				poi, con un «rituale» interno, di cui non si conoscono i 
				criteri, avviene la spartizione: tanto alla DC, tanto al PSI, 
				tanto al PCI, tanto agli assessori Fagone, Tepedino, Mangione, 
				tanto al PSIUP, tanto al giornale "l'Ora", tanto alla 
				Confindustria palermitana. Siamo al livello della «banda». 
				Indiscutibilmente, in queste faccende, è più... nobile la mafia. 
				Almeno i suoi affari non li avvolge nella carta dei princìpi e 
				delle idee, così come fanno i partiti e gli uomini politici. La 
				mafia i quattrini li rapina. E lo dice. Quest'altri rapinano e 
				pretendono di governarci e di farci la morale. 
				* * * 
				«Il piano corruttivo», scrive il giudice, «ha interessato tutto 
				il complesso delle forze politiche alle quali di volta in volta 
				i singoli amministratori appartenevano. A parte quanto si dirà 
				la evidenza di un coinvolgimento di tutte le forze politiche, 
				esclusa la destra, a livello regionale, è anche questo un dato 
				conclusivo sul quale non può muoversi alcun dubbio». 
				* * * 
				Il coinvolgimento di tutte le forze politiche, eccetto la 
				destra, cosi come il giudice scrive dopo dieci anni di indagini, 
				aveva portato alla ribalta la posizione dell'attuale direttore 
				de "I'Unità", Emanuele Macaluso che, essendo all'epoca dei fatti 
				criminosi, segretario regionale dei PCI, veniva indicato come il 
				probabile percettore della somma arrivata al PCI. A tale 
				proposito sarà bene ascoltare il giudice. 
				* * * 
				«Il quinto gruppo di indicazioni (raccolte nel tabulato 
				indicante le somme elargite, tabulato trovato nell'abitazione 
				dei Garrone - N.d.R.) riguardava II PCI, il PSI, e il PSIUP, e 
				ha posto sin dall'inizio -scrive il magistrato Dolcino Favi- 
				notevoli difficoltà per la individuazione concreta delle persone 
				fisiche dei percettori delle somme indicate nel tabulato, e ciò 
				per l'ovvia considerazione che relativamente a queste voci di 
				finanziamento non sono stati indicati i nominativi: di fatto 
				l'indagine si è arrestata di fronte ad un compatto muro di 
				reticenza». 
				* * * 
				Così il giudice. Come rimediare? Il magistrato, nella sua 
				requisitoria, fa questa considerazione. I soldi, otre la 
				maggioranza dell'Assemblea regionale, li ha presi anche la 
				minoranza comunista. Su questo, dice il giudice, c'è certezza. 
				Infatti lo stesso PCI è passato dal no alla costruzione della 
				raffineria al si. Ma chi è il percettore diretto di quei denari 
				che, con la sua autorità, fa sì che il Pei si converta dal no al 
				sì? 
				Il giudice argomenta: e chi può essere se non il segretario 
				regionale dell'epoca? E, dato che segretario regionale del PCI, 
				era, a quel tempo, Emanuele Macaluso, ecco come il nome 
				dell'attuale direttore de "l'Unità" compariva fra i possibili 
				incriminati. 
				* * * 
				Ora, come la stampa ha riportato, il Pubblico Ministero ha 
				chiesto al Giudice istruttore di assolvere Emanuele Macaluso. E 
				Io fa con queste testuali parole: 
				«In sostanza in questo caso il tabulato di per sé, a una 
				obiettiva valutazione, non dà elementi sufficienti alla 
				implicazione di responsabilità che prima che politiche e 
				collettive debbono essere specifiche ed individuali, e pertanto 
				la prova si arresta e non valica il limite della certezza 
				processuale. È ben vero, e ciò occorre ribadirlo, che il 
				tabulato è prova certa della effettività, come più volte si è 
				sopra sostenuto, dei finanziamenti ed è altrettanto prova certa 
				del coinvolgimento dei partiti che vi sono indicati, ma tuttavia 
				la considerazione che sopra si è fatta impedisce di pervenire a 
				questo proposito a conclusioni sufficientemente certe e pertanto 
				deve richiedersi il proscioglimento di Emanuele Macaluso con 
				formula di merito, per non essere stata provata la 
				responsabilità dello stesso o, subordinatamente, con altra 
				formula anche dubitativa secondo l'apprezzamento e la 
				valutazione del Giudice istruttore che potrà considerare 
				insussistenti o semplicemente insufficiente la prova delle 
				responsabilità». 
				* * * 
				Il giudice dice: i quattrini il PCI li ha presi. Non ci sono 
				dubbi. C'è certezza. Che li abbia presi Emanuele Macaluso non 
				c'è la prova certa, ci sono dubbi. Nell'incertezza si assolva. 
				Ma dato che l'on. Macaluso -come ci informa "l'Unità" (17.2.84)- 
				è stato ascoltato dal Giudice, che cosa ha detto quando il 
				magistrato lo ha chiamato a rispondere sulla destinazione al PCI 
				di quei quattrini? 
				Lui non c'entra? Benissimo, ma il PCI non può dire altrettanto. 
				Ed allora, non a noi ma ai lettori de "l'Unità", l'onorevole 
				Macaluso deve una risposta. Quei quattrini dove sono andati a 
				finire: nelle casse del partito o nelle tasche di qualche 
				militante? Una delle due, la terza, cioè stare zitti, non è 
				possibile. Si tratta, direbbe Enrico Berlinguer, della questione 
				morale. * * * 
				Il 4 febbraio 1974, nel caldo niello scandalo petrolifero, 
				"l'Unità" scriveva: «Assai grave è quanto ha pubblicato domenica 
				il quotidiano "Corriere della Sera". Questo giornale ha scritto 
				in un suo grosso titolo: tutti i partiti politici avrebbero 
				incassato tangenti. Un tale modo di informare è da falsari. II 
				PCI non solo non c'entra, ma è il partito che ha dato battaglia 
				più aspra contro le sette sorelle e i loro manutengoli». 
				* * * 
				Dieci anni fa "l'Unità" dava del falsario a chi accusava anche i 
				comunisti di avere incassato soldi dai petrolieri. Dieci anni 
				dopo, su documenti sporchi di petrolio, in mano alla 
				magistratura, sì trovano le impronte digitali del PCI, del 
				partito «diverso»; del partito del «nuovo modo di governare»; 
				del partito pulito. Che tristezza... 
				  
				
				3 aprile 1984 
				«Fummo giovani soltanto allora» 
				
				 
				Si è svolto a Firenze, nell'Auditorium del Palazzo dei 
				Congressi, il convegno su: «L'anticonformismo dei fascisti 
				critici: da Berto Ricci a Giovanni Gentile». 
				Nel corso del dibattito è venuto fuori un articolo di Indro 
				Montanelli scritto per il "Borghese" di Leo Longanesi il 4 
				febbraio 1955, trenta anni fa. 
				* * * 
				Da quell'articolo questa riflessione. È Montanelli che scrive: 
				«Quando decisi di voltar le spalle al fascismo e andai a 
				parlarne con Berto Ricci, questi mi disse: pensaci bene. Per non 
				arrossire di fronte a noi stessi e l'uno di fronte all'altro, se 
				imbocchi questa strada, devi batterla fino in fondo, sino al 
				confino o sino all'esilio. Questo solo ti chiedo: di poter 
				continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di 
				stimarti come amico. Lì per lì -scrive Montanelli- quando Berto 
				mi disse che se imboccavo una nuova strada, era mio dovere di 
				batterla fino in fondo, mi parve di essere ben deciso a farlo. 
				Ma poi mi accorsi che, per battere fino in fondo una strada, 
				bisogna sapere almeno qual'è. E io non lo sapevo. Credevo di 
				essere diventato antifascista, ma non era vero. Anticipavo solo 
				di qualche anno quella melanconica cosa che è l'Italia di oggi, 
				l'Italia smaliziata e utilitaria degli Italiani che non ci 
				credono più. È cosi che diventai scanzonato ed entrai nella 
				compagnia dei grandi scettici, cioè di coloro a cui si deve il 
				bel capolavoro di questa Italia. Mi ero illuso di aver trovato 
				una bandiera: ora so benissimo che di bandiere non posso averne 
				altre e l'unica che seguiterà a sventolare nella mia vita è 
				quella che disertai, prima che cadesse. Fummo giovani soltanto 
				allora, amici miei!». 
				* * * 
				Il 14 febbraio 1984, inviando a Indro Montanelli una vecchia, 
				commovente, spavalda lettera di Berto Ricci del 3 aprile 1938, 
				con la quale Berto informava (Romano Bilenchi, Icilio Petrone, 
				Gino Ersoch, Stelio Bassi, Carlo Cordiè, Roberto Pavese, Edgardo 
				Sulis, Alberto Luchini, Eugenio Galvano, Diano Brocchi, Adriano 
				Ghiron, Vasco Pratolini, Indro Montanelli) che avrebbe ripreso 
				la pubblicazione de "l'Universale", tracciandone le direttive, 
				chiedevo al direttore del "Giornale", se erano ancora valide le 
				motivazioni che lo spinsero a scrivere trenta anni fa, 
				ricordando Berto Ricci, in pieno antifascismo trionfante, quelle 
				considerazioni di cui sopra. 
				Indro Montanelli non ha risposto. 
				* * * 
				Torniamo, ahimè, ai giorni nostri. È sempre di scena il nostro 
				Indro. Questa una sua definizione di Giovanni Spadolini: «Un 
				geniale cretino che riesce a spiegare agli altri le cose che non 
				capisce». 
				* * * 
				Negli scritti postumi di Giovanni Papini (Arnoldo Mondadori, 
				1966), c'è una annotazione del 5 novembre 1949 che riguarda 
				Giovanni Spadolini. Dice: «Spadolini, tornato da Roma, mi 
				racconta di aver conosciuto alcuni uomini politici... Guglielmo 
				Giannini, l'inventore del qualunquismo, è tutto ritinto, pare 
				uscito da un caffè chantant napoletano. Ha consigliato a 
				Spadolini di darsi al giornalismo e di prendersi un'amante 
				focosa». 
				* * * 
				Giovanni Spadolini ha finora seguito quel consiglio a metà: si è 
				dato al giornalismo (e alla politica) e -dobbiamo riconoscerlo- 
				con successo. Poco manca che comparisca anche nei caroselli 
				pubblicitari della televisione, poi la sua faccia invade, ogni 
				giorno, le case degli Italiani. Non si limita a questo. Sui muri 
				della periferia d'Italia il PRI (di proprietà esclusiva di 
				Spadolini) ha fatto affiggere il seguente manifesto: 
				«A casa / C'è una lettera / di Spadolini / Riservata / Personale 
				/ Rispondigli». 
				* * * 
				È davvero instancabile. Manca, fino ad oggi, nella completa 
				realizzazione del consiglio datogli da Giannini 35 anni fa, 
				quello relativo all'amante focosa. Per carità, Giovanni 
				Spadolini, se un approccio avrà con l'altro sesso, lo rivestirà 
				di tutto il perbenismo possibile. Prenderà moglie. Questo è il 
				termine esatto. 
				Infatti le cronache così dicono. Sarà una nobildonna fiorentina 
				la consorte del «professore-ministro»: editrice, donna dì 
				cultura, piena di fascino e di vitalità. Ce lo auguriamo. Anche 
				perché il professore, ne siamo sicuri, ci guadagnerebbe in 
				scioltezza. 
				* * * 
				Nella relazione di minoranza redatta dal sottoscritto in seno 
				alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della 
				mafia in Sicilia (4.2.76), è scritto (pag. 1115): 
				«Si è perfino scritto, e a chiare note, che all'interno della 
				stessa Commissione antimafia operava la mafia; e si è voluto dar 
				corpo a questa accusa, non solo quando all'interno della 
				Commissione sono esplosi contrasti polemici per la presenza di 
				qualche commissario che nelle "carte" dell'antimafia era 
				abbondantemente citato e registrato, ma anche quando, con 
				sapienti e teleguidati dosaggi, sui quali i partiti si 
				guardavano bene dal dare gli opportuni e doverosi chiarimenti, 
				venivano sostituiti nella Commissione senatori e deputati. A 
				tale proposito sarebbe interessante sapere i veri motivi per i 
				quali l'on. Scalfaro lasciò la commissione il 17 aprile 1964, 
				altrettanto interessante sarebbe conoscere il perché il PCI ha 
				voluto (si faccia caso, nel clima del compromesso storico) che 
				la Commissione chiudesse i suoi lavori senza la presenza di un 
				uomo che, nella lotta alla mafia tradizionale, ha avuto un ruolo 
				non secondario: il senatore Li Causi Girolamo». 
				* * * 
				Ora la verità sulle dimissioni di Scalfaro (ministro 
				dell'interno) è venuta fuori. Ci sono voluti venti anni esatti. 
				Francesco Damato (è Giorgio Galli che riporta l'episodio, 
				"Panorama", 12.3.84, pagina 49) nel libro "L'ombra del generale: 
				diario di un servizio televisivo sulla mafia dopo Dalla Chiesa", 
				scrive di una confidenza di Scalfaro, che nel 1983 ricordava: 
				«Non ebbero fortuna le mie proposte in veste di Vice Presidente 
				della Commissione Antimafia: indagini sulle banche e sulle 
				troppe misteriose assoluzioni e, avvertiti i massimi 
				responsabili del mio partito, ritenni più coerente ritirarmi 
				dalla Commissione». 
				Commenta Damato: «Non è il racconto schietto che mi fece quella 
				notte (del 1976) al Congresso DC che stava per eleggere 
				Zaccagnini: Scalfaro andò subito da Zaccagnini, allora 
				Presidente del gruppo dei deputati democristiani, perché in ogni 
				riunione dell'antimafia venivano fuori accuse e fatti contro 
				esponenti DC in Sicilia: Lima, Ciancimino e altri. Voleva sapere 
				se il partito chiedeva la difesa di quegli uomini. Zaccagnini 
				non se la senti di dargli una risposta. Gli disse che avrebbe 
				dovuto sentire Rumor, allora segretario del partito. Ebbe una 
				risposta tanto poco convincente che chiese di essere sostituito. 
				Scalfaro -è sempre Damato che scrive- me la raccontò per 
				confutare l'immagine che le sinistre avevano dato in quel 
				momento di Zaccagnini come campione di rinnovamento e di 
				pulizia. 
				* * * 
				Dell'altro mistero, e cioè del perché il PCI volle fuori dalla 
				Commissione Antimafia, quando questa stava per concludere i suoi 
				lavori, Li Causi, l'eroe antimafioso, nulla si sa ancora 
				ufficialmente, anche se è facile intuire che, dato che in quel 
				momento DC e PCI filavano il perfetto amore, Lì Causi era 
				scomodo; non avrebbe mai messo la firma sulla relazione finale 
				del PCI, una relazione incolore, neutra, scialba, reticente, in 
				breve mafio-democristiana. Era quello il prezzo che il PCI 
				pagava per l'accordo con la DC. E lo pagava in moneta mafiosa. 
				* * * 
				Si è fatto un gran rumore (nuovamente!) sulle Esattorie private, 
				in Sicilia. I giornali, a titoli di scatola, mettono ancora 
				sotto accusa la famiglia Salvo e la incolpano delle connivenze 
				le più inquietanti. Mafia, politica, Salvo. 
				«Gli esattori Salvo sì avvicinarono al clan Greco», titola "la 
				Repubblica" (21.3.84). 
				A mio modesto parere la vicenda ha dell'incredibile, e non tanto 
				per le notizie in sé, quanto per il ripetersi di vicende sulle 
				quali polizia, carabinieri, magistratura, politici, partiti, 
				ministri, sanno tutto. Da anni. E da anni sì ripete il solito 
				clichè della notizia sensazionale come si fosse scoperto chissà 
				che cosa. 
				È mai possibile, per esempio, che nel 1984 si ignori che, fin 
				dal 1964, cioè da venti anni, è sotto l'occhio di tutti il 
				verbale (depositato regolarmente in Tribunale!) di una seduta 
				del Consiglio di amministrazione della Sigert (vice presidente 
				Cambria Francesco, azionisti i Salvo) in cui si decide di 
				mettere le riserve di bilancio ed il fondo di rappresentanza a 
				disposizione di un Comitato esecutivo speciale, perché li usi, 
				senza obbligo di rendiconto, per contrastare l'iniziativa 
				legislativa (1964!) all'Assemblea regionale, per la creazione di 
				un Ente pubblico di riscossione delle imposte? 
				* * * 
				Cosa significava quella decisione? Semplice: ci vogliono 
				espropriare, dicono gli esattori privati. Ebbene: ecco i 
				quattrini, andate dai politici; dai partiti, dai ministri, 
				riempiteli di denaro, comprateli, in modo che l'Ente pubblico 
				non si faccia! È stato messo per iscritto, con tanto di timbro 
				del Tribunale di Palermo. E questo nel 1964. E dato che dal 1964 
				ad oggi quell'Ente pubblico non è nato, è evidente che quei 
				quattrini i signori della politica se li sono presi. Eccome se 
				li hanno presi! Tutti quanti. 
				* * * 
				I Giornali, con grandi titoli, scrivono che Pertini ha rimosso 
				dall'incarico il Presidente dell'USL di Alcamo, democristiano. 
				Motivo: per via dei suoi legami con i mafiosi Rimi, 
				rappresentava un grave pericolo per l'ordine pubblico. 
				Siamo al solito copione. Pertini colpisce in basso, mai in alto, 
				se non a parole. Infatti se il Presidente della Repubblica, per 
				il bisogno di moralizzazione che lo pervade, non guardasse in 
				faccia a nessuno avrebbe, e da tempo, fatto dimettere dal 
				proprio incarico, per i loro pubblici contatti con i mafiosi 
				Rimi, un membro della Corte costituzionale e diversi 
				parlamentari, già ministri della Repubblica. 
				Per essere più chiari ci permettiamo invitare il Presidente 
				della Repubblica ad un'attenta lettura del Documento XXIII n° I, 
				fresco di stampa, della Documentazione allegata alle relazioni 
				finali della Commissione Antimafia, in particolare del Doc. 732, 
				volume IV, tomo 23, pagine 89-404. 
				Il tutto, come attesta il citato fascicolo numero 732, saltò 
				fuori nella seduta della Camera dei Deputati del 22.7.71 quando 
				il sottoscritto, deputato, denunciò l'incredibile episodio dei 
				ministri della Repubblica italiana in collusione con gli 
				ergastolani fratelli Rimi. Quella seduta era presieduta da 
				Sandro Pertini. 
				  
				
				27 aprile 1984 
				Ricordo di Alberto Giannini 
				
				 
				Trentadue anni fa, esattamente in questi giorni di aprile, 
				moriva Alberto Giannini. Sotto il titolo «Quel merlo che sfidò 
				Mussolini», "il Giornale", prendendo spunto dal premio di satira 
				politica presso la Galleria d'arte moderna di Forte dei Marmi, 
				ci ricorda appunto Alberto Giannini, il giornalista strafottente 
				e spavaldo che, 60 anni fa, fondando il "Becco giallo", 
				collezionò tredici duelli, minacce, pressioni e bastonature da 
				parte dei fascisti. Celebre la frase di Mussolini: «O noi 
				sopprimiamo il "Becco giallo", o il "Becco giallo" sopprime 
				noi». 
				* * * 
				Quanto «il Giornale», per la penna di Diego Gabutti, ci racconta 
				sul conto di Alberto Giannini, non ci piace. Affatto. Specie là 
				dove si racconta del passaggio di Alberto Giannini 
				dall'antifascismo più intransigente e dall'esilio, al fascismo. 
				Quattrini e fame, scrive Gabutti, determinarono «il vergognoso 
				voltafaccia». 
				Troppo sbrigativo. Alberto Giannini, napoletano, per metà 
				inglese, socialista, è figura di altri tempi e di ben altri (e 
				alti) temperamenti perché i Gabutti odierni, in questo 
				giornalismo di merda possano, non dico rispettarlo, ma 
				comprenderlo. 
				* * * 
				Di lui vivo, nel dicembre 1950 ("La Patria degli Italiani" 9. 
				XII. 1950 nella rubrica "Galleria nazionale"), Alberto 
				Giovannini, tracciava questo stupendo ritratto: 
				«Alberto Giannini, Gennarino il fesso», da 40 anni si batte 
				contro l'ingiustizia e contro il sopruso con la fredda costante, 
				e talvolta feroce, determinazione, che gli viene da antenati i 
				quali, molto probabilmente, erano "teste rapate" di Cromwell. 
				Il suo tempo, la sua scuola, le sue origini, spiegano più di 
				ogni altra ricerca Alberto Giannini, la sua vita, le sue 
				molteplici apparentemente inconciliabili posizioni politiche, le 
				sue innumerevoli e continue battaglie. Un giorno del 1925 
				Mussolini disse: «O sopprimiamo il "Becco giallo" o il "Becco 
				giallo" sopprime noi». E il "Becco giallo" fu soppresso e 
				Giannini scappò in esilio. Ma quando in esilio si accorse che il 
				fuoruscitismo, per tornare da trionfatore in Italia, puntava 
				sulla guerra e sulla sconfitta della Patria, abbandonò il 
				fuoruscitismo e si schierò a fianco del suo Paese. L'anima 
				libertaria di Napoli l'aveva portato a Parigi, il sangue delle 
				"teste rapate" («torto o ragione, è il mio Paese») lo riportò a 
				Roma odiato dagli antifascisti, sospettato dai fascisti, 
				discusso da tutti. È nel suo destino e, quindi, nella sua 
				natura. Perciò quando Matteotti fu assassinato fu accanto a 
				Matteotti; quando Mussolini fu trucidato fu accanto a Mussolini; 
				perciò quando i suoi compagni di esilio furono contro la Patria, 
				egli fu contro di loro; e quando i suoi nemici furono 
				perseguitati, soprattutto per aver servito la Patria, fu accanto 
				a loro. 
				Dicono di lui i fuorusciti: è un traditore. 
				Dicono i borghesi: è un pazzo. Dicono, infine, i furbi: è uno 
				che piscia controvento. Per noi, invece, la tragedia di questo 
				grande giornalista senza fortuna, altro non è che la tragedia 
				stessa d'Italia degli ultimi quaranta anni. È la tragedia del 
				nostro tempo interpretata, vissuta e scritta da un italiano, da 
				un socialista e da uno spirito libero. È il dramma di un uomo 
				disperatamente portato alla ricerca di una sintesi fra i tre 
				termini supremi della nostra civiltà: libertà, socialismo e 
				nazionalismo. 
				In fondo, prima ancora di tanti altri, Alberto Giannini merita 
				un posto nella Galleria Nazionale, perché in lui, più che in 
				ogni altro è evidente, la tragedia del nostro Paese che è allo 
				stesso tempo fascista e antifascista. E forse Giannini è l'unico 
				che riesca umanamente a dimostrarci come avrebbe potuto essere 
				il fascismo e come avrebbe potuto essere l'antifascismo». 
				* * * 
				Così Alberto Giovannini di Alberto Giannini, il fondatore del 
				"Becco giallo" e del "Merlo giallo". Un personaggio stupendo, 
				irripetibile, indimenticabile. Le «memorie di un fesso, parla 
				Gennarino "fuoruscito" con l'amaro in bocca», si aprono con una 
				frase di Jean Jaurès. Eccola: 
				«È coraggio cercare la verità e dirla; non subire mai la legge 
				della menzogna trionfante che passa; non fare mai eco, con la 
				nostra anima, con la nostra bocca e con le nostre mani agli 
				applausi imbecilli e ai fischi fanatici». 
				"Rosso e Nero" ricorda Alberto Giannini. Con commozione. 
				  
				
					
						
							| 
							 L'amico Beppe 
							Niccolai è -posso dire- la mia «emeroteca vivente», 
							lo non conservo una riga di quanto ho scritto in 
							oltre mezzo secolo di attività, Beppe invece ricorda 
							e, praticamente, conserva quasi tutto. Gli sono 
							grato; soprattutto oggi che ripropone questo 
							«ritratto» di Alberto Giannini, apparso in un 
							settimanale -diretto da Filippo Anfuso e Mirko 
							Giobbe- che ebbe vita breve ma intensa e pulita. 
							Gliene sono grato, anche perché mi consente di 
							completare il «profilo» del grande giornalista 
							scomparso. Infatti, prima di sopprimere il "Becco 
							giallo", Mussolini, attraverso intermediari, offrì 
							ad Alberto Giannini di cedere la testata per un 
							milione di lire: due miliardi e mezzo di oggi. Ma 
							Giannini rifiutò l'offerta, si fece sopprimere il 
							settimanale e prese la via dell'esilio. Uomini di 
							questa tempra non si «comperano» neppure per fame. 
							Ma per la generazione dei Gabutti l'esistenza di 
							«fusti» del genere è inconcepibile. Fortunati noi, 
							quindi, che li abbiamo conosciuti; e qualche cosa, 
							anche da loro, abbiamo imparato! 
							a. g.  | 
						 
					 
				 
				
				 
				1 maggio 1984 
				Libri, ministri e contrabbandieri 
				
				 
				Indignazione per quattro libri sulla P2 tolti cautelativamente 
				dal commercio. Piero Dini, magistrato a Varese, su richiesta di 
				Umberto Ortolani sequestra: "Un certo De Benedetti", di Alberto 
				Statera; "Corrotti e corruttori", di Sergio Turone; "Il 
				banchiere di Dio", di Rupert Cornwell; "La resistibile ascesa 
				della P2", di Giuseppe D'Alema. 
				Protesta il PCI. Pecchioli tira dentro anche Craxi. «L'ondata di 
				provvedimenti», dichiara il senatore comunista (che si 
				incontrava, fra il 1975 e il 1979, con i vertici dei «servizi» 
				iscritti alla P2), «contro gli organi di informazione coincide 
				con gli appelli al decisionismo di stampo autoritario». 
				"la Repubblica" (22.4.84) titola: «La P2 è ancora viva?». 
				* * * 
				Ma che sta scritto in questi libri? Sergio Turone, l'autore di 
				"Corrotti e corruttori", libro dal quale Enzo Biagi ha preso 
				spunto per la trasmissione televisiva sulla corruzione (giovedì 
				19.4, Rete 1, 22.05, Dossier sul film "La caccia"), replica a 
				Giulio Andreotti ("la Repubblica", 22.4). 
				Infatti, secondo Turone, Giulio Andreotti, intervistato da Biagi 
				sul fatto di avere lui nominato a Comandante della Guardia di 
				Finanza Raffaele Giudice, lo ha «trasparentemente» definito una 
				«carogna». E l'ingiuria, afferma Turone, non me la merito perché 
				Andreotti, con l'aria di smantellare le accuse, le ha 
				confermate. «Che un cardinale gli avesse raccomandato il 
				generale Raffaele Giudice due anni prima dell'avvenuta nomina è 
				irrilevante: è rilevante invece che Giudice sia stato nominato 
				al vertice della Guardia di Finanza proprio da Andreotti e che 
				di quella carica abbia approfittato per rubare miliardi». Cosi 
				Turone. 
				* * * 
				Se si trattasse solo di questo, sarebbe senz'altro grave, ma, 
				ahimè, c'è di peggio. È che la nomina del generale Raffaele 
				Giudice, a capo della Guardia di Finanza, viene programmata fin 
				dall'ottobre 1973, attraverso un piano ben preciso, per cui i 
				petrolieri si tassano fra di loro, raccolgono una somma ingente 
				e la distribuiscono, come è detto nella sentenza del Tribunale 
				di Torino (23.XII.82), ai partiti di governo, arbitri della 
				nomina di Raffaele Giudice: DC, PSDI, PSI. 
				* * * 
				In breve i contrabbandieri, per avere le spalle coperte per i 
				loro traffici illeciti, pur avendo già «comprato» parte del 
				Comando generale della Finanza (l'Ufficio I, comandato dal 
				generale Lo Prete), non si fermano qui. Vogliono che il 
				comandante in capo della Guardia di Finanza diventi il capo di 
				tutti loro contrabbandieri. E, per ottenerne la nomina, si 
				rivolgono ai partiti di governo. Li pagano, perchè a loro volta, 
				ordinino ai «loro» ministri di eseguire: sia dato il benestare a 
				Raffaele Giudice. 
				Così avviene. È la più gigantesca frode fiscale che la storia 
				dello Stato italiano ricordi. 
				* * * 
				Ma vi è qualche elemento ancora più grave, delle scontate pagine 
				del libro di Turone, perché sta scritto nella sentenza del 
				Tribunale di Torino (23.XII.82), per cui Giulio Andreotti, nelle 
				giustificazioni che dà del suo comportamento, è «inattendibile» 
				quando «nega i pregressi accordi con Tanassi sul nome di 
				Giudice, è inattendibile» quando «ratificando l'operato del 
				generale Viglione, allora capo di Stato Maggiore della Difesa, 
				fa sua una scelta basata su argomenti tecnico-militari che non 
				trovano conferma nella realtà». (Sentenza citata, pagina 182) Il 
				Tribunale va oltre e fra le circostanze «di elevata probabilità» 
				mette anche quella che il nome di Raffaele Giudice non facesse 
				nemmeno parte della terna proposta dai militari, ma che venisse 
				incluso, all'ultimo momento, in sede di Consiglio dei Ministri 
				in cui venne decisa la nomina. 
				* * * 
				Dunque, in una Italia dove non si riesce a «programmare» nemmeno 
				il più piccolo lavoro da quattro soldi, tutto va alla perfezione 
				(e in anticipo) quando, beneficiari contrabbandieri, partiti e 
				politici, c'è da sistemare ai vertici del Corpo addetto alla 
				lotta al contrabbando, un contrabbandiere con greca. Il quale, 
				insediatosi per volontà dei ministri della Repubblica italiana, 
				si premura subito, appena preso possesso dell'incarico (pagina 
				205, sentenza citata) di «ristrutturare» gli uffici del Comando 
				generale, in particolare la centralizzazione delle informazioni, 
				per cui, a segnalazione pervenuta, lo stesso Giudice poteva 
				gestire la cosa, rimuovendo gli ufficiali che non stavano al 
				gioco, omettendo di intervenire là dove si doveva, ponendo altri 
				sbarramenti là dove il «sodalizio» con i contrabbandieri poteva 
				essere smascherato e colpito. 
				* * * 
				Una vicenda incredibile, tutta da raccontare, appena si rifletta 
				che è da questa gigantesca truffa fiscale che pervenivano a 
				Sereno Freato, braccio destro dell'onorevole Aldo Moro, lo 
				statista principe, i contributi che consentivano a questi di 
				fare politica, di finanziare la propria corrente, di contare, di 
				essere il più bravo. 
				* * * 
				Comunque nessuna preoccupazione. Aldo Moro è morto. Per i vivi, 
				tutto procede regolarmente; la TV di Stato si premura di farci 
				sfilare davanti, a farci la morale su come si amministrano i 
				quattrini degli Italiani, ministri coinvolti in scandali 
				allucinanti, che ci esortano: Italiani, pagate le tasse! 
				* * * 
				L'altra sera, durante la trasmissione di Enzo Biagi sulla 
				corruzione, il caso ha voluto che, accanto a Giulio Andreotti, 
				vi fosse l'onorevole Alessandro Reggiani, presidente della 
				Commissione Inquirente. 
				Ebbene, l'on. Reggiani ha spinto la propria imprudenza (ce ne 
				dispiace proprio perché l'uomo non lo meriterebbe) in difesa, 
				lui presidente della Commissione che giudica i ministri della 
				Repubblica, non solo delle scandalose sentenze assolutorie di 
				cui la Commissione si è resa responsabile, ma dello stesso 
				onorevole ed ex ministro Mario Tanassi, il quale, poverino, 
				secondo Reggiani, non godrebbe, per un difetto di normativa 
				riguardante l'Inquirente, ora che la Corte dei Conti lo manda 
				assolto dal pagare i danni morali arrecati allo Stato per la 
				vicenda Lockheed, di una giurisdizione superiore di appello. 
				Perchè, se così fosse, ha detto Reggiani, Tanassi, potrebbe 
				essere assolto (e portato in trionfo!). Quindi, non bisogna 
				abolire l'Inquirente, ma riformarla, dando ai ministri sotto 
				accusa, qualche garanzia in più per la loro impunità. 
				Ciò sotto gli occhi di milioni di italiani. 
				* * * 
				È incredibile. Nessuno ha fiatato. Nemmeno Biagi. Eppure quando 
				la trasmissione avveniva (19.4) era già da giorni (13.4) di 
				dominio pubblico la lettera del consigliere della Corte dei 
				Conti Bruno Moretti, con la quale il magistrato denunciava le 
				ignobili manovre che si sarebbero verificate, all'interno della 
				stessa Corte dei Conti (massimo organo di controllo finanziario 
				e contabile della pubblica amministrazione) per dare a Mario 
				Tanassi, condannato a suo tempo alla galera, un collegio 
				giudicante a lui favorevole, al punto da farlo presiedere da un 
				consigliere della Corte nominato per meriti politici acquisiti 
				presso il PSDI, essendo stato capo di gabinetto dei ministri 
				socialdemocratici Preti e Schietroma. 
				Tutti zitti ad ascoltare la concione dell'on. Alessandro 
				Reggiani che, non contento di presiedere una Commissione nel cui 
				seno le assoluzioni scandalose (e bilanciate) non si contano, 
				veniva a dirci, in sostanza, che anche l'unico caso in cui un 
				ministro aveva pagato, era da rivedere. 
				* * * 
				Non solo, ma l'on. Reggiani non ha mosso ciglio quando, a due 
				passi da lui, Andreotti dava la sua versione di comodo sulla 
				nomina di Raffaele Giudice a capo della Guardia di Finanza. Non 
				basta, ma si è messo a difendere, nell'occasione, il PSDI 
				dall'accusa di aver preso soldi dai petrolieri. 
				Ora delle due l'una. Dato che all'esame dell'Inquirente, di cui 
				Reggiani è presidente, c'è il procedimento contro Andreotti per 
				la nomina di Giudice, Reggiani deve dirci se ha letto i 
				documenti del procedimento in corso, oppure no. 
				Se non li ha letti, significa che abbiamo un presidente di una 
				delle Commissioni parlamentari più delicate, quanto meno 
				disinformato. Giudica, forse, ad orecchio? Se li ha letti, è 
				ancora peggio. Gli ricordiamo solo un particolare: la colletta 
				di denaro con la quale furono corrotte le segreterie 
				amministrative dei partiti di governo (DC, PSDI, PSI), perché 
				nominassero Giudice, è opera del petroliere Bruno Musselli. I 
				quattrini, per quanto riguarda il PSDI, li ha ricevuti l'on. 
				Giuseppe Amadei, più volte sottosegretario alle Finanze. 
				* * * 
				Comunque l'on. Reggiani è pregato dì leggere a pagina 189 della 
				sentenza del Tribunale di Torino, più volte citata, quanto 
				segue: «Nell'autunno del 1973 numerosi assegni circolari sono 
				incassati dagli uffici amministrativi di alcuni partiti politici 
				e da personale delle loro segreterie. Lo riconoscono, ora in 
				base all'inoppugnabile presenza di timbri sul retro, ora in 
				forza dell'altrettanto palese presenza di firme di girata per 
				l'incasso, l'on. Tanassi per il PSDI (pagina 747), il capo dei 
				servizi amministrativi del PSI Annibale Paganelli (pagina 748), 
				il segretario amministrativo della DC Filippo Micheli (pagina 
				749), nonché il cassiere della segreteria stessa Antonio 
				Morelli» (pagina 750). 
				* * * 
				Il tutto, onorevole Reggiani, per far si che i ministri 
				dell'epoca, Mario Tanassi e Giulio Andreotti, inducessero il 
				Governo a nominare un contrabbandiere a capo della Guardia di 
				Finanza. 
				Può un sistema politico scendere più in basso di cosi? 
  
				
				8 maggio 1984 
				Il cavallo di Spadolini 
				
				 
				A leggere i commenti della stampa sui lavori del 35° Congresso 
				del PRI, a cominciare da "il Giornale" di Indro Montanelli per 
				finire a "la Repubblica" di Eugenio Scalfari, c'è da rimanere 
				interdetti. "La Voce Repubblicana", organo ufficiale del PRI, 
				non arriva ai toni apologetici di cui si gonfiano i fogli della 
				grassa borghesia italiana: hanno trovato l'uomo (Spadolini); il 
				partito (PRI); la bandiera (l'edera); il rigore, la 
				moralizzazione, la pulizia. È spuntato anche il decalogo della 
				moralizzazione. Dieci punti. Troppi. Ne bastava uno: non rubare. 
				* * * 
				Il partito, dunque, diverso; il partito della questione morale; 
				il partito della cultura figlio della cultura; impegnato nel 
				governo, ma non governativo; partito movimento. Il suo posto: 
				centro del centro, in una sorta di visione tolemaica della 
				politica italiana. Al centro di DC e PSI. E anche, in quanto 
				partito della sinistra rispettoso della cultura industriale tra 
				PSI e PCI. 
				* * * 
				Il «Partito Tutto». È cosi? Sarà utile riordinare un po' le 
				idee. L'ubriacatura (a quante siamo?) di Montanelli per 
				Spadolini. L'uomo non è nuovo a simili sbandate. Il fondo: 
				«Spunta il sole, canta il gallo, Spadolini monta a cavallo» ("il 
				Giornale", 1 maggio). Un pezzo di bravura, come sempre 
				stilistica. Non si va oltre. Scrisse di lui Fortebraccio: «E di 
				una fragilità psichica morbosa, se fosse un umore ne sarebbe 
				sempre sudaticcio. Ed è da questa fragilità che gli viene una 
				attitudine non rara in certi cinici sfiniti: quella di subire le 
				influenze più degradanti e di restare loro fedeli con ostinato 
				accanimento, reso sempre più rabbioso, quanto più gli appare 
				evidente che sono abiette». 
				Montanelli non crede in Spadolini, ne subisce l'influenza 
				degradante, e quanto più ne soffre, tanto più l'esalta. Un 
				castello incantato di parole. Ne nasce il partito della 
				moralizzazione. Una bubbola così non si era mai vista. Se c'è un 
				partito corrotto (108 mila iscritti), clientelare, in tante zone 
				mafioso, questo è il PRI. Montanelli ce ne fa l'apologia del 
				partito pulito, rigoroso, carico di pensiero! Dovevamo vedere 
				anche questa! 
				* * * 
				Cominciamo con ordine. E con il mettere un punto fermo. Giovanni 
				Spadolini, nel luglio 1981, diventa, per la prima volta e per 
				volontà di Sandro Pertini, Presidente del Consiglio dei 
				Ministri. In contrapposizione a che cosa? Ad Arnaldo Forlani, 
				che è costretto a dimettersi perché, fra l'altro, il suo Capo di 
				Gabinetto compare nelle liste del Venerabile Licio Gelli. 
				Dunque, le fortune ministeriali di Spadolini hanno un nome: 
				l'emergenza morale scaturita dalla vicenda della P2. 
				Ma -ed ecco il punto- il nostro «Giovannone» riesce a tenere il 
				vento di questa emergenza, o ne è anche lui travolto? 
				* * * 
				Giovanni Spadolini crede di essere montato a cavallo. Ed 
				infatti, lasciata a terra la massoneria perdente, monta sul 
				cavallo che ritiene vincente. E, insieme a Giorgio La Malfa, 
				vola, nel dicembre 1981, a Cagliari. L'aereo dello Stato 
				Maggiore della Difesa lo porta ad abbracciare l'amico del cuore 
				Armando Corona, il cui figlio va a nozze. È un abbraccio 
				intenso, lungo, commosso, di quelli che si danno i sovietici con 
				il bacio bocca a bocca. Spadolini, per Corona, ha avuto delle 
				tenerezze tutte particolari. Per lui, e per lui solo, ha creato, 
				ai vertici della segreteria repubblicana, un posto particolare. 
				Ora è lì, a Cagliari, per le nozze del figlio, ma non solo per 
				queste. Infatti Corona è in corsa nelle elezioni a Gran Maestro 
				della Massoneria. Spadolini è li ad assicurarlo che, anche in 
				quanto Presidente del Consiglio dei Ministri, sarà al suo 
				fianco. Avrà tutto l'appoggio possibile. E così accade. 
				* * * 
				Ahimè, il gruppo vincente della nuova massoneria, con il tandem 
				Corona-Flavio Carboni, sarà un disastro, soprattutto morale. Un 
				vero e proprio crollo. Di immagine. Pertini fa finta di nulla. 
				Non è severo come lo fu con Forlani. II governo Spadolini può 
				continuare a governare. Ed è un calvario, anche se stampa, 
				radio, televisione vengano incantati da quel domatore di 
				serpenti che è il nostro Giovannone. 
				Però non creda Giovanni Spadolini, né il PRI, di averla fatta 
				franca. Flavio Carboni e il suo amico Armando Corona -che sanno 
				tutto sulla morte del banchiere Roberto Calvi- sono destinati a 
				giocare un ruolo molto importante, soprattutto sulla vita (non 
				certo pulita) del PRI. C'è tutta una storia da scrivere, e stia 
				certo Spadolini, la scriveremo. 
				* * * 
				Intanto uno spaccato, di cui le cronache non parlano più. È un 
				vero peccato! Aprile-maggio 1981. A Castiglion Fibocchi, nella 
				villa di Gelli, vengano fuori le carte riguardanti la vicenda 
				della restituzione del passaporto a Calvi, restituzione avvenuta 
				il 27.9.80. Sono carte esplosive: dentro, fino al collo, Ugo 
				Zilletti, vice presidente del Consiglio Superiore della 
				Magistratura, Mauro Gresti, procuratore Capo del Tribunale di 
				Milano, il Quirinale, il Governatore della Banca d'Italia. È uno 
				scandalo incredibile. Vacillano i vertici istituzionali. Ebbene, 
				è in quei giorni (24.4.81) che il Direttore Generale della 
				Rizzoli, il piduista Bruno Tassan Din (amico del PCI), annuncia 
				che il banchiere Roberto Calvi, con la Centrale, acquista il 40% 
				delle azioni della Rizzoli-Corriere della Sera. Garante 
				dell'operazione, udite, udite, il Presidente del PRI, il partito 
				della moralizzazione: il senatore Bruno Visentini. 
				* * * 
				Scrive l'Espresso (3.5.81): «Tassan Din fa sapere che da quando 
				ha dato notizia dell'operazione, non fa che ricevere applausi. I 
				primi elogi sono arrivati dai tre ministri finanziari: 
				Andreatta, Reviglio e La Malfa, i quali erano stati informati 
				tempestivamente da Angelo Rizzoli (piduista, iscritto al PRI - 
				N.d.R.); poi ha telefonato Adalberto Minucci della Direzione del 
				PCI, e anche egli per complimentarsi e giovedì, infine, il 
				Presidente della Repubblica ha confidato al Vice Direttore del 
				"Corriere" Gaspare Barbiellini Amidei, invitato a colazione al 
				Quirinale, che quella era la miglior notizia della giornata». 
				* * * 
				Fateci caso: passeranno dieci giorni e ai polsi di Roberto Calvi 
				scatteranno le manette! Eppure tutti esultano perchè il 
				banchiere ha comprato il "Corriere della Sera"! Da Sandro 
				Pertini al Presidente del PRI, che si fa garante 
				dell'operazione, portata avanti dai piduisti! Intanto dietro le 
				quinte l'accoppiata Corona-Carboni ne fa di tutti i colori. La 
				tortuosità dei rapporti fra politica e criminalità organizzata è 
				tale che perfino la Presidente della Commissione P2, Tina 
				Anselmi, ha un infortunio pesantissimo e dalle conseguenze 
				imprevedibili, anche se il «fronte del porto» politico tenta, 
				sull'accaduto, di fare silenzio. E Visentini? Non gli è mai 
				stato chiesto: ma perchè in quell'aprile del 1981, mentre 
				scriveva articoli di fuoco, con il plauso del PCI, contro i 
				partiti a favore di un governo dei tecnici e degli onesti, 
				metteva la sua prestigiosa figura a garante del patto "Calvi - 
				Rizzoli - Corriere della Sera"? 
				È rimasto un mistero. Riuscirà la Commissione P2 a scioglierlo? 
				Vorrà Giovanni Spadolini, il moralizzatore, collaborare a 
				cercare la verità? Staremo a vedere. 
				* * * 
				Dimenticavamo. Nel dicembre 1970 venne eletto a Palermo, Sindaco 
				di quella Città, Vito Ciancimino. Proteste violentissime. In 
				Parlamento venne chiesto che il «dossier sulla Città di 
				Palermo», preparato dall'allora colonnello Carlo Alberto Dalla 
				Chiesa, venisse discusso in aula. Nel contempo, all'Assemblea 
				Regionale siciliana venne presentata una mozione per le 
				dimissioni immediate del «mafioso» Vito Ciancimino. 
				Cosa avvenne? Da Roma la minaccia: se fate cadere la Giunta di 
				Vito Ciancimino, io faccio la crisi. Firmato: Ugo La Malfa. 
				* * * 
				Già Ugo La Malfa. Ventidue anni fa ("la Voce Repubblicana" 
				5.12.62 e 12.12.62) Ugo La Malfa, in polemica con il Direttore 
				de "il Resto del Carlino", allora Giovanni Spadolini, dette, 
				della prosa dello storico fiorentino, questi giudizi: «Un 
				pasticciato di banalità e di incompetenza»; «una fumettistica 
				descrizione dell'attuale situazione politica»; «l'ignoranza di 
				Spadolini è tale per cui tutto fa brodo»; «evidentemente 
				Giovanni Spadolini ha da tempo rinunciato al benché minimo 
				sforzo di pensiero e si limita a trascrivere, nei commenti 
				politici, le opinioni che la sua fantesca ricava nei colloqui di 
				mercato. Ma in fin dei conti è un segno della provvidenza della 
				storia che all'opposizione del centro-sinistra presieda una così 
				abissale stupidità». Ripetiamo la firma: Ugo La Malfa. 
				* * * 
				Cari amici di partito: di queste povere note che scrivo, fatene 
				veicolo di propaganda, di polemica, di confronto. Devono andare 
				in piazza. Altrimenti avrà la meglio Spadolini, con tutti i suoi 
				megafoni. Coraggio, dunque! 
				
				 
				15 maggio 1984 
				Moralizzatori 
  
				
				Era sparito di circolazione. Era da tempo che 
				il focoso ex-deputato del PCI, Giuseppe D'Alema, non compariva 
				più a fare notizia, come il moralizzatore tutto di un pezzo, 
				l'implacabile denunciatore dei corrotti. Non passava giorno 
				senza che una nota di Giuseppe D'Alema comparisse sulla stampa a 
				fustigare gli imbroglioni. Il suo giornale preferito: "la 
				Repubblica". Da ciò sempre sugli scudi del PCI: membro del 
				direttivo parlamentare, presidente della Commissione Finanze e 
				Tesoro della Camera, membro della Commissione di inchiesta sul 
				caso Sindona, parlamentare dal 1963. 
				* * * 
				Poi l'incidente: un incidente grave, di percorso. Raccontiamolo 
				fin dall'inizio. È l'ottobre 1982, precisamente il giorno 14. 
				Alla Commissione Sindona, nel Palazzo di San Macuto dove ha la 
				sua sede, spariscono i verbali degli interrogatori che l'avv. 
				Rodolfo Guzzi, ex legale del bancarottiere Sindona, aveva reso 
				davanti ai magistrati milanesi. Guzzi, in quelle dichiarazioni, 
				rivolgeva pesantissime insinuazioni nei riguardi di Giulio 
				Andreotti, all'epoca Presidente del Consiglio, per suoi asseriti 
				tentativi di salvataggio delle Banche di Michele Sindona. 
				* * * 
				La notizia della sparizione fa clamore. Le prime pagine dei 
				giornali la ospitano a caratteri di scatola. Ma ecco un «di 
				più». Nei giorni successivi giungono, in busta chiusa, alle 
				redazioni di alcuni giornali, le fotocopie di tre cartelle del 
				fascicolo trafugato. Il presidente della Commissione, 
				l'onorevole Francesco De Martino, subito dopo il furto, 
				dichiara: 
				«Si possono fare tre ipotesi, la prima è che qualcuno si 
				proponga di distribuire a mano il documento per scopi 
				scandalistici. E allora si potrebbe inquadrare in una guerra fra 
				bande. La seconda congettura è quella di far sapere di essere in 
				possesso del testo per poi venderlo. Ma non ci credo. La terza 
				congettura, personale, è che si voglia esercitare una 
				intimidazione personale nei confronti dell'avv. Rodolfo Guzzi». 
				* * * 
				Sul furto, comunque, apre (ottobre 1982) un'inchiesta la Procura 
				di Roma e, dopo sei mesi (aprile 1983), la talpa di San Macuto è 
				individuata. La talpa, per la guerra fra bande ipotizzata 
				dall'onorevole Francesco De Martino, viene appunto indicata 
				nell'onorevole (perché deputato) Giuseppe D'Alema, comunista, di 
				professione moralizzatore. L'imputazione: furto e rivelazione di 
				segreti di ufficio. Reati che prevedono la galera. 
				* * * 
				L'onorevole (perché deputato) Giuseppe D'Alema, al ricevimento 
				della comunicazione giudiziaria (aprile 1983), si incazza 
				tremendamente. È una vendetta -grida- è un attacco piduista e 
				mafioso contro il firmatario della relazione di minoranza sul 
				caso Sindona... Protesto in nome della mia cristallina onestà... 
				* * * 
				Pare sincero, ma un fatto è certo, ed è che da quel giorno il 
				nome di Giuseppe D'Alema sparisce dai ranghi dei moralizzatori. 
				E anche da quelli politici. Infatti, lo stesso PCI, nelle 
				elezioni ultime del 26.6.83, non lo presenta più. Lo lascia a 
				terra. Depennato. Cosi, bruscamente. 
				* * * 
				Perchè abbiamo raccontato questa storia di «furti» nelle severe 
				aule parlamentari «per la guerra fra bande»? 
				Perché D'Alema è ricomparso, in questi giorni, sulla stampa e, 
				come al solito, strilla, in nome (poteva mancare?) della 
				moralità e della pulizia pubblica. Il pretesto è il 
				provvedimento del giudice di Varese che sequestra quattro libri 
				che parlano male del «partigiano» Umberto Ortolani. Uno di 
				questi libri ("La resistibile ascesa della P2») porta la firma 
				anche di D'Alema. 
				* * * 
				E D'Alema invoca giustizia. Afferma, tramite il suo avvocato, 
				che il Presidente del Tribunale di Varese, autore del 
				provvedimento, in quanto ha sottratto (sic! In fatto di 
				sottrazioni D'Alema si che se ne intende) ad altri giudici la 
				loro competenza, deve essere messo sotto inchiesta da parte del 
				CSM ed esemplarmente punito. 
				Lo afferma D'Alema. E la stampa, come se nulla fosse, ne 
				accoglie le lamentele. Che vergogna. 
				* * * 
				Polemiche feroci sulla Commissione per i procedimenti di accusa 
				contro i ministri. 
				Stefano Rodotà, su "la Repubblica" (5.5.84), la chiama «la 
				vecchia malfamata Commissione Inquirente»; «una Commissione 
				impresentabile in società, ma indispensabile per i bassi servizi 
				che rende»; «Commissione intollerabile, indegna di un Paese 
				civile». 
				«È vituperata da tutti» -scrive Rodotà- «ma diventa utilissima 
				quando rimane il docile strumento, grazie al quale, i ministri 
				riescono a sfuggire al processo penale». 
				Ebbene che si fa? Nulla. Il presidente della Commissione, 
				Alessandro Reggiani, dichiara: «Troppe critiche, sono pronto ad 
				andarmene». 
				Critiche? Queste non sono critiche. Sono accuse sanguinose. 
				Onorevole Reggiani, lei non deve essere pronto ad andarsene. Lei 
				deve andarsene. Affermando quello che lei, da galantuomo sa, e 
				cioè che è uno schifo. Renda questo servizio, onorevole 
				Reggiani. Sbatta la porta e se ne vada, subito. Punti, con il 
				suo gesto, ad un'opera meritoria, che gli sarà riconosciuta da 
				tutti gli Italiani puliti: l'affossamento definitivo della 
				Commissione Inquirente, vera ed autentica fogna maleodorante; 
				indegna, è vero, di un Paese civile. 
				* * * 
				Particolare da non dimenticare. Quando nel maggio 1982 in Senato 
				venne il momento in cui si doveva passare dalle belle 
				dichiarazioni ai fatti, per cui la Commissione Inquirente doveva 
				essere interamente riformata, il PSI bloccò la riforma in aula. 
				Con l'aiuto del PRI e l'assenso DC. 
				Onorevole Spadolini, in quale parte del suo «decalogo» sulla 
				moralizzazione della vita pubblica, collochiamo questa triste 
				vicenda? 
				* * * 
				«Passata l'estate, in autunno, Carboni e Francesco Pazienza 
				vennero da me e mi chiesero di poter sentire il povero dottor 
				Calvi: mi dissero che lo stavano accompagnando a fare un giro 
				presso i partiti, perché il dott. Calvi riteneva che l'opinione 
				pubblica, la stampa, le stesse forze politiche lo avessero 
				giudicato assai più severamente di quanto egli non meritasse. Lo 
				ricevetti. Il dottor Calvi mi raccontò la sua odissea della 
				prigionia, il distacco dai familiari, il modo con cui era stato 
				trattato; riteneva che in fondo l'esportazione di capitali 
				all'estero fosse un rischio connesso con il tipo di professione 
				di banchiere, che fosse stato punito più severamente di quanto 
				non meritasse e che comunque, da quel momento, aveva intenzione 
				di dimostrare che non era un esportatore di valuta di 
				professione, ma che era un caso accidentale quello per cui era 
				stato condannato. E qui finì il nostro primo colloquio». 
				(Armando Corona, audizione della Commissione di inchiesta sulla 
				P2, 29 luglio 1982). 
				* * * 
				«Dopo una decina di giorni, ai primi di dicembre, chiese ancora 
				di essere ricevuto e, questa volta, mi pose il problema del 
				professor Visentini, cioè voleva sapere se il professor 
				Visentini aveva smesso definitivamente l'idea di coagulare 
				intorno a sé un gruppo di imprenditori per l'acquisto del 
				"Corriere della Sera", o se invece io pensavo che potesse 
				ripensarci e quale era esattamente la posizione del PRI, come 
				mai aveva impedito al professor Visentini di portare avanti 
				questa iniziativa che, secondo lui, era abbastanza plausibile e 
				lodevole. Spiegai quello che ho detto, che cioè il PRI si 
				dimostrò assolutamente contrario all'acquisto della testata da 
				parte di qualunque partito, a cominciare dal nostro, per cui 
				chiedemmo al professor Visentini che scegliesse: se voleva fare 
				il presidente del partito, non si doveva occupare dell'acquisto 
				del "Corriere della Sera" o, se voleva invece acquistare il 
				"Corriere della Sera" si dovesse dimettere da presidente del 
				partito. Quindi il dott. Calvi sapeva benissimo che la mia 
				posizione era contro questo acquisto da parte dei partiti. 
				Chiese anche se, in questa posizione del PRI sul richiamo 
				all'osservanza delle norme del Comitato del credito, e quindi al 
				fatto che venivano sconsigliate le banche dall'acquistare 
				testate, ci fosse una censura nei suoi riguardi. Dissi: "No, noi 
				abbiamo richiamato questo; perché le forze politiche lo devono 
				tener presente. Non c'è nessun giudizio su di lei", dopodiché 
				nei mesi di gennaio, febbraio e marzo non vidi più il dott. 
				Calvi, vidi una sola volta, a metà febbraio, il dottor Carboni. 
				A metà io venni a Roma. Fui eletto Gran Maestro il 28 di marzo». 
				(Armando Corona, audizione della Commissione di inchiesta P2, 29 
				luglio 1982). 
				* * * 
				Per oggi fermiamoci qui. Racconteremo poi gli altri incontri del 
				Gran Maestro Armando Corona con il dott. Calvi, sempre sotto 
				l'ala protettrice di quei due «gentiluomini» che rispondono ai 
				nomi di Flavio Carboni e Francesco Pazienza. 
				Per il momento ci preme sottolineare come il dott. Armando 
				Corona incontrasse il dott. Calvi nella sua qualità di 
				componente la segreteria del PRI, segreteria che -non lo si 
				dimentichi- aveva al suo vertice Giovanni Spadolini che, in 
				contemporanea, era Presidente del Consiglio. 
				* * * 
				Quindi, prima considerazione logica: Armando Corona, quale 
				membro della segreteria del PRI, su espresso incarico anche di 
				Giovanni Spadolini, segretario nazionale del PRI e Presidente 
				del Consiglio, si incontrava con Roberto Calvi. Lo riceveva, lo 
				ascoltava, si parlavano dell'... esportazione valutaria. È 
				evidente che Roberto Calvi andava da Armando Corona, non per 
				divertimento o per ricevere parole, ma per chiedere qualcosa... 
				Che cosa? Roberto Calvi non può più rispondere, ma Giovanni 
				Spadolini e Armando Corona si. 
				Forse il «decalogo» sulla moralizzazione impedisce a Giovanni 
				Spadolini di parlare? 
				Punto 5 del «decalogo»: «I repubblicani non debbono trattare 
				operazioni commerciali, né a livello di ministri né di 
				assessori». 
				  
				
				19 maggio 1984 
				La colpa è tutta di Gelli 
				
				 
				Le carte dell'Anselmi. Scrivono, fanno rimbombare: sconvolgenti, 
				una bomba. È acqua fresca. È una azione combinata. Perché, se la 
				relazione Anselmi è tempesta, per cui il governo (è stato 
				scritto) potrebbe andare in crisi, che sarà mai la relazione 
				finale che, evidentemente, sulla base delle orchestrate reazioni 
				che si sono oggi registrate, sarà ulteriormente addolcita? Se ci 
				si arrabbia, se si impreca, lo si fa per un fine ben preciso: 
				stemperare, ancor di più, le melensaggini che si sono scritte. 
				Questa è l'azione combinata: si fa chiasso per chiudere il caso. 
				In silenzio, nell'addormentamento generale della pubblica 
				opinione che di queste «sceneggiate» ha capito tutto. 
				* * * 
				Ma che c'è scritto in quéste carte? Innanzi tutto una cosa 
				scontatissima: Licio Gelli non è espressamente accusato di avere 
				crocefisso Nostro Signore, ma poco ci manca. È responsabile di 
				tutto: delle stragi, del terrorismo, della morte di Moro, 
				dell'eversione nera e rossa, di avere messo suoi «scherani» ai 
				vertici delle Forze Armate, dei servizi segreti, dell'editoria, 
				delle banche, della Magistratura. Gelli, insomma, ha invaso, 
				come un cancro, l'intero corpo della Nazione e, per vent'anni, 
				ha amministrato, ha ucciso, ha finanziato, ha riciclato, ha 
				deciso, ha giudicato, ha scritto, ha lottizzato, ha governato. 
				* * * 
				E la Repubblica? E la Resistenza? E Pertini? E l'antifascismo? E 
				il Parlamento? 
				Che hanno fatto? Spettatori? 
				Forse, si sono fatti irretire. Ma è accettabile una tesi simile? 
				Pensate un po': Sandro Pertini, ligure, è dal 1945 il «Grande 
				Vecchio» della Resistenza nella circoscrizione di Genova, 
				Imperia, La Spezia, Savona. Più propriamente è di Savona, la sua 
				città. E di Savona «democratica», da 40 anni a questa parte, 
				conosce vita morte e miracoli. Figuriamoci del PSI locale, di 
				cui è il santone venerato. 
				Ebbene, proprio a Savona, nel seno del PSI, nasce, cresce, 
				prolifica una banda di stampo mafioso che, pur di arraffare 
				denaro, non guarda in faccia a nessuno, usa anche il tritolo. Il 
				capo banda, il socialista Alberto Teardo (in galera), è 
				piduista. 
				* * * 
				Che dire? Che pensare? Sandro Pertini, al quale qualche amico di 
				casa nostra invia messaggi per chiedere la verità sulla P2, 
				sapeva o non sapeva? 
				Se sapeva, tanto da ospitare al Quirinale il capo banda Teardo, 
				è una brutta cosa che si qualifica da sé. Se non sapeva (e deve 
				essere senz'altro cosi) è grave lo stesso. Per una semplice 
				considerazione: come si fa a stare ai vertici dello Stato 
				quando, pur vivendo per 40 anni a contatto di gomito con dei 
				manigoldi, non ci si accorge di nulla? 
				Comunque le carte delI'Anselmi nulla dicono della banda 
				(piduista) Teardo. Quella vicenda, per la nostra Tina, non 
				esiste. La colpa è tutta di Gelli. 
				* * * 
				Scrive l'Anselmi, pagina 64 della relazione: «Gelli, 
				sicuramente, influisce sulla nomina del generale Raffaele 
				Giudice, che figura fra gli iscritti alla Loggia, a Comandante 
				generale della Guardia di Finanza: esercita a tale fine 
				interventi sui ministri interessati. Palmiotti (P2), segretario 
				dell'on. Tanassi, all'epoca ministro delle Finanze, si adopera 
				per la sua nomina ...». 
				* * * 
				Tutto qui? Tutto qui, per l'Anselmi. E Giulio Andreotti dove lo 
				mettiamo? Ma la nostra Tina li ha letti i documenti pervenuti 
				alla Commissione, o se li è fatti raccontare? 
				E come fa a dimenticare che fra questi documenti c'è una 
				illuminante sentenza del tribunale di Torino (23.XII.82, volume 
				000556) in cui è descritto, minuziosamente, l'interessamento di 
				Giulio Andreotti perchè a capo della Guardia di Finanza venisse 
				nominato Raffaele Giudice? Come fa a dimenticare che nella 
				sentenza è scritto che la nomina di Giudice, da parte dei 
				politici, era finalizzata a che il generale trasformasse il 
				Comando generale in un centro di contrabbando, per dare soldi ai 
				partiti? 
				Silenzio. Dicono che la relazione Anselmi è sconvolgente. Sì, 
				perché colpisce i perdenti (Tanassi), ma salva i potenti 
				(Andreotti). Tanto la colpa è tutta di Gelli. 
				* * * 
				Sentite questa. Pagina 67 della relazione. «Indubbiamente alcuni 
				militari agirono anche per interessi personali o parteciparono a 
				traffici illeciti, cui erano interessati direttamente e/o 
				riguardavano uomini politici ad essi collegati: questo può 
				desumersi dal coinvolgimento dei generali Giudice e Lo Prete e 
				del capitano Trisolini, in fatti come quelli attinenti al 
				traffico dei petroli, per i quali pendono vari procedimenti 
				avanti l'autorità giudiziaria ...». 
				Tutto qui? Ma è proprio fanciullescamente ingenua questa 
				Anselmi! Ma come: lei, così intima di casa Moro, non sa che 
				parte dei proventi di questi illeciti traffici pervenivano, via 
				Lo Prete - Musselli - Freato, alla segreteria particolare 
				dell'on. Aldo Moro? Non sa che quei soldi, che caratterizzarono 
				la più gigantesca truffa fiscale che la storia d'Italia ricordi, 
				contribuivano a costruire l'immagine del grande statista 
				pugliese? 
				Già, dimenticavamo. La colpa è tutta di Licio Gelli. 
				* * * 
				Proseguiamo, pagina 66 della relazione. «Anche dopo la riforma 
				dei servizi segreti nel 1978, i capi dei servizi risultano tutti 
				negli elenchi della P2: Grassini capo del SISDE, Santovito capo 
				del SISMI, Pelosi capo del CESIS ...». 
				Si, ma perchè l'Anselmi (questa smemorata) dimentica di scrivere 
				che tali nomine, su dichiarazione dello stesso senatore del PCI 
				Amerigo Boldrini, furono tutte concordate con il PCI, in 
				incontri che avvenivano (1975-1979, così data Boldrini) in 
				alcune sedi «coperte» dei servizi segreti? Perché dimenticare di 
				scrivere che quelle nomine furono concordate fra Amerigo 
				Boldrini, Ugo Pecchioli e il generale (piduista) Gianadelio 
				Maletti, condannato in ordine alle vicende riguardanti la strage 
				di Piazza Fontana? 
				* * * 
				Sicché, secondo l'Anselmi, Licio Gelli, servendosi 
				dell'eversione nera, operava per un progetto di governo che 
				escludesse il PCI ma, nel frattempo, lo stesso PCI si premurava 
				di concedere il suo nulla osta perché ai vertici dei servizi 
				segreti venissero nominati militari, tutti iscritti alla Loggia 
				P2. 
				Ma si può essere, lo dico alla toscana, più bischeri di così? 
				Secondo l'Anselmi sì. O meglio lei ritiene che agli Italiani si 
				può raccontare tutto ciò che si crede. Ma si sbaglia. E di 
				grosso. 
				* * * 
				Cinquantasei pagine (da 99 a 108 e da 1 a 43) della relazione 
				sono dedicate all'editoria, in particolare alla vicenda del 
				"Corriere della Sera". 
				Ci credereste? Nelle 56 pagine non ricorre mai, nemmeno per 
				sbaglio, il nome del presidente del PRI: il ministro delle 
				Finanze Bruno Visentini. Eppure era il «consigliere» del 
				piduista Angelo Rizzoli. 
				Non un cenno sulla nomina del senatore Branca, eletto nelle 
				liste del PCI, a garante del "Corriere della Sera", da parte di 
				Angelo Rizzoli e Tassan Din, tutti e due negli elenchi di Gelli; 
				non una parola dei... rapporti fra Umberto Ortolani e il 
				senatore Rino Formica (e sono in ballo bazzecole come 500 
				milioni); paginette di nessun senso dedicate a Francesco 
				Pazienza e a Flavio Carboni, il mondo viene definito dalla 
				relazione (è piena di humour questa Anselmi) «pittoresco», 
				quando è solo criminale, al punto che Roberto Calvi, per averlo 
				praticato, si ritrova, appeso, sotto il Ponte dei Frati Neri a 
				Londra. 
				* * * 
				Invano, nella relazione, cercherete qualcosa sull'aiuto ricevuto 
				da Calvi dall'allora sottosegretario Pisanu, dagli amici di 
				quella sinistra DC di cui l'Anselmi è gran parte, dal dott. 
				Binetti consulente dell'allora ministro del Tesoro Andreatta, 
				dal Gran Maestro Armandino Corona, l'amico di Spadolini (non un 
				rigo, nella relazione su questo personaggio. Ecco perché il PRI 
				esulta), da Flavio Carboni, socio di Eugenio Scalfari e di Carlo 
				Caracciolo, personaggi, tutti intorno ai quali ruotavano dei 
				malavitosi dello stampo di Danilo Abbruciati e Ernesto 
				Diotallevi. 
				* * * 
				Per Tina Anselmi, uscito di scena Licio Gelli, ciò che accade 
				dopo è marginale. Non interessa. Nemmeno il verbale di una 
				conversazione telefonica, verbale che il giudice Domenico Sica, 
				diligentemente, ha fatto, pervenire alla Commissione. Vi si 
				parla dell'uomo d'...affari piemontese Lorenzino De Bernardi, 
				arrestato in una storia di una associazione a delinquere di 
				stampo mafioso, protagonista Pazienza, per aver telefonato 
				all'industriale trentino Mariano Volani, affinché si decidesse a 
				mantenere l'impegno di pagare la tangente a Francesco Pazienza, 
				per una commessa di 60 miliardi per fabbricati destinati alle 
				zone terremotate dell'Irpinia. 
				* * * 
				Si tratta di estorsioni. Aprile-giugno 1981: il faccendiere 
				Lorenzino De Bernardi, per conto di Pazienza, contatta 
				l'industriale Volani. «Vuole mettere le mani sugli appalti delle 
				zone terremotate dell'Irpinia? Noi conosciamo la via». Sì, tutto 
				bene: ma chi è il politico (in gonnella o no) che, dietro 
				Lorenzino De Bernardi, è il regista dell'operazione? 
				Alla Commissione P2, su questa vicenda, perviene la 
				documentazione. Non se ne fa di nulla. L'Anselmi vuole chiudere 
				in fretta. È sua l'affermazione: «In fondo fatti nuovi non 
				modificano l'insieme dell'inchiesta». 
				* * * 
				I conti, dunque, per Tina Anselmi sono stati già tutti fatti. 
				Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. È la sua filosofia, 
				e non solo sua. Titola "la Repubblica": «Lotta alla P2. Pertini 
				si schiera con Tina Anselmi. Tutta la verità sulla Loggia 
				chiesta dal Presidente della Repubblica». 
				D'accordo, però il Quirinale dovrebbe farci sapere se la verità, 
				tutta la verità, la vuole anche sul caso Zilletti. Sarebbe 
				interessante saperlo. Visto che ad impedirla, questa verità, 
				sono intervenute la Corte di Cassazione, la Procura del 
				Tribunale e della Corte d'Appello di Roma, nonché il Consiglio 
				superiore della Magistratura, il cui presidente è il Presidente 
				della Repubblica. 
				  
				
				1 giugno 1984 
				Michele Sindona e il suo 
				«consigliori» 
				
				 
				C'è una lettera di Michele Sindona. È del settembre 1976. È 
				indirizzata all'allora Presidente del Consiglio in carica, 
				Giulio Andreotti, capo di un governo retto anche dai voti del 
				PCI. Proviene dall'America. La busta reca il recapito: Hotel 
				Pierre, Nuova York. Il bancarottiere inseguito da un mandato di 
				cattura della magistratura italiana, traccia per il Presidente 
				del Consiglio, un vero e proprio programma di azione. Eccolo: 
				contrastare l'estradizione chiesta dai giudici milanesi; 
				esercitare pressioni sull'apparato giudiziario e amministrativo 
				perché recedano dai comportamenti contrari a lui, Sindona; 
				sistemare gli affari delle Banche dichiarate fallite; opporsi 
				alla sentenza di insolvenza. La lettera-programma, dopo avere 
				accennato, che linguaggio tipicamente mafioso, a possibili 
				azioni di ricatto, se le cose si dovessero metter male, termina, 
				inviando al Presidente del Consiglio i «ringraziamenti per i 
				rinnovati sentimenti di stima con lui, Andreotti, anche 
				recentemente, ha manifestato per lui, Sindona, a comuni amici». 
				* * * 
				La lettera viene ad assumere particolare rilievo dopo che il 
				"Corriere della Sera" di domenica 20 maggio (come del resto 
				tutta la stampa italiana) ci ha fatto conoscere, in un inserto 
				di quattro pagine, gli atti dell'inchiesta dei giudici di Milano 
				contro Michele Sindona per il delitto di Giorgio Ambrosoli, il 
				liquidatore delle banche di Sindona; atti che sono stati 
				rivelati negli Stati Uniti, nel contesto della richiesta di 
				estradizione in Italia del già «benefattore della lira», così 
				come ebbe ad esprimersi Andreotti in un pranzo in suo onore, 
				organizzato da Sindona a Nuova York all'Hotel Regis nel dicembre 
				1973. 
				* * * 
				Il quotidiano milanese, sotto il titolo «Il delitto Ambrosoli, 
				ecco il dossier su Michele Sindona», scrive: «Alcuni colpi di 
				pistola in una notte del luglio 1979 uccidono un uomo che sapeva 
				troppo, anzi che aveva scoperto troppo; l'avvocato milanese 
				incaricato di liquidare i conti del bancarottiere di Patti. È il 
				punto centrale e tragico di una storia cominciata nel 1974 e 
				sviluppatasi poi, per anni, a tela di ragno coinvolgendo 
				gangsters, politici, banchieri e agenti segreti, massoni e 
				mafiosi: un'enorme piovra contro le istituzioni dello Stato. 
				Soltanto ora, nel 1984, dopo che la magistratura USA ha detto si 
				all'estradizione di Sindona è possibile conoscere la 
				ricostruzione che della grande trama hanno fatto i giudici 
				italiani». 
				* * * 
				Dagli atti, 9.1.1979. Giorgio Ambrosoli, commissario 
				liquidatore, riceve nel suo studio una telefonata anonima. 
				Telefonista: Pronto, l'avvocato? Buona sera, sono io. Senta 
				avvocato, se le può far piacere le volevo dire questo, dato che 
				domani lei ha quell'appuntamento... 
				Ambrosoli: Si. 
				Telefonista: Guardi che puntano il dito soprattutto su lei, io 
				la sto chiamando da Roma, sono a Roma, e puntano il dito su di 
				lei come se lei non volesse collaborare... 
				Ambrosoli: Ma chi sono questi? 
				Telefonista: Tutti sono pronti a buttar la colpa su lei... 
				Ambrosoli: Puntino la colpa che vogliono, ma... 
				Telefonista: Sia il Grande Capo... 
				Ambrosoli: Chi è il Grande Capo? 
				Telefonista: Lei mi capisce, sia il Grande Capo sia il piccolo, 
				il signor Cuccia e compagni, danno la colpa a lei. Io lo vedo 
				che lei è una brava persona, mi spiacerebbe... 
				Ambrosoli: Ma puntano per che cosa, me lo spiega? 
				Telefonista: Si dice che lei non vuole collaborare ad aiutare 
				quella persona, capisce? Il «grande», lei ha capito chi è, o no? 
				Ambrosoli: II grande immagino sia Sindona. 
				Telefonista: No, è il signor Andreotti... 
				Ambrosoli: Chi? Andreotti? 
				Telefonista: Si. Ha telefonato e ha detto che aveva sistemato 
				tutto ma che la colpa è sua. 
				Ambrosoli: Ah, sono io contro Andreotti... 
				Telefonista: Esatto. Perciò stia a guardare perché vogliono 
				metter lei nei guai. Arrivederci. 
				* * * 
				Sempre dagli atti dei giudici. È il 12.1.1979. Nello studio 
				Ambrosoli arriva un'altra telefonata anonima. 
				Telefonista: Buon giorno avvocato. L'altro giorno ha voluto fare 
				il furbo. Ha fatto registrare tutta la telefonata. 
				Ambrosoli: Chi glielo ha detto? 
				Telefonista: Sono fatti miei. Io la volevo salvare ma da questo 
				momento non la salvo più. 
				Ambrosoli: Non mi salva più? 
				Telefonista: Non la salvo più, perché lei è degno di morire 
				ammazzato come un cornuto. Lei è un cornuto e un bastardo. 
				* * * 
				Dalla deposizione di Henry Hill, trafficante di droga, divenuto 
				collaboratore della FBI. È l'11 febbraio 1983, ore 11.30. 
				Domanda: Nel corso dei rapporti con William Aricò (un killer di 
				professione, detto lo «sterminatore» accusato di avere ucciso 
				Giorgio Ambrosoli su commissione di Sindona) ha mai avuto 
				occasione di discutere con lui di affari che egli faceva con 
				altri? 
				Risposta: Sì, in numerose occasioni. Egli mi informò che stava 
				lavorando per Michele Sindona, Nino Sindona, e suo genero o 
				anche cugino. Domanda: Che cosa le disse che faceva Aricò per 
				loro? 
				Risposta: Omicidi su commissione. 
				Domanda: Le disse dove egli faceva questi omicidi? 
				Risposta: Sì, li faceva in Italia. 
				Domanda: Può stabilire una data approssimativa in cui seppe che 
				Aricò lavorava per Sindona? 
				Risposta: Sì, era nel settembre-ottobre 1978, quando io 
				ricevetti due valigie di armi... Le armi erano destinate a me. 
				Aricò ne acquistò sei e mi disse che le avrebbe usate per questi 
				omicidi in Italia... (Ambrosoli fu ucciso con una di queste armi 
				- N.d.R.). 
				* * * 
				Scrive il "Corriere della Sera" (pagina 16, 20.5.84), «Il 15 e 
				il 25 luglio 1978 Rodolfo Guzzi (avvocato di Sindona, arrestato 
				per estorsione in questi giorni) viene ricevuto a Palazzo Chigi 
				da Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio. Lo mette al 
				corrente del piano di salvataggio delle Banche di Sindona. 
				Andreotti spiega all'interlocutore che la persona più adatta per 
				valutarlo è il Ministro dei Lavori Pubblici Gaetano Stammati. Il 
				nome di Gaetano Stammati risulterà poi nell'elenco degli 
				iscritti alla P2. È lo stesso on. Andreotti che fissa l'incontro 
				Guzzi e Stammati. II 20 settembre 1978 il ministro dei Lavori 
				Pubblici presenta il progetto di salvataggio a Carlo Ciampi 
				Governatore della Banca d'Italia. È bocciato. Il parere negativo 
				viene riferito tanto all'on. Andreotti quanto all'avvocato. 
				Guzzi». Cosi il "Corriere" ... 
				* * * 
				Se mettete a confronto le date, noterete che Michele Sindona, 
				per salvarsi, opera su due fronti: quello politico, in cui il 
				suo «consigliori» è Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio 
				dei Ministri; l'altro, a contatto con la criminalità organizzata 
				dove, attraverso la via della droga, assolda killer di 
				professione per intimidire e assassinare, se la via politica 
				dovesse risultare vana. 
				Ed è così. Infatti Andreotti non ce la fa. Nemmeno Enrico 
				Cuccia, consigliere delegato di Mediobanca che, minacciato di 
				rapimento dei figli, collabora alla stesura di un piano di 
				salvataggio. 
				* * * 
				A dire «no» ai piani di salvataggio-truffa è ancora Giorgio 
				Ambrosoli. Le telefonate con le quali lo si minaccia di morte, 
				non Io fanno recedere, anche se si sente solo, ed è rimasto 
				solo. Episodio inquietante. Settembre 1974: l'impero di Sindona 
				è allo sfascio. Occorre rimettere ordine. Giorgio Ambrosoli è 
				chiamato a Roma dal Governatore della Banca d'Italia, Guido 
				Carli. È convinto di essere chiamato a far parte dello staff di 
				liquidatori che dovranno occuparsi del crack Sindona. Non è 
				così. Da Milano, la sera stessa, chiama la moglie: «Sono solo», 
				dice. La sua voce è preoccupata. 
				Perché Guido Carli lo lasciò solo? Nell'agenda di Giorgio 
				Ambrosoli si troveranno queste parole: «Pagherò a prezzo molto 
				caro questo incarico, ma per me è stata un'occasione unica di 
				fare qualcosa per il mio paese ...». 
				* * * 
				Siamo alla stretta finale. Nel gennaio 1979, Giorgio Ambrosoli, 
				dopo avere raccontato a Sarchielli, responsabile dei servizi di 
				vigilanza della Banca d'Italia, le continue minacce di morte che 
				riceve, rifiuta l'incontro a tre fra l'avv. Guzzi e il 
				Governatore dott. Ciampi; incontro caldeggiato dal ministro 
				Stammati. Arriva l'estate. Manda la moglie e i tre figli al 
				mare. Ad un avvocato amico confida: «Mi minacciano di morte. Ho 
				sinceramente paura. Ma non posso tirarmi indietro: ne andrebbe 
				della credibilità dello Stato». 
				Mercoledì 11 luglio, ore 23.30. Ambrosoli torna a casa. 
				Posteggia l'auto. Scende. Quattro colpi. La sua fedeltà allo 
				Stato viene ripagata così. Con la morte. Come Carlo Alberto 
				Dalla Chiesa. Ricordate? Così il Generale si espresse, pochi 
				giorni prima di essere assassinato: «Credo di avere capito la 
				nuova regola del gioco. Si uccide il potente quando è diventato 
				troppo pericoloso, ma si può ucciderlo perchè è rimasto solo». 
				* * * 
				Sabato 14 luglio 1979, ore 11: i funerali di Giorgio Ambrosoli. 
				Solo tre corone. Manca quella dello Stato. Nessun uomo politico 
				presente. Nemmeno il prefetto. 
				Così cadono i migliori in questa Italia. 
				* * * 
				Ultimo inquietante interrogativo. Lo pone "il Giornale" 
				(19.5.84) in un corsivo di Indro Montanelli. Sotto il titolo «La 
				famiglia Ambrosoli chiede l'intervento di Pertini per 
				l'estradizione di Sindona», ci si chiede il perché il trattato 
				di estradizione tra Italia e USA aspetti, da sette mesi 
				l'approvazione parlamentare. Lentezza della burocrazia 
				parlamentare? Può essere, ma vi è un'altra ipotesi, scrive 
				Montanelli, molto peggiore. «E cioè che, adendo come agiscono, 
				gli esponenti della politica vogliano evitare, finché è 
				possibile il prestito di Sindona all'Italia e la sua comparsa in 
				una delle nostre aule di giustizia. Un Sindona pentito che parli 
				a ruota libera, fa paura. È una ipotesi -scrive Montanelli- che 
				fa gridare al vilipendio, ma smentirla è semplice: si dia rapido 
				corso all'approvazione del trattato e si chiami qui Sindona. 
				Almeno questo lo Stato lo deve all'assassinato Ambrosoli e ai 
				suoi familiari». 
				Fin qui Montanelli. Un particolare: ministro degli Esteri della 
				Repubblica italiana è Giulio Andreotti. 
				  
				
				5 giugno 1984 
				Pietro Longo e la questione 
				morale 
				
				 
				Questo il ritratto di Pietro Longo. È di Enzo Biagi, "Panorama" 
				del 17 agosto 1981: 
				«Pietro Longo mi fa venire in mente l'incompiuta: ha una faccia 
				sbozzata e approssimativa, come quella dei burattini. Eppure, 
				assicura la madre, da bambino era bellissimo. È stato a lungo 
				vicino a Nenni, e pupillo di Saragat, ma non si capisce da chi 
				ha preso. La mamma lo ha incoraggiato alla politica; lui ricorda 
				con simpatia un bisnonno poeta che scappò prima con una 
				sciantosa, poi con Garibaldi. Forse fece più danni la seconda 
				volta. Gli va riconosciuta, senza ironia, molta abilità: è a 
				capo di una specie di Armata Brancaleone, in perenne marcia alla 
				conquista di clienti. Per essere forti, han bisogno di stare al 
				governo; l'opposizione li uccide. Debbono distribuire favori: 
				ideali sono le Poste, le Finanze, i Trasporti. Quando non si può 
				concedere, si può minacciare. È vero che anche i concorrenti non 
				sono degli angioletti, che la croce della DC l'hanno dovuta 
				portare in tanti, e come lottizzatori i compagni del PSI non 
				sono stanchi di dover recitare la seconda parte, ma il sole che 
				sorge è il marchio della più grande agenzia di collocamento 
				nazionale. È la "Gabetti" della supplica: compera, affitta, 
				vende ...». 
				* * * 
				Domanda: perché proprio adesso un'apertura di credito al PCI? 
				Risposta: il PCI è in difficoltà perché ci sono forze al suo 
				interno che stanno tentando di cancellare l'evoluzione 
				democratica vissuta in questi anni dal comunismo italiano. E ciò 
				è molto pericoloso. Bisogna fare di tutto per favorire 
				l'ingresso definitivo del PCI nell'Occidente e nell'Europa. 
				Domanda: e chi potrebbero essere i protagonisti di questa 
				svolta? 
				Risposta: nonostante tutto, Enrico Berlinguer e gli uomini che 
				gli sono più vicini. Berlinguer in generale è lento e fin troppo 
				prudente. Ma è deciso nelle scelte che contano, come Io strappo 
				con Mosca. 
				Domanda: quale sarà l'occasione per cominciare a discutere con i 
				comunisti? 
				Risposta: in primavera ci sarà il congresso del PCI ma in 
				autunno già conosceremo le tesi e i documenti preparatori... 
				("Panorama", 9 agosto 1982, conversazione con Pietro Longo) 
				* * * 
				«Non è sicuro che questa piccola bufera scatenata da Pietro 
				Longo di fine agosto possa lasciare qualche traccia. Egli stesso 
				ha dichiarato del resto di voler riprendere il discorso solo 
				dopo le vacanze: è per settembre o per ottobre quel "dialogo" 
				con il PCI annunciato con tanto anticipo dal segretario 
				socialdemocratico. Dialogo su che cosa? Vedremo. Noi non siamo 
				impazienti, anche se abbiamo da sempre una buona disposizione a 
				dialogare con chiunque abbia da dirci qualcosa di interessante, 
				tanto più che la materia non manca (a Roma, in Campidoglio, per 
				esempio, il dialogo PCI-PSI-PSDI-PRI un risultato lo ha avuto, 
				con la nuova giunta presieduta dal comunista Ugo Vetere ...». 
				("l'Unità", 3 agosto 1982) 
				* * * 
				Pietro Longo comunemente (e razzisticamente) definito «l'anello 
				mancante», è il gioco delle tre carte in politica (con tutto il 
				rispetto per i professionisti che campano la vita a questo 
				modo). Pietro Longo è la politica del borseggio. È il leader 
				politico che guadagna voti sulla galera del suo presidente 
				Tanassi; è l'unico uomo politico che non può sottrarsi 
				all'obbligo di solidarizzare pubblicamente e privatamente con la 
				P2; è il leader dell'arco costituzionale per il quale la 
				Costituzione è poco meno che il tombino nel quale far scivolare, 
				fisiologicamente, il liquame degli scandali nazionali. ("il 
				manifesto", 3 agosto 1982) 
				* * * 
				Domanda: ma non siete mica l'unico partito implicato nella P2. 
				Risposta: «Però io sono l'unico Segretario di partito che si 
				trova in questa situazione (negli elenchi della P2 - N.d.R.), 
				sono in certo senso il protagonista politico di questo scandalo 
				che si vorrebbe montare alle mie spalle. E spero che molti mi 
				diano il voto proprio per questo». 
				(Il Segretario PSDI Longo: «Che imprudenza feci con quella 
				visita di ottobre a Gelli», "Corriere della Sera", 20.6.81) 
				* * * 
				«Lei come giudica il rifiuto di socialisti e repubblicani di 
				partecipare alle trattative per la formazione del Governo 
				insieme a Pietro Longo, implicato nella P2? 
				Sono chiacchiere. Comunque scriva pure che il PSDI non potrà 
				rimanere fuori dal Governo per questo fatto». 
				(«Chiacchiere, insinuazioni, torbide manovre, il PSDI si stringe 
				intorno al Segretario», "la Repubblica", 12.6.1981). 
				Infatti il PSDI di Pietro Longo entrerà, a vele spiegate, nel I 
				Governo Spadolini (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI), il presidente della 
				«questione morale». 
				* * * 
				La DC ha perso il primo round della crisi e di brutto, ma ora è 
				costretta a far buon viso a cattivo gioco. Lo staff di Piazza 
				del Gesù ieri era impegnato a spegnere il malumore e il 
				nervosismo che serpeggiano nelle fila del partito. «L'incarico a 
				un laico? Non è che ci faccia perdere il sonno... Eppoi, avete 
				visto come Spadolini è subito diventato più prudente sulla P2 
				appena ricevuto il mandato?». ("la Repubblica", «DC divisa, 
				Piccoli in difficoltà, la sinistra favorevole a un bicolore con 
				il PRI», 12 giugno 1981) 
				* * * 
				Da quanto tempo è in politica? «Le mie prime esperienze 
				politiche risalgono addirittura all'occupazione tedesca di Roma 
				quando non avevo neanche nove anni e mia padre mi portava alle 
				riunioni clandestine e mi mandava in giro per Roma in bicicletta 
				a distribuire il materiale propagandistico». 
				(«Pietro Longo, Interrogatorio di terzo grado», "l'Espresso", 
				23.11.80) 
				* * * 
				Sicché abbiamo Pietro Longo «partigiano» a nove anni. Quale 
				meraviglia allora che a 19 anni Giovanni Spadolini partecipi 
				alla vita della Repubblica di Benito Mussolini? 
				* * * 
				Un breve commento alle note che più sopra abbiamo riportato (e 
				che occorre, noi missini, portare in mezzo alla gente). Come 
				constaterete quando per Longo si tratta di conquistare fette di 
				potere, allora sta bene mettersi d'accordo anche con il PCI. 
				Quando ai comunisti preme piazzare un proprio sindaco a Roma, 
				allora anche il voto del «piduista» Pietro Longo non fa schifo, 
				ma è bene accetto. Quando a Giovanni Spadolini interessa portare 
				in porto il suo primo governo, per cui deve trattare con il 
				piduista Longo, manda al diavolo la questione morale. Quando i 
				DC si vedono portar via la sedia del Presidente del Consiglio, 
				imprecano e attaccano Spadolini che, per desiderio di seggiola, 
				dimentica la P2. 
				È una bella compagnia. Ora Longo chiama Spadolini «nazifascista» 
				e Spadolini replica: «Mafioso»! 
				Questo è il Governo della Repubblica italiana. E il Presidente 
				della Repubblica, anche lui moralizzatore, sta a guardare. In 
				silenzio. 
				* * * 
				E che dire del fatto che noi siamo stati ghettizzati per 40 anni 
				(e ancora non è finita) da gente simile? E lo siamo stati in 
				ordine proprio all'accusa di «nazifascismo», accusa che fa 
				scrivere a Spadolini che, quando si ricorre a simili polemiche, 
				si scende all'imbarbarimento aberrante e miserabile? 
				Lo sapevamo. L'«arco costituzionale», che anche Spadolini e 
				Longo si sono adoperati a tenere in piedi a fini di potere, non 
				poteva non essere impastato di imbarbarimento aberrante e 
				miserabile. Chi lo ha messo su ne dà oggi le prove. 
				Inequivocabili. 
				* * * 
				Sentite questa. «E per quanto forte possa essere il disgusto e 
				l'avversione verso uomini e cose del recente passato in taluni 
				strati della gioventù, non si illudano i liberali e i 
				democratici e i massoni di riconquistare, con i loro dogmi 
				mummificati e svigoriti, l'animo dei giovani. Prova ne sia il 
				fatto che fra i giovani antifascisti più vivi e animosi delle 
				città e fra gli sbandati che, sulle montagne dell'Italia 
				centro-settentrionale, conducono una guerriglia, talora 
				sanguinosa più spesso simbolica, contro i rappresentanti del 
				fascismo, più ancora che contro i tedeschi, non le idee putride 
				e senili del liberalismo attecchiscono, ma i forti, suggestivi, 
				rivoluzionari propositi del comunismo. Segno che il fascismo, 
				nel decapitare gli idoli del parlamentarismo e della democrazia, 
				era andato incontro nel '22 a un bisogno generale, che è vivo 
				ancora oggi. Segno che, se un problema dei giovani esiste per 
				tutti gli innamorati fedeli della libertà, è la scelta fra 
				essere liquidati dalla gioventù fascista o dalla gioventù 
				comunista». 
				(Giovanni Spadolini, "Italia e Civiltà", anno I, n. 8°, 26 
				febbraio 1944) 
				* * * 
				Diciannove anni, va bene, ma idee (e cuore) ne aveva Giovanni 
				Spadolini, checché ne dica Saragat! 
				Chi è che si azzarda a dire che Spadolini è senza coglioni? 
				  
				
				31 luglio 1984 
				Serviva il sistema 
				
				 
				Scrive Tina Anselmi nella sua relazione sulla Loggia massonica 
				P2: «Gli elementi conoscitivi, in possesso della Commissione, 
				inducono a ritenere improbabile che Licio Gelli e gli uomini e 
				gli ambienti dei quali egli era espressione si ponessero 
				realisticamente l'obiettivo politico del ribaltamento del 
				sistema, mentre assai più verosimile appare attribuire loro il 
				progetto politico verso forme conservatrici di più spiccata la 
				tendenza. Comprova questa interpretazione l'esame delle 
				testimonianze e dei documenti sinora ampiamente citati, e se 
				tutto ciò è vero, e tutto di induce a questa analisi, non è 
				azzardato allineare, accanto all'interpretazione più evidente 
				dei fatti, un'altra ipotesi; ipotesi ricostruttiva di pari 
				possibile accoglimento, che la prima non esclude: quella cioè 
				che la politica di destabilizzazione, nella quale Gelli e i suoi 
				accoliti, si inserivano mirava piuttosto, con paradossale ma 
				coerente lucidità, alla stabilizzazione del sistema». 
				* * * 
				Fate bene attenzione. L'affermazione di Tina Anselmi è 
				sconvolgente. Per l'autorità della sede da cui viene 
				prospettata, e dalla maggioranza del Parlamento (Camera e 
				Senato) che la fa sua. In questi giorni estivi, alla vigilia 
				della ricorrenza della sanguinosa strage della Stazione di 
				Bologna dell'agosto 1980. 
				Che vuole dire Tina Anselmi? 
				Rendiamo il discorso il più chiaro possibile, con l'abituale 
				avvertenza perché le Federazioni che leggano, comprese le più 
				sperdute sezioni periferiche del MSI, vi sappiano costruire una 
				politica, la politica della verità. Sulle stragi. 
				* * * 
				L'Anselmi scrive le note riportate nel capitolo «I collegamenti 
				della P2 con l'eversione». Licio Gelli, secondo queste note, 
				uomo dei Servizi segreti, sarebbe stato l'elemento di 
				articolazione nel torbido rapporto tra le istituzioni (la 
				Anselmi descrive i servizi segreti come una setta criminale) e 
				le varie frazioni del partito armato. Vi sarebbe stata quindi 
				una strumentalizzazione, da parte di Gelli e della P2, delle 
				sacche più deliranti del: terrorismo, per ricompattare il 
				sistema con le stragi e con l'assassinio (vedi vicenda di Aldo 
				Moro). Le stragi quindi, scrive l'Anselmi, e la maggioranza del 
				Parlamento approva, hanno matrice moderata. 
				* * * 
				È il Sistema che, giocando sul sangue, strumentalizzando «rossi 
				e neri», ricompone se stesso «al centro», ricostruisce la 
				propria immagine moderata, si riproduce immacolato e puro, dopo 
				averne fatte di tutti i colori. 
				* * * 
				È la tesi della «strage di stato». Ci siamo arrivati. Ci arriva 
				l'intero parlamento italiano. Nel 1984. Ed ora, le conseguenze? 
				Non ce ne rendiamo conto perché ci siamo sotto. Scrivere che 
				sono sconvolgenti è poco. Ma tutto ciò non deve rimanere 
				patrimonio di pochi intimi, o nel chiuso delle nostre sedi; 
				queste verità che stanno venendo fuori devono essere portate fra 
				la gente. È qui che si misura la vitalità di un partito, la 
				forza del suo messaggio e della sua storia. 
				* * * 
				Nella Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia 
				massonica P2 c'è stato, fra il comunista onorevole Achille 
				Occhetto e il senatore socialista Luigi Covatta, questo scambio 
				di opinioni (pag. 442, Resoconti stenografici sedute 
				Commissione, Doc. XXIII n° 2 - ter/15, IX legislature): 
				Achille Occhetto; «se ho capito bene il senso del tuo 
				ragionamento, poteva esserci una convergenza di interessi tra 
				Est e Ovest per eliminare l'originalità del caso italiano, 
				rappresentato dalla politica di Aldo Moro, cioè di incontro tra 
				una parte della DC e il PCI. Se ha senso questo tuo 
				ragionamento, allora questa parte della DC e il PCI sarebbero le 
				vittime di questo interesse convergente. Questa è l'unica 
				spiegazione che si può dare del tuo intervento». 
				Luigi Covatta: «A parte il fatto che, caro Occhetto, insieme a 
				qualche altro compagno del PCI, mi hai insegnato, nei giorni del 
				sequestro Moro, che esiste anche la "sindrome di Stoccolma", per 
				cui le vittime spesso sono complici dei loro esecutori, per 
				essere chiari possiamo anche ricordare che all'interno del PCI 
				non mancavano, e non mancano, gli oppositori rispetto a questa 
				linea e che questa linea che si è interrotta, si chiamava 
				eurocomunismo». 
				* * * 
				Insomma, veniamo al sodo: chi è che ha assassinato Aldo Moro? 
				L'antifascismo è diviso. Una parte dice: CIA. Un'altra afferma: 
				KGB. Un'altra ancora: CIA e KGB insieme. E Gelli a fare da 
				intermediario. Pesa essere arrivati, in Italia, dietro le 
				salmerie straniere. Fatto sta che nessuno dice che, comunque la 
				cosa si metta, «qualcuno» ha infeudato lo Stato italiano a uno o 
				più servizi segreti stranieri. Gelli, burattinaio dei politici 
				italiani, era a sua volta un burattino di potenti organizzazioni 
				internazionali. Ecco perché l'efficientissima Svizzera ha fatto 
				fuggire dalle sue efficientissime carceri Gelli. 
				Erano in gioco interessi superiori. Non certo italiani. 
				* * * 
				C'è chi afferma che la «questione morale» è tutto. Che da essa 
				dipende se il Paese si salverà, o no. 
				Senz'altro, ma la questione morale è, a sua volta, dipendente 
				dalla «questione nazionale». Da 37 anni l'Italia è governata da 
				un partito, o da una coalizione di partiti, che non si sono mai 
				posti il problema della sovranità nazionale. 
				Le credenziali di lealtà nazionale e di indipendenza dall'estero 
				vanno chieste non solo al PCI. Vanno chieste anche, e 
				soprattutto, alla DC, al PRI e al PSDI. 
				Ecco il punto. Perché è da questo torbido universo che vengono 
				le bombe e gli assassini. Tutta la vicenda P2 (e le sue carte) 
				testimonia quanto affermo. 
				
				  
				
				17 novembre 
				1984 
				Il compagno Natta in camicia nera 
				
				 
				E veniamo ora al caso Natta, segretario del PCI. Il suo caso ha 
				fatto rumore in questi giorni. 
				Remigio Cavedon, vice direttore de "Il Popolo", attingendo da 
				notizie che "Il Secolo d’Italia" aveva riportato fin dal 13 
				aprile 1979 (cinque anni fa, e nessuno ci aveva fatto caso. Si 
				vede che registrano e poi mettono, per ogni evenienza, nel 
				cassetto), ha titolato il suo pezzo (6/11/84): "l’ex-fascista 
				Natta vuol mettere le mani sul sistema". 
				Scagliati cielo. È accaduto il finimondo. "l’Unità" ha prima 
				replicato (7/11/84) con un corsivo dal titolo "Quando il Popolo 
				impazzisce" («i comunisti non scenderanno mai a simili livelli: 
				l’insulto personale, la rissa, la provocazione»); poi, il giorno 
				dopo (8/11/84), con un lungo articolo, rispondendo alla 
				provocazione, ci ha narrato una lunga storia che, simile ad una 
				fiaba paesana, ha ricostruito Alessandro Natta, iscritto (con 
				cariche) al PNF (Partito Nazionale Fascista) fin dal 1937, come 
				l’antifascista più puro e più intemerato. 
				Ed allora qualche precisazione non guasta. 
				Scrive "l’Unità", sotto il titolo "1937-1941: l’antifascismo di 
				Natta, fine di una meschina provocazione": «La verità è che il 
				compagno Natta era stato educato, fin dall’adolescenza, 
				all’antifascismo, che diverrà vera e propria milizia appena 
				diciottenne lasciò Imperia per l’Università pisana». 
				Fermiamoci qui. "l’Unità" è inesatta. Alessandro Natta non 
				lasciò Imperia per l’Università pisana, ma per la prestigiosa 
				Scuola Normale Superiore di Pisa (la Scuola che dà Premi Nobel), 
				allora diretta dal filosofo Giovanni Gentile. 
				«Educato, fin dall’adolescenza, all’antifascismo», scrive 
				"l’Unità". 
				Oh! Santa bugia! 
				I posti alla Scuola Normale Superiore, classe di Lettere, per il 
				1937, erano nove. Selezione, dunque, severissima, con concorso 
				nazionale. 
				Ora, delle due l’una: o il regime fascista, nel 1937, cioè nel 
				suo fulgore, non guardava alla tessera, ma premiava, grazie a 
				Giovanni Gentile, i meritevoli; oppure, la selezione avveniva 
				tenendo conto della tessera (fascista), che Alessandro Natta 
				possedeva, fin dall’adolescenza («antifascista»). La scelta la 
				lasciamo a "l’Unità". 
				C’è qualcosa di più. Alessandro Natta, nel 1941 -quando già, 
				secondo "l’Unità", fondava, fascismo imperante, cellule 
				comuniste in quel di Imperia-, annoverava nel PNF un doppio 
				incarico: non uno, ma due. 
				Infatti, non si limitava a far parte del comitato di redazione 
				della rivista "Il Campano", organo del GUF (Gruppo Universitario 
				Fascista), ma addirittura veniva chiamato a dirigere la cultura: 
				cioè, responsabile del settore più delicato della organizzazione 
				fascista, nell’ambito universitario. 
				La verità la dice, non "l’Unità", ma Degl’Innocenti Danilo, 
				allora addetto all’organizzazione e che, con Natta, faceva parte 
				del direttorio del GUF pisano: «Alessandro Natta era un 
				ambizioso impenitente. Voleva arrivare. E, per arrivare, dava 
				gomitate incredibili. Fascistissimo. Un primo della classe E, se 
				non fosse stato così, come avrebbe potuto avere quegli 
				incarichi?». 
				Non la giovane età (a 23 anni si è già maturi); non gli 
				avvenimenti (Natta risulta iscritto alle organizzazioni 
				giovanili fasciste, poi al GUF, poi al PNF); non fa registrare 
				un suo sdegnoso appartarsi, ma ricopre cariche (e che cariche, 
				le più delicate nei settori giovanili del partito): questo è il 
				Natta edizione 1937-1941, attuale segretario del PCI, il partito 
				di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. 
				Perché dunque prendersela con Remigio Cavedon che, poverino, non 
				ha fatto altro che riportare fatti certi e accaduti? 
				E, come sempre, la sbavatura DC, il partito della doppiezza: 
				Remigio Cavedon viene rimproverato da Flaminio Piccoli. «È stato 
				un grave errore» -ha detto Piccoli- «rimproverare a Natta il suo 
				giovanile fascismo». 
				Ipocrita, per non dire di peggio. 
				Alla vigilia del referendum sul divorzio, Flaminio Piccoli, a 
				chi gli chiedeva conto, alla TV, dell’accostamento, in quella 
				campagna referendaria, con i «fascisti» del MSI, rispondeva che, 
				per la DC, quei voti erano «colerici». 
				Anche per quelle parole, giovani meno che diciottenni, sono 
				stati assassinati. 
				«Uccidere un fascista non è un reato». Allora, nessuna 
				dichiarazione del presidente della DC, contro quella barbarie. 
				Oggi un ben diverso «colera» infetta (il partito di) Flaminio 
				Piccoli. È nell’occhio del ciclone. E che fa? 
				Adotta un comportamento sperimentatissimo: quello di mettersi 
				sotto la protezione comunista quando lo sporco ci sommerge. E 
				tenta di salvare Alessandro Natta. Che ne viene fuori? Schizzi 
				di fango. 
				«Personalmente ho sempre ritenuto che Giovanni Gentile, uno dei 
				massimi responsabili del tradimento degli intellettuali, dovesse 
				finire così». Così dice Alessandro Natta del suo Maestro, il 12 
				agosto 1984 ("L’Espresso"), appena eletto, tronfio di gloria, 
				segretario nazionale del PCI. (per chi non lo sapesse, Giovanni 
				Gentile, filosofo e docente universitario, ministro della 
				pubblica istruzione 1922/1924 e senatore, direttore della 
				Normale di Pisa e dell’Istituto per l’Enciclopedia Italiana, 
				presidente dell’Accademia d’Italia, fu vigliaccamente 
				assassinato da una banda di partigiani comunisti, il 15 aprile 
				1944, a Firenze). 
				Novembre 1984: l’antifascismo di Natta si squaglia, come melma, 
				al sole. Appena tre mesi. Sufficienti però, per chi aveva 
				tacciato Giovanni Gentile, il proprio maestro, di tradimento, 
				per cadere nella merda. 
				 
				Giuseppe Niccolai 
				 
				L’articolo di Niccolai era corredato della riproduzione 
				fotografica della nomina di Alessandro Natta al Direttorio del 
				Gruppo Universitario Fascista pisano, tratta dalla rivista "Il 
				Campano", numero di marzo-aprile 1941. 
				Riporto qui per esteso il testo di tale nomina: 
				Nomina del Direttorio. 
				In data 18 marzo u.s., il Segretario Federale ha ratificato la 
				nomina del Direttorio del GUF Pisano, che risulta pertanto così 
				costituito: 
				- Nardi Pilade Osvaldo, laureato in Medicina e Chirurgia, 
				iscritto al PNF dal 1° agosto 1922, volontario in AOI (Africa 
				Orientale Italiana), tenente medico: Vice Segretario; 
				- Degl’Innocenti Danilo, laureando in Economia e Commercio, 
				iscritto al PNF dal 23 marzo 1928, proveniente dalle 
				Organizzazioni Giovanili, sottotenente di fanteria, pilota 
				civile: Addetto all’Organizzazione; 
				- Natta Alessandro, laureato in Lettere, iscritto al PNF dal 24 
				maggio 1937, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili: Addetto 
				alla Cultura; 
				- Lucarelli Antonio, laureato in Legge, iscritto al PNF dal 24 
				maggio 1934, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili, 
				volontario in AOI, sottotenente di fanteria: Addetto allo Sport. 
				
				 
				8 dicembre 1984 
				Moto di mafia (in Parlamento) 
				
				 
				Dal documento XXIII 1/2, IX legislatura, XXV Tomo del 4° volume, 
				pagine 3011 e seguenti, allegato alla relazione conclusiva della 
				Commissione antimafia, la seguente intercettazione telefonica, 
				effettuata per la fuga di Luciano Liggio: 
				«Turno con orario 14-22 del 6.3.1970, ore 14.35. In entrata, 
				voce di uomo a nome Simone Gatto, risponde voce di uomo, a nome 
				Peppino e parlano: 
				Simone: Ti ho telefonato per dirti che ho parlato con Pietro e 
				con la moglie di Pietro di quel loro contrasto. 
				Peppino: Sì, esatto, esatto.. 
				Simone: Io ti volevo proporre una cosa, se ci vediamo domani, in 
				mattinata. 
				Peppino: Quando vuoi Simone, sinceramente non ti dico che sono 
				lieto di questo incontro, per questa occasione, ma ne sono lieto 
				per vederti Simone. 
				Simone: Verso le 10, le 10.30. Vieni al Senato, cerca di me. Ti 
				accompagneranno sopra. 
				Si salutano. 
				I personaggi: Simone Gatto, già del gruppo parlamentare della 
				Sinistra indipendente. Vice presidente del Senato. Eletto nel 
				collegio di Trapani e di Enna per tre legislature. 
				Sottosegretario al Lavoro nel 1° Governo Moro, presidente della 
				Commissione Lavoro del Senato. Ha fatto parte della Commissione 
				di inchiesta sulla mafia fin dalla sua costituzione. 
				Peppino, o meglio Giuseppe Mangiapane. La Commissione antimafia, 
				nella relazione conclusiva, si occupa di lui alle pagine 263, 
				271, 378, 413, 490, 492, 1039, 1072 e passim, 1268. 
				Il senatore MacLellan riferisce, nel suo famoso rapporto, che 
				Frank Coppola, «oltre essere un noto criminale, un Killer, era 
				associato nel traffico internazionale della droga a Lucky 
				Luciano, a Giuseppe Mangiapane e a Carlos Marcello, noto 
				gangster ...». 
				* * * 
				Quando l'intercettazione telefonica sull'apparecchio di 
				Mangiapane Giuseppe, trafficante internazionale di droga, 
				avveniva, correva il 3 marzo 1970, quattordici anni fa... Dunque 
				quattordici anni fa il Vicepresidente del Senato della 
				Repubblica italiana riceveva, nelle... severe stanze di Palazzo 
				Madama, un trafficante di droga internazionale. 
				1970-1984: quanti assassini, eccellenti e no, sono accaduti in 
				questi anni? 
				Andate a vedere se, dopo quell'intercettazione, vi sia stato, al 
				riguardo, qualche provvedimento. 
				Nulla; si è soffocato tutto, dolcemente... E le lupare hanno 
				continuato a crepitare. 
				* * * 
				In data 13.1.1972, con numero di protocollo z23/461-1, corredato 
				da 8 allegati, giunge alla Commissione antimafia, allora 
				presieduta da Francesco Cattanei, il famoso rapporto del 
				Comandante la Legione dei carabinieri di Palermo, Carlo Alberto 
				Dalla Chiesa su «Francesco Vassallo, costruttore edile», e i 
				suoi amici politici. 
				Nell'allegato numero 5, citato nella relazione di minoranza dal 
				sottoscritto, si raccontano le vicende della società cooperativa 
				a.r.l. "Banca Popolare di Palermo", fondata nel 1956 da diversi 
				soci, fra i quali Salvo Lima e noti mafiosi, come Prestifilippo 
				Giovanni, nipote del noto mafioso (così Dalla Chiesa nel suo 
				rapporto) Prestifilippo Girolamo, uno dei maggiori esponenti del 
				clan Greco. 
				Dalla Chiesa, nel rapporto, li enumera, uno per uno, questi 
				soci, con le note caratteristiche accanto: arrestato, 
				pregiudicato, mafioso, elemento pericoloso, appartenente ad 
				organizzazione a delinquere. Accanto al nome di Lima è detto: 
				Lima Salvatore, classe 1928, da Palermo, deputato nazionale per 
				la DC. 
				L'allegato citato, pubblicato nel Doc. XXIII 1/V, VIII 
				legislatura, volume 4, tomo X (pagine 534-539), dopo avere 
				raccontato l'attività della Banca, gli sportelli aperti in 
				Palermo, Partanna Mondello, Villafrati, Misilmeri, termina cosi: 
				«In merito all'attività della citata Banca, sono state raccolte 
				voci in diversi ambienti relative a finanziamenti ottenuti da 
				personaggi dediti al contrabbando internazionale, in qualche 
				modo collegati ad alcuni soci, non potuti identificare, della 
				Banca stessa». 
				* * * 
				Il rapporto, con gli allegati, capita sul tavolo del Presidente 
				dell'antimafia, il democristiano Cattanei, nel gennaio 1972. 
				Credete voi, che sia stata presa la decisione di interrogare 
				Salvo Lima? 
				Nemmeno per idea. E dato che Dalla Chiesa sospettava che dietro 
				gli sportelli di quella Banca controllata fra l'altro dal clan 
				dei Greco, si facesse contrabbando internazionale (e non certo 
				di sigarette), quale occasione migliore, per i... notabili di 
				questa Repubblica, se non nominare sottosegretario alle Finanze, 
				con la delega di sovrintendere alla Guardia di Finanza, proprio 
				Salvo Lima? 
				E così è avvenuto. Chi era (ed è), in Roma, il protettore di 
				Salvo Lima? 
				Giulio Andreotti. Come volevasi dimostrare. 
				* * * 
				Fatto curioso, che affidiamo all'attenzione dei magistrati 
				palermitani. Degli otto allegati al rapporto Dalla Chiesa, già 
				citato, ne vedono la luce solo sei. Due, e precisamente il sesto 
				e l'ottavo, non vengono pubblicati per volontà dell'onorevole 
				del PCI Pio La Torre, assassinato dalla mafia. 
				Infatti nel volume citato è testualmente detto: «Viene omessa la 
				pubblicazione dell'intero allegato, in quanto, a giudizio del 
				relatore di minoranza, deputato Pio La Torre, le notizie in esso 
				contenute non hanno specifica concludenza rispetto agli 
				argomenti trattati nella sua relazione». 
				Che c'è scritto in questi allegati rimasti top-secret? 
				E perché Pio La Torre pose il suo veto alla loro pubblicazione? 
				Eppure quelle note erano di mano dell'allora colonnello Carlo 
				Alberto Dalla Chiesa. 
				* * * 
				Nell'articolo n. 7, Carlo Alberto Dalla Chiesa, compie una 
				radiografia dell'impresa edile Averna e Geraci, e poi Geraci 
				Saverio e C. 
				Tra gli affari dell'Impresa, Dalla Chiesa enuncia i seguenti: 
				17.XI.1961: acquisto dal noto mafioso Rosario Mancino di un'area 
				edificabile, sita nella villa Orleans di Palermo, a prezzo 
				unanimemente ritenuto irrisorio. 
				15.XII.1961: vendita a Pennino Vincenzo, cugino del noto 
				Ciancimino Vito, di un appartamento in via Tevere, al prezzo 
				dichiarato di 7 milioni. 
				17.XI.1961: vendita al noto mafioso Angelo La Barbera di un 
				appartamento, in Via Veneto, al prezzo dichiarato di 7.300.000. 
				9.VI.1962: vendita a La Barbera Salvatore, fratello del più noto 
				Angelo, mafioso, scomparso, di un appartamento in Via Veneto, al 
				prezzo dichiarato di 13.500.000. 
				3.X.1961: vendita all'on. del PRI Aristide Giumella, di un 
				appartamento in Via Veneto, al prezzo dichiarato di 12 milioni. 
				Le indagini, scrive Dalla Chiesa, acclararono che. l'impresa si 
				dovette assoggettare a regalare appartamenti ai detti mafiosi La 
				Barbera, e Mancino, al fine di ottenere protezione. 
				A tale riguardo, e per le singolari coincidenze che si 
				evidenziano a vista d'occhio, l'on. repubblicano (il partito 
				della questione morale) Aristide Gunnella, non è stato mai 
				ascoltato. Anzi. Il PRI, il partito della moralità pubblica, lo 
				ha fatto sottosegretario e, più recentemente, vice segretario 
				nazionale del PRI. 
				
				 
				15 dicembre 1984 
				Torino, la Mecca della 
				tangentocrazìa 
				
				 
				Lo scenario: la cappella dell'antico Istituto delle Rosine, in 
				Torino, trasformata in tribunale.  
				Protagonista: il gran corruttore, il ragioniere Adriano Zampini, 
				piemontese. Gli fanno corona il vice sindaco di Torino, il 
				socialista Enzo Biffi Gentili; il deputato del PSI Giuseppe La 
				Ganga, uno dei vertici del partito; gli ex-assessori alla 
				Regione Piemonte, i socialisti Claudio Simonelli e Gianluigi 
				Testa; l'ex-deputato del PSI Francesco Frojo; l'ex-assessore al 
				patrimonio del Comune di Torino Libertino Scicolone del PSI; il 
				prof. Giuseppe Gatti consulente a più riprese di diversi governi 
				nazionali, già capo gruppo della DC alla Regione Piemonte, 
				vicinissimo al vice segretario nazionale della DC Bodrato; gli 
				ex dirigenti della DC Liberto Zattoni e Giovanni Falletti; Nanni 
				Biffi Gentili, fratello di Enzo, già vicesegretario di Torino 
				del PSI; Umberto Pecchini responsabile Fiat del settore 
				relazioni istituzionali; Giancarlo Quagliotti, capogruppo del 
				PCI al Comune di Torino e Franco Revelli, capogruppo alla 
				Regione per conto del PCI. 
				Le imputazioni: interesse privato in atti di ufficio, 
				corruzione, associazione per delinquere. 
				* * * 
				«È un'ora triste» -scrive il "Corriere della Sera" (27.XI.84), 
				sotto il titolo "Watergate subalpino"- «per la città di Einaudi, 
				di Gobetti, di Gramsci, di Bobbio. Ma c'è chi si consola 
				guardando al resto d'Italia... La corruzione fa leva anche sulle 
				frustrazioni individuali e sulla noia di una città priva di 
				salotti e di terrazze mondane. Un viaggio a Las Vegas -è sempre 
				il "Corriere" che parla- una palettata di caviale, possono far 
				breccia anche nel cuore di un assessore comunista. Piaccia o no, 
				il PCI non rappresenta più un'umanità diversa, un'isola di 
				spartana sobrietà. La cultura del successo, ormai dominante in 
				Italia, è penetrata anche li». 
				* * * 
				Vediamola questa cultura del successo, cosi come veniva 
				praticata dal ragionier Adriano Zampini per corrompere una 
				intera città, la città di Torino: Comune, Provincia, Regione, la 
				Fiat, politici, sindacalisti, industriali, banchieri, 
				portaborse. 
				«Un viaggio a Las Vegas, una palettata di caviale, possono far 
				breccia anche nel cuore di un assessore comunista», afferma il 
				filosofo di sinistra Gianni Vattimo. 
				Infatti il ragionier Adriano Zampini aveva, al riguardo, una 
				tecnica tutta sua, ma, se ci fate caso, talmente generalizzata 
				in Italia, da non essere affatto difficile ad individuare uno 
				Zampini in ogni città. 
				* * * 
				Per me questi viaggi intorno al mondo» -spiega lo Zampini 
				("l'Espresso" 18.XI.84)- «avevano un obiettivo molto preciso: 
				riuscire in poco tempo a passare con questi personaggi, da 
				quell'amicizia che lega chi fa gli affari insieme a quella, 
				molto più solida, che lega, che viene dall'andare in piscina 
				insieme, dall'ubriacarsi insieme, dal fare porcate insieme (...) 
				I viaggi organizzati da me univano l'utile al dilettevole. Erano 
				ufficialmente spedizioni di lavoro perché si andava a visitare 
				gli impianti da fornire al Comune, alla Regione, ma c'era anche 
				il tempo per divertirsi. E chi è quell'uomo, o quella donna che, 
				così lontano da casa, in mezzo a champagne e caviale, non 
				commette qualche sciocchezza che lo renderà se non ricattabile, 
				quanto meno compromesso agli occhi del corruttore che li 
				accompagna passo passo, pronto a farli star bene, a fare in modo 
				che non si annoino?». 
				(Adriano Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84) 
				* * * 
				«I soldi scorrevano veloci. Una volta, in aereo, era il 
				Concorde, comprai regalini per tutti, spendendo tre milioni. Mi 
				ricordo che feci compilare la distinta al prof. Giuseppe Gatti 
				(già consigliere economico del ministro Bodrato, democristiano 
				di sinistra dell'area Zaccagnini, già capo gruppo DC alla 
				Regione Piemonte, N.d.R.). Rimase allibito dalla cifra, ma non 
				disse niente e, da quel momento, per ciò che mi riguardava, era 
				fatto, era compromesso, cioè pronto a far parte del gioco». 
				(A. Zampini, "l'Espresso", 18. XI. 84) 
				* * * 
				«Un'altra volta, eravamo a Stoccolma, andammo a cena in un 
				locale dove c'era uno spettacolo fatto da uomini travestiti. 
				Eravamo in sei o sette e spendemmo due milioni e mezzo: bevemmo 
				un paio di casse di Veuve Cliquot e finimmo a palettate di 
				caviale, a tirarci il caviale in faccia ...». 
				(A. Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84) 
				* * * 
				«Sempre sul Concorde un comunista, Raffaele Radicioni, assessore 
				al Comune di Torino, si lasciò andare dopo aver mangiato di 
				tutto (aragoste, caviale ...) e bevuto un bel po' di Brunello di 
				Montalcino (100.000 lire a bottiglia - N.d.R.): "però -disse- 
				questo capitalismo ha anche i suoi Iati positivi" ...». 
				(A. Zampini, "l'Espresso", 18.XI.84) 
				* * * 
				Una pausa, per riflettere. Chi sta raccontando le vicende su 
				riportate, ha dichiarato di avere versato tangenti per più di 
				due miliardi di lire, e per sua stessa ammissione, si stava 
				accingendo (se i carabinieri non fossero intervenuti a mettere 
				le manette all'intera banda superpartitica) ad intascare 
				illecitamente qualcosa come 20 miliardi di lire, tutti 
				provenienti dalle casse pubbliche di Torino, la Torino rossa, la 
				Torino operaia, la Torino intellettuale, culla dell'antifascismo 
				e della resistenza. 
				* * * 
				State a sentire. 23 novembre 1984: il Presidente del Tribunale 
				chiede a Zampini: come ha conosciuto gli uomini che sono seduti, 
				insieme a lei, sul banco degli imputati? 
				Risposta: ... «Salvini della Siemens Data mi fu presentato da 
				Claudio Bellavista della sinistra del PSI. In cambio io diedi 
				dei milioni per la campagna elettorale della sinistra 
				socialista. Servivano ai candidati Giovanni Astengo e Michele 
				Moretti. Consegnai i soldi (fate bene attenzione! - N.d.R.) in 
				presenza di Nerio Nesi, dell'onorevole Fiandrotti e di altri 
				esponenti del PSI che ringraziarono. Astengo non voleva saperne, 
				ma i soldi erano necessari perché secondo quanto poi disse uno 
				di loro, Nesi aveva venduto (sic! - N.d.R.) la corrente di 
				sinistra a Craxi per la presidenza della Banca Nazionale del 
				Lavoro... Nesi mi ringraziò e mi disse anche di portare la 
				documentazione della mia azienda perché poteva essere utile alla 
				Banca Nazionale del Lavoro, di cui è presidente».. 
				* * * 
				Abbiamo notato sulla stampa le smentite del sindacalista Giorgio 
				Benvenuto, accusato da Zampini di avere ricevuto, dal presidente 
				della Federmeccanica Walter Mandelli, 20 milioni di lire «in una 
				scatola di cioccolatini»; abbiamo notato la smentita dell'on. 
				Arcangelo Lobianco, presidente della Coldiretti per l'accusa di 
				tangenti percepite; ma, fino ad oggi, dal presidentissimo della 
				Banca Nazionale del Lavoro, una delle più prestigiose del 
				sistema bancario italiano, non è giunto, al riguardo, nemmeno un 
				rigo. O non ce ne siamo accorti? 
				* * * 
				Quando venti mesi fa (2 marzo 1983) scoppiò lo scandalo di 
				Torino, per cui oggi si celebra il processo, Luigi Arisio, 
				deputato, animatore della famosa rivolta dei quadri intermedi, 
				la marcia dei quarantamila, dichiarò: «Ciò che è accaduto a 
				Torino in materia di tangenti è peggiore del terrorismo ("la 
				Repubblica", 7 marzo 1983). Gli fece eco lo scrittore Giovanni 
				Arpino che sul settimanale "Gente" (8.3.83) affermò: «La 
				corruzione dei politici è per Torino la vera morte civile». 
				Dunque: un super-partito, dalla DC al PCI, al solo scopo di 
				mettere le mani sui soldi dei cittadini. 
				E la Lookheed della classe politica torinese. La «leggenda» 
				della Torino rossa che occupa le fabbriche, diventa la «favola» 
				della Torino «progressista» che occupa il Comune, la Provincia, 
				la Regione, per rubare. 
				Che tramonto. 
				* * * 
				Quando nel marzo 1983, i carabinieri misero le manette alla 
				classe politica torinese, "la Repubblica" mandò un suo redattore 
				ai cancelli di Mirafiori, a tastare il polso ai lavoratori. Ve 
				le ricordate le risposte? 
				«E Novelli che cosa vuole? Che aspetta ad andarsene? Aveva il 
				circolo dei ladri intorno a sé e lui dove era? Non vedeva? Se ne 
				vada, se ne vada...». (16.3.83) 
				«Questa giunta è stata una delusione, creda a me. Lo sa come lo 
				chiamano il sindaco? Lo chiamano "Diego il fiorista", perché da 
				quando c'è lui la città è invasa da fiori ed aiuole, ma non si 
				costruisce una casa». (16.3.83) 
				«Non bisogna più farli entrare in Comune, venti anni di galera 
				ci vorrebbero, altroché!» 
				«Vadano a lavorare alle quattro del mattino in fabbrica e a 
				vedere quanto costa sudarsi un milione... Quei porci si fottono 
				miliardi. Ma è giustizia questa? E proprio la giunta rossa 
				doveva permettere queste cose? Al muro li metterei, lo scriva, 
				che li metteremo tutti quanti al muro!» (16.3.83) 
				* * * 
				Torino non è un episodio da poco. Ciò che è accaduto a Torino è 
				più importante di ciò che accade a Napoli, a Palermo. La storia 
				è tutta raccontata ora in Tribunale. Le Federazioni del MSI-DN 
				sappiano leggere, in questa vicenda, la lezione che ne 
				scaturisce; ne facciano politica-forte da portare in mezzo alla 
				gente. 
				Ecco che cosa capita quando i partiti, anziché occuparsi dei 
				problemi della gente, privilegiano la politica come 
				arricchimento, la politica come lottizzazione, la politica come 
				corruzione. 
				Spregiudicatezza, avventurismo, trasformismo; ma poi vengono le 
				manette. 
  
				
				22 dicembre 
				1984 
				Visentini e l'ambizione 
				
				 
				«Rappresenta uno stile nuovo». «Sembra che voglia redimere i 
				peccatori». «È uno che non pratica la discutibile arte del 
				compromesso». «Ha una dote: sa andarsene». 
				E giù ancora: «Visentini mette in crisi le coscienze». «Gli 
				operai sono visentiniani». «Rigorista laico». «È ironico, ha 
				gusto, è composto, è colto». «Il suo: un nuovo modo di fare 
				politica». 
				Così "la Repubblica" del 15.12.84, a firma di Paolo Guzzanti. 
				* * * 
				Già, il 13.12, sempre su "la Repubblica", una intervista con 
				Giorgio Ruffolo, presidente socialista della Commissione 
				Finanze, aveva stabilito lo spartiacque: da una parte l'Italia 
				dei bottegai: cialtrona, gentaglia, esercito di evasori fiscali 
				di professione; dall'altra parte, quella di Visentini: l'Italia 
				degli onesti, l'Italia civile, che lavora; che paga le tasse. 
				I socialisti, sottolineava Ruffolo, sono con l'Italia di 
				Visentini. «La riforma fiscale è cosa nostra, è nella storia del 
				partito: se cade Visentini cade tutto il riformismo del PSI». 
				* * * 
				È esatta questa analisi? È vero che esiste questa frontiera: il 
				Paese moderno, civile e il Paese dell'intrallazzo e 
				dell'arrangiamento? E possono i socialisti fare, a tale 
				proposito, la morale, stabilire dove stanno i buoni, dove 
				collocare i cattivi, parlare e discutere di onestà, di 
				correttezza, di rigore amministrativo? Ma Giorgio Ruffolo le 
				cronache scaturenti dal processo di Torino, sulle «tangenti» e 
				altro, le ha presenti? Legge? Ma in che mondo vive? 
				* * * 
				Cosa sta accadendo? Come è possibile che «il nuovo modo di fare 
				politica» di Bruno Visentini, il disegno politico che spunta 
				dietro la criminalizzazione dei bottegai, veda, oggi, 
				consenzienti proprio quei socialisti che, appena qualche anno 
				fa, furono i più feroci avversari del «disegno» politico portato 
				avanti dal ministro delle Finanze, arrivando perfino 
				all'ingiuria più plateale? 
				E come si spiega che il colto, il misurato, il giusto Bruno 
				Visentini se la intenda proprio con quei socialisti, da sempre 
				accusati di essere dei pasticcioni, dei volgari arrampicatori, 
				dei politici da quattro soldi? 
				Affermazioni false? Andiamo a vedere. 
				* * * 
				Ventinove febbraio 1980, proprio alla vigilia dell'introduzione 
				della ricevuta fiscale obbligatoria nei ristoranti, il "Corriere 
				della Sera" pubblica un articolo di Bruno Visentini. Titolo: 
				«Ricevuta fiscale, ma all'italiana». 
				Prendendo le difese degli osti, Bruno Visentini, già ministro 
				delle Finanze, mette sotto accusa Franco Reviglio, il ministro 
				socialista delle Finanze in carica, l'inventore della ricevuta 
				fiscale. Si tratta, scrive Visentini, di improvvisazione e di 
				esibizionismo. 
				Il 29 marzo 1980, seconda bordata. Sempre sul "Corriere della 
				Sera", allora organo della P2, Visentini mette sotto processo 
				tutte le iniziative del «socialista» Reviglio: ricevuta fiscale, 
				superispettori, l'imposta sulla seconda casa, il libro rosso 
				degli evasori. «Tutto questo -scrive Visentini- costituisce 
				soltanto la parodia della lotta all'evasione». 
				Questi i giudizi di Visentini sui socialisti, quattro anni fa. 
				* * * 
				Abbiamo scritto che Bruno Visentini ha illustrato se stesso (e 
				le sue proposte), servendosi della... cattedra del "Corriere 
				della Sera", quando il quotidiano di Via Solferino era 
				controllato dalla P2. 
				Non sarà male ricordare che quello che sta spuntando dietro le 
				quinte della «legge Visentini», e cioè una nuova maggioranza (il 
				governo dei tecnici e degli onesti), è un disegno che il 
				ministro delle Finanze, con quella caparbietà che gli è propria, 
				porta avanti da anni. Di variato c'è solo la componente 
				socialista: quattro anni fa esclusa da simile progetto, oggi ne 
				fa parte. Dallo scontro all'incontro Craxi-Visentini. 
				* * * 
				Ricordate? Dicembre 1980, rapimento D'Urso. L'emergenza fa 
				salire dai centri di potere, dal mondo imprenditoriale 
				«impegnato», dalla stampa radicale e piduista ("la Repubblica", 
				il "Corriere della Sera"), richieste e invocazioni di «governi 
				forti», di rimedi eccezionali. Quasi, quasi ci si augura che 
				anche D'Urso faccia la fine di Aldo Moro. Sarà cosi più facile 
				realizzare il disegno autoritario dei tecnici e degli onesti. È 
				in questo quadro che Gelli elabora il suo «Piano di rinascita 
				democratica» (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI-DN), ma è anche in questo 
				contesto che Bruno Visentini (13 ottobre 1980), dalle colonne 
				del piduista "Corriere della Sera", lancia la proposta di un 
				governo omogeneo di capaci e di onesti, con o senza tessera di 
				partito (modo velato per dire: aperto al PCI). 
				* * * 
				Aprile 1981, Palermo, Congresso del PSI. Bettino Craxi, 
				replicando alla proposta avanzata da Bruno Visentini circa il 
				governo dei capaci e degli onesti, replica, citando Benedetto 
				Croce: 
				«L'ideale che cova nell'animo di tutti gli imbecilli e prende 
				forma nelle non cantate prose delle loro invettive, 
				declamazioni, utopie, è quello di una sorta di aeropago di 
				onestuomini ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del Paese». 
				In breve Benedetto Croce serve a Craxi per dare del «cretino» a 
				Visentini. È il 24 aprile 1981. 
				* * * 
				Non basta. Ottobre 1981, presidente del Consiglio è Giovanni 
				Spadolini, succeduto a Forlani, caduto sulla vicenda P2. 
				Su "il Sole - 24 ore", Bruno Visentini, in un lungo articolo fa 
				la (sua) storia circa lo scontro, fra le forze politiche, per il 
				controllo politico del "Gruppo Rizzoli - Corriere della Sera". 
				Ed è subito rissa. 
				Visentini, non solo accusa i socialisti di servirsi del caso 
				Rizzoli come di un diversivo per stornare l'attenzione dalle 
				dichiarazioni del banchiere Calvi che indicano il PSI «come 
				destinatario all'estero di cifre ingenti», ma scrive che della 
				trattativa, circa l'acquisto del "Corriere" da parte di Carlo De 
				Benedetti, era stata data notizia al Presidente del Consiglio 
				dei ministri Giovanni Spadolini; con il che Visentini andava a 
				cercare rogna in casa propria, chiamando pesantemente in causa 
				lo stesso presidente del Consiglio, accusato di sapere che il 
				"Corriere" passava di mano... 
				* * * 
				Al che, questa interpellanza (ottobre 1981), a firma del 
				socialista Claudio Martelli, diretta al presidente del Consiglio 
				dei ministri, Giovanni Spadolini: 
				«Se il presidente del Consiglio dei ministri sia al corrente di 
				incontri e di trattative aventi lo scopo di definire il 
				passaggio delle quote di maggioranza della Rizzoli, valutate 
				oltre 100 miliardi di lire; incontri e trattative aventi per 
				protagonista il senatore Bruno Visentini presidente del PRI (di 
				cui è segretario il presidente del Consiglio) nonché presidente 
				della società Olivetti e il dott. Carlo De Benedetti, 
				amministratore delegato della stessa società, con Bruno Tassan 
				Din e quindi in forma personale o delegata con l'avvocato 
				Umberto Ortolani». 
				Accusa pesantissima: Visentini, tu tratti con il piduista 
				avvocato Ortolani, e il presidente del Consiglio ti tiene 
				mano... 
				* * * 
				Al che, la replica di Spadolini: «Si precisa che il presidente 
				del Consiglio (a diversità di quanto afferma Bruno Visentini) è 
				stato informato dell'avvenuta trattativa fra il gruppo Rizzoli e 
				il gruppo De Benedetti soltanto il giorno 30 settembre, a 
				seguito di una telefonata dell'on. Bettino Craxi che ne aveva 
				ricevuto comunicazione da Milano». 
				Così Bruno Visentini, il colto, il giusto, il composto ministro 
				delle Finanze, si prende, e da parte del segretario del suo 
				partito, la qualifica di bugiardo. 
				Tutto quello che volete: un grande uomo, ma anche uno che dice 
				le bugie. Ce la vogliamo aggiungere alle molte virtù che 
				arricchiscono la figura di Bruno Visentini, anche questa 
				«qualità», la qualità di dire le bugie? 
				* * * 
				Cerchiamo di trarre la morale da questa vicenda visentiniana, 
				con lo sfondo, come pretesto, i bottegai. 
				Allora è giusto dare il potere ai tecnici, agli imprenditori 
				privati, ai sostenitori del libero mercato? Solo loro gli 
				onesti? 
				È una colossale mistificazione. 
				Ma come si fa a sostenere, tanto per fare un esempio, che Carlo 
				De Benedetti al governo, che ha coperto Calvi in difficoltà 
				assumendosi la carica di vice presidente dell'Ambrosiano, 
				sarebbe più credibile di un Craxi che ha difeso Calvi in 
				Parlamento? 
				Come si fa a sostenere che «tecnici» dell'iniziativa privata 
				come Sindona, come Calvi, come Caltagirone, come Gelli, come 
				Cruciani, come Rovelli, possano risolvere i mali d'Italia? 
				Ci vuole ben altro. La Nazione è infetta. Il disegno caro a 
				Visentini dimentica, o fa finta di dimenticare, che gli esempi 
				più clamorosi di corruzione, di cui è piena l'attuale storia 
				italiana, vedono come protagonisti proprio i potentati 
				dell'economia cosiddetta libera, i più grandi finanzieri, le 
				tecnostrutture, gli apparati separati dello Stato. 
				A Torino -non lo si dimentichi- nella palude maleodorante della 
				vicenda delle tangenti, oltre il mondo politico, giganteggia la 
				Fiat. 
				Ed allora, torniamo all'inizio del nostro ragionamento, è vero 
				che il decreto Visentini rappresenta l'altra Italia, quella 
				pura, limpida, onesta? 
				I socialisti applaudono. Anche i comunisti. Tutti contro i 
				bottegai. 
				Ma i bottegai sono davvero la ragione della grande bagarre? O si 
				tratta d'altro? Ma di che cosa? 
				Proviamo a dirla. Visentini sarà giusto, colto, grande. Ma è 
				anche un impenitente ambizioso. Fino alla follia. E sente che 
				può farcela. Il Quirinale è lì, tentatore. 
				E Visentini ci prova. 
				
				 
				Giuseppe Niccolai  |